Missili zero intelligenti ma fra Nato e Russia…

… c’è una terza via: costruire la pace

articoli, video, musica, vignette di Ramin Mazaheri, Pepe Escobar, Francesco Santoianni, Verdiana Siddi, Giuseppe Masala, Stefano Orsi, Manlio Dinucci, Giacomo Gabellini, Pino Arlacchi, Enrico Tomaselli, Gianandrea Gaiani, Francesco Masala, Toni Capuozzo, Mirko Mussetti, Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, Antonio Mazzeo, Maria Pastore, Adriana Pollice, Quino, Fausto Amodei, con un appello per l’uscita dell’Italia dalla guerra

Appello alla mobilitazione. Costruiamo un’alleanza trasversale per la Pace e l’Economia.

Invito alla mobilitazione per l’uscita dell’Italia dalla guerra, contro le sanzioni alla Russia, a favore del nostro Paese quale mediatore di Pace.

Uscire dalla guerra che divampa dall’Europa al Nordafrica e al Medioriente, operare per una soluzione diplomatica, salvare l’economia.

La guerra — militare, economica, politica, mediatica, ideologica — sta travolgendo la nostra vita su tutti i piani. È anzitutto la guerra economica quella che sta “bombardando” a intensità crescente il nostro Paese. Senza materie prime ed energia tutto si ferma (cibo, farmaci, sanità, trasporti, illuminazione pubblica, internet, ecc.). L’energia a costi insostenibili provoca la paralisi progressiva del sistema produttivo e di quello dei servizi.

No alle sanzioni Il gas russo è il più economico al mondo. Impedire che lo si possa usare, sostituendolo col GNL il cui prezzo è determinato da meccanismi speculativi, costituisce un atto di guerra contro l’Italia e gli italiani. Vengono colpite le famiglie, i lavoratori, le piccole e medie imprese di tutti i settori — commercio, agricoltura, industria, allevamento, pesca, ristorazione, turismo — già pesantemente colpiti dai lockdown. Il costo della vita è in continuo aumento. Fallimenti, chiusure, cassa integrazione e licenziamenti, deindustrializzazione, crollo dei consumi, degrado e miseria crescente ne sono la conseguenza più immediata.

Non c’è più tempo da perdere È necessario mobilitarsi perché si possa uscire dal vicolo cieco nel quale siamo stati costretti. Portare alla luce lo scontento che corre orizzontalmente per il Paese. Opporci al sabotaggio istituzionale e all’attacco ormai sistemico alla nostra economia.

È in gioco la sicurezza nazionale La crescente e diffusa consapevolezza di come la partecipazione cobelligerante del nostro Paese sia stata una scelta suicida, imposta da quei poteri sovranazionali cui il governo Draghi ha dato esecuzione, può e deve diventare una forza autorganizzata trasversale, attuando il principio costituzionale che la sovranità appartiene al popolo.

Partecipa alla costruzione di una grande alleanza trasversale contro la guerra per l’economia e il bene comune! Chiediamo all’unisono il ritiro delle sanzioni, il ritiro dalla guerra e che l’Italia medi attivamente per la ricostruzione delle condizioni della Pace. Diciamo no alle sanzioni, no al finanziamento della guerra e all’invio di armi, no alle spese militari, sì ad un ruolo attivo del nostro Paese quale mediatore di Pace.

Aderite, firmate e condividete!

https://www.fuorilitaliadallaguerra.it/

 

 

Perché l’Ucraina sta sempre vincendo la guerra – Ramin Mazaheri

Negli Stati Uniti la politica editoriale dei media non ha vacillato su un argomento quest’anno: L’Ucraina sta sempre vincendo la guerra.

Dalla prima settimana, quando l’aviazione e la marina ucraine sono state distrutte, fino alla distruzione della rete elettrica della scorsa settimana – questo è l’aspetto della “vittoria” in lingua ucraina, a quanto pare. I russi possono incorporare elettoralmente un territorio dopo l’altro, ma suggerire che la vittoria ucraina non sia già arrivata è proibito negli spazi pubblici americani.

Che senso ha leggere la copertura americana dei disordini in Ucraina quando è così assurda?

Lo scopo è: imparare cosa pensa l’America, ovviamente. Se è un’illusione, allora – che ci piaccia o no – questa è la storia, e la storia si scrive sempre da sola in un giornalismo onesto.

Stavo parlando con un tassista polacco che ho trovato estremamente intelligente, e non solo perché ha un cognato iraniano, e quindi conosce e rispetta la cultura iraniana. Questo tassista immigrato da tempo era molto favorevole all’Ucraina e antirusso, com’è suo diritto e non è inaspettato, ed era un tipico polacco in quanto ardentemente filo-americano. Tuttavia, mi ha detto volontariamente che trovava che gli americani fossero le persone più efficacemente propagandate al mondo – diceva che, invariabilmente, si limitavano ad imitare qualsiasi cosa sentissero nei notiziari televisivi.

Una cosa è respingere le critiche dei propri nemici, ma quelle dei propri amici meritano una riflessione.

Personalmente ho riscontrato anche la stessa ferrea conservazione del dogma: gli americani mi dicono che solo nelle ultime settimane hanno sentito qualcuno anche solo suggerire l’idea che la guerra non stia andando bene per gli ucraini. Sono d’accordo, perché non ho ancora sentito un’osservazione del genere (al di fuori delle interviste agli analisti politici per il mio lavoro a PressTV), e ho ricevuto molti sguardi strani quando ho sollevato l’idea – nella mia vita personale – di discuterne.

Dopotutto, per gli americani è una notizia felice di cui parlare: “Ehi, avete sentito? Gli ucraini stanno vincendo la guerra! Ancora!”. Tuttavia, il mio ruolo negli Stati Uniti è quello di essere un lenzuolo bagnato, ogni volta che le discussioni diventano politiche mi lamento.

Quando si parla di Ucraina, parto dal fatto che ho vissuto in Francia negli ultimi dieci anni e che – poiché la Francia è di solito al centro della diplomazia europea – ho fatto un reportage sui disordini in Ucraina dal 2014. Al solo accenno all’idea che l’Ucraina esistesse prima del febbraio 2022, i loro occhi si velano.

Allo stesso modo, di recente qualcuno si è congratulato con me per la rivoluzione iraniana. Che cosa piacevole da sentire, grazie! Purtroppo, questa persona si riferiva agli attuali disordini della legge anti-hijab e non al 1979. Come l’Ucraina sta vincendo la guerra, così questa persona era convinta che queste proteste avessero attuato una (contro)rivoluzione. Quando si parla di Iran, l’occhio velato americano “non si può permettere che questa informazione penetri anche solo momentaneamente nella mia mente” inizia prima – arriva alla prima parola contraria che pronuncio.

Ho citato l’Iran per mostrare lo schema: l’Ucraina ha sempre vinto, sta vincendo ora e vincerà in futuro, perché gli Stati Uniti vincono sempre ogni guerra che iniziano.

Dopotutto, gli Stati Uniti hanno sempre vinto la guerra in Afghanistan. L’unico disaccordo interno mai ammesso riguardava la loro ritirata totale nell’agosto 2020: era stata pianificata male o no? Se si tratta della prima ipotesi, allora la vittoria totale degli Stati Uniti è stata vergognosamente (anche se solo leggermente) offuscata dalla ritirata totale degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti hanno sempre vinto la guerra in Iraq. Colpisci e terrorizza [“Shock and awe”, nome dell’operazione militare Usa] hanno prevalso dall’inizio alla fine, e il finale è stato uno shock totale per quanto poco di positivo la guerra guidata dagli Stati Uniti ha creato, sia per gli iracheni che per gli americani. Il fatto indiscutibile della vittoria americana, tuttavia, è stato totalmente impressionante, ovviamente.

Il disastro balcanico della Libia? Un’altra vittoria. Assad è ancora in piedi in Siria? Ancora una vittoria, anche se non chiedete spiegazioni. Le guerre fredde in Iran, Cuba, Venezuela, Corea del Nord, Nicaragua e qualsiasi altro paese rivoluzionario? La vittoria è così vicina che i media statunitensi possono vederla, insistono.

Questi sciocchi malumori politici non possono essere imputati all’americano medio: tutti questi luoghi sono così lontani e distanti dalla precaria quotidiana corsa al successo/tiro a segno che è la vita americana, e le informazioni che possono trovare sono così incredibilmente unilaterali.

La negligenza può costituire un crimine, certo, ma dobbiamo imparare che qui non c’è vera e propria cattiveria: non mi ha sconvolto fare un servizio su un sondaggio di politica estera [in inglese] di prim’ordine che ha mostrato che il 79% degli americani vuole la pace con l’Iran. Questo è addirittura il tema di politica estera che ha ottenuto il maggior numero di consensi, tranne uno: con un punto percentuale in più, gli americani vogliono un maggiore controllo legislativo sulla capacità del potere esecutivo di fare la guerra – cioè vogliono più pace…

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E ora i missili non sono 2 ma uno solo! – Francesco Santoianni

Assodato che l’attacco non era dei russi, passa ufficialmente da due a uno il numero dei missili che hanno colpito la Polonia. Perché? Perché se è stato UN missile ucraino si può sempre dire che era della contraerea ucraina e caduto per errore su una fattoria polacca. Ma se sono DUE, considerato che è praticamente impossibile che cadano per errore due missili nello stesso posto, l’ovvia conclusione è che sono stati lanciati intenzionalmente, con lo scopo di creare una false-flag e coinvolgere la NATO nel conflitto. Lanciati per ordine di chi? Gli occhi di tutti sono puntati su Zelensky, ma visto che non si può ammettere pubblicamente la sua inaffidabilità meglio dire che ci si era sbagliati a contare i rottami del missile e distrarre la gente con altro.

Ad esempio, con la tempestiva sentenza di un tribunale olandese, subito sbandierata da tutti i media che attesta la responsabilità dei separatisti del Donbass e dei servizi segreti russi nell’abbattimento, nel 2014, dell’aereo della Malaysia Airlines, Sentenza giudicata scandalosa dalle autorità russe. E a ragione considerate le tante incongruenze e assurdità (vedi qui o qui) di una “indagine” talmente sbracata e piena di innumerevoli incongruenze da farci rimpiangere quella inerente l’abbattimento dell’aereo Itavia sui cieli di Ustica.

Riuscirà questa e altre armi di distrazione di massa per far dimenticare un Zelensky che, pur di non essere detronizzato, lanciando missili sulla Polonia, ha portato il mondo sull’orlo di una guerra mondiale? Certo, oggi gli USA si direbbe prendano le distanze dal loro burattino facendo trapelare l’irritazione di Biden per la tentata false flag. Ma è un fuoco di paglia. In fondo come diceva un altro presidente degli Stati Uniti <<Sarà pure un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana.>>

da qui

 

Finale di partita? – Francesco Masala

A Londra i bookmakers accettano le scommesse su chi ucciderà Zelensky, i più gettonati sono la Cia, i nazisti ucraini, qualche parente di un soldato ucraino morto inutilmente.

Biden ha messo in spam il telefono di Zelensky.

Gli Usa e la Russia troveranno a breve un accordo: Donbass e Crimea alla Russia, via la Nato dall’Ucraina, esattamente quello che la Russia chiedeva prima della guerra. Centinaia di migliaia di morti per niente, come sempre.

Gli Usa, degni discendenti di giocatori di poker e bari, hanno raggiunto i loro obiettivi, rovinare l’economia europea per generazioni e rafforzare la loro economia, missione compiuta.

La UE avrebbe avuto una sola chance, la pace subito, invece niente.

L’Europa accoglierà 30 milioni di profughi dall’Ucraina, non 65000 dall’Africa, l’Ucraina sarà spolpata, l’Europa dovrà spendere migliaia di miliardi, o milioni di miliardi (i conti li farà giorgia Meloni?), chissà, per ricostruire l’Ucraina, se fosse possibile. Tutti gli europei dovranno subire un impoverimento epocale, tutti, non solo chi era a favore della guerra.

Le classi dirigenti europee, scelte o autorizzata da Washington, festeggeranno fra le macerie.

Intanto per gli assassini è sempre festa.

 

 

“LEONARDO” SERVE L’ESERCITO UE. NATO PERMETTENDO – Verdiana Siddi

Si consolida a livello internazionale come operatore di riferimento dell’Aerospazio, Difesa e Sicurezza, svolgendo un ruolo trainante nelle principali iniziative strategiche di cooperazione e nei futuri cicli tecnologici.

Così si legge dal sito ufficiale di Leonardo (un tempo Finmeccanica), progetto del gruppo che attraverso le sue 11000 aziende, di cui 4000 in Italia, opera in 150 Paesi ed è una filiera il cui scopo di implementare le tecnologie in tutti gli ambiti dell’amministrazione e dell’economia del Paese si unisce a quello di armonizzarle al resto d’Europa. Un perfetto connubio.

“Questi obiettivi sono inseriti all’interno del piano strategico Be Tomorrow 2030, elaborato nel 2020, che rappresenta la road map per definire la visione strategica di Leonardo proiettata ai prossimi 10 anni e oltre. Tra gli obiettivi del Piano, la promozione della competitività, della sovranità tecnologica, dell’innovazione dell’industria europea della difesa, e lo sviluppo della cooperazione tra gli Stati membri su progetti di ricerca, come nel caso dell’utilizzo dell’European Defence Fund. […]

L’attuale scenario impone con sempre maggiore vigore la necessità di far emergere un’Europa intesa come soggetto geopolitico e non economico”, spiega Enrico Savio, Chief Strategy & Market Intelligence Officer di Leonardo, “esigenza che si traduce nella costruzione della Difesa collettiva europea e nel supporto attivo alle aziende del comparto al progressivo sviluppo di un sistema di Difesa comune”. [1]

Atos è una società europea che si occupa di servizi IT in Francia e in Germania e lo scorso 15 novembre 2022 ha annunciato che Leonardo,  supercomputer EuroHPC italiano, è stato riconosciuto come quarto supercalcolatore più potente al mondo e secondo in Europa nella classifica internazionale.

Proprio così, il quarto computer più potente al mondo, situato nel Tecnopolo di Bologna, consentirà un rendimento migliorato in attività di modellazione di fenomeni scientifici, come simulazioni ad alte prestazioni, AI e analisi e visualizzazione dei dati. Una potenza di calcolo per 250 milioni di miliardi di operazioni in virgola mobile al secondo, 10 volte di più del precedente sistema Cineca.

Si parla di circa 3.500 processori e di 14.000 GPU dell’architettura Ampere di NVIDIA, con prestazioni tipiche delle applicazioni di Intelligenza Artificiale.

Il 24 novembre prossimo a Bologna con le più alte cariche istituzionali, si battezzerà Leonardo. [2]

E con lui anche la distopia, lo capiamo meglio dalle parole del CEO di Atos, Giuseppe Di Franco, all’AGI sul tema

I supercomputer sono alla base studi complessi come quelli di meteorologia – sottolinea Di Franco, citando la frase iconica del film ‘The butterflay effect’ del 2004, ‘il battito delle ali di una farfalla a Bangkok è in grado di provocare un uragano a New York’ – il meteo è un sistema molto complesso. Una accurata previsione previene i fenomeni avversi e anche consente l’utilizzo migliore delle fonti rinnovabili, dalle idroelettriche al solare all’eolico. Ma servono anche a stimare impatti sul corpo umano per diversi tipi di azione, dal vaccino, all’intervento chirurgico alla capacità di arti artificiali. Si trasporta in ambiente digitale o virtuale quello che deve essere testato in ambiente fisico e si possono fare milioni di prove.

Note:
[1] https://www.leonardo.com/it/news-and-stories-detail/-/detail/leonardo-difesa-comune-ue?refererPlid=1149539
[2] https://www.agi.it/innovazione/news/2022-11-17/leonardo-supercomputer-progettare-futuro-economia-18857359/

da qui

 

 

“Crimine di guerra”. Mosca accusa l’esercito ucraino di aver deliberatamente ucciso 10 prigionieri russi

L’esercito ucraino ha deliberatamente ucciso militari russi catturati. Lo ha dichiarato il ministero della Difesa russo secondo quanto riporta Ria Novosti.

“L’omicidio intenzionale e metodico di più di dieci militari russi immobilizzati da parte dei fanatici dell’UAF con colpi diretti alla testa non può essere presentato come una” tragica eccezione” sullo sfondo della presunta osservanza generale dei diritti dei prigionieri di guerra da parte del Kiev regime”, si legge nella nota del Ministero della  Difesa russo.

“Allo stesso tempo, i militari ucraini che si sono arresi sono detenuti in conformità con tutti i requisiti della Convenzione di Ginevra”, ha sottolineato il Ministero della Difesa russo che ha altresì osservato che questo brutale omicidio non è il primo e non l’unico crimine di guerra, ma una pratica comune nelle forze armate ucraine, che è attivamente sostenuta dal regime di Kiev e i suoi protettori occidentali non se ne accorgono a bruciapelo.

 

“Ma Zelensky e i suoi scagnozzi dovranno rispondere davanti al tribunale della storia, i popoli della Russia e dell’Ucraina per tutti e per ogni prigioniero torturato e ucciso”, ha concluso il ministero della Difesa.

 

Oggi è apparso su Internet un video che mostra militanti ucraini che sparano a soldati russi morti a terra, che si sono arresi. Secondo Valery Fadeev , presidente del Consiglio presidenziale per lo sviluppo della società civile e dei diritti umani, il fatto sarebbe accaduto a Makeyevka. Il capo dell’HRC lo ha definito “un crimine provocatorio dimostrativo” e ha affermato che avrebbe richiesto un’indagine internazionale. Il video dell’HRC sarà inviato all’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, all’OSCE, al Consiglio d’Europa, ad Amnesty International, al Comitato Internazionale della Croce Rossa e ad altre organizzazioni.

da qui

 

 

RITIRATA DI KHERSON; MOSSA STRATEGICA O ACCORDO SOTTOBANCO? – Pepe Escobar

L’annuncio del ritiro di Kherson potrebbe essere il segnale di uno dei giorni più cupi della Federazione Russa dal 1991.

Abbandonare la riva destra del Dnieper per creare una linea di difesa sulla riva sinistra potrebbe essere un’idea assolutamente sensata dal punto di vista militare. Lo stesso generale Armageddon, fin dal suo primo giorno al comando, aveva lasciato intendere che una cosa del genere sarebbe stata inevitabile.

Allo stato attuale delle cose, Kherson si trova dalla parte “sbagliata” del Dnieper. Tutti i residenti dell’Oblast di Kherson – 115.000 persone in totale – che volevano essere trasferiti in località più sicure sono stati evacuati dalla riva destra.

Il generale Armageddon sapeva che era inevitabile per diversi motivi: nessuna mobilitazione dopo che i piani iniziali della SMO si erano arenati; distruzione dei ponti strategici sul Dnieper – completa di tre mesi di metodico martellamento ucraino di ponti, traghetti, pontoni e moli; nessuna seconda testa di ponte a nord di Kherson o ad ovest (verso Odessa o Nikolaev) per condurre un’offensiva.

E poi, la ragione più importante: la massiccia dotazione di armi e la gestione di fatto della guerra da parte della NATO si sono tradotte in un’enorme superiorità occidentale nella ricognizione, nelle comunicazioni e nel comando/controllo.

Tutto sommato, quella di Kherson può essere una ritirata tattica relativamente minore. Tuttavia, dal punto di vista politico, è un disastro totale, un imbarazzo devastante.

Kherson è una città russa. I Russi hanno perso – anche se temporaneamente – la capitale di un territorio appena annesso alla Federazione. L’opinione pubblica russa avrà enormi problemi ad assorbire la notizia.

L’elenco degli aspetti negativi è considerevole. Le forze di Kiev hanno messo in sicurezza questa parte del fronte e potrebbero liberare forze da inviare contro il Donbass. Le forniture di armi da parte dell’Occidente collettivo riceveranno un notevole impulso. Gli HIMARS ora potrebbero colpire obiettivi in Crimea.

Le prospettive sono orrende. L’immagine della Russia nel Sud globale è gravemente compromessa; dopo tutto, questa mossa equivale ad abbandonare un territorio russo, mentre i continui crimini di guerra dell’Ucraina scompaiono immediatamente dalla “narrazione” principale.

Come minimo, già da tempo i Russi avrebbero dovuto rinforzare la testa di ponte sul lato occidentale del Dnieper, in modo che avesse potuto resistere – magari non ad un’inondazione causata dalla distruzione della diga di Kakhovka, cosa ampiamente prevista. Eppure i Russi hanno ignorato per mesi la minaccia di un bombardamento della diga. Questo dimostra una pessima pianificazione.

Ora le forze russe dovranno conquistare nuovamente Kherson. E, parallelamente, stabilizzare le linee del fronte, tracciare confini definitivi e poi cercare di “smilitarizzare” definitivamente le offensive ucraine, attraverso negoziati o bombardamenti a tappeto.

È piuttosto rivelatore il fatto che gli esperti di intelligence della NATO, dagli analisti ai generali in pensione, siano sospettosi della mossa del generale Armageddon: la vedono come una trappola elaborata o, come ha detto un esperto militare francese, “una massiccia operazione di inganno.” Un classico di Sun Tzu. Questo è stato debitamente incorporato nella narrazione ufficiale ucraina.

Quindi, per citare Twin Peaks, un classico della cultura sovversiva americana, “i gufi non sono quello che sembrano.” Se così fosse, il piano del generale Armageddon sarebbe quello di sovraestendere le linee di rifornimento ucraine, portarle allo scoperto e poi impegnarsi in un massiccio tiro al piccione.

Quindi o si tratta di Sun Tzu, o c’è un accordo dietro le quinte, in coincidenza con il G20 che si terrà la prossima settimana a Bali…

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Come abolire le armi atomiche: il trattato è già in vigore (e nessuno lo sa) – Pino Arlacchi

L’industria della comunicazione, i media tradizionali, stanno dimostrando in questi giorni di essere la principale forza dell’instabilità e della violenza globali. Giornali e televisioni propinano un’informazione intossicata, basata sulla costruzione di un Grande Nemico pronto ad ogni nefandezza contro l’Occidente. Olocausto nucleare incluso.

Non credo che questo possa accadere, e le dichiarazioni delle potenziali vittime di un attacco nucleare russo – con in testa il governo americano – tendono a smontare l’isteria comunicativa che dilaga in Europa e in Ucraina.

Ma i venditori di paura non desistono. Sognano una guerra atomica che non ci sarà, e pur di vendere copie e alzare gli ascolti vengono meno al loro dovere di informare sui reali termini della questione. E mettono così in discussione uno dei pochi lasciti positivi della Guerra fredda: il tabù atomico.

L’industria della paura non presta particolare attenzione alle armi nucleari, eccetto quando si svolgono test atomici che vengono bene in televisione o quando c’è di mezzo qualche storia (quasi sempre inventata o gonfiata a dismisura) di contrabbando o di terrorismo atomico.

Il largo pubblico resta perciò all’oscuro dei progressi che si sono effettuati in questo campo, e non è in grado di apprezzare la portata di parole d’ordine come quella dell’abolizione delle armi nucleari.

Quanti sanno che, senza la coltre di ignoranza e di paura creata dalla mistificazione mediatica, già da vari anni ci troveremmo a essere privi del più grande pericolo per la sicurezza dell’umanità?

Pochissimi sono al corrente del fatto che le forze della pace hanno sfiorato l’en plein – l’abolizione di tutti gli armamenti atomici – a Reykjavík durante uno degli eventi più straordinari della seconda metà del Novecento: il vertice dell’ottobre 1986 tra Ronald Reagan e Michail Gorbachëv dedicato espressamente a questo tema.

Nel gennaio del 1986 Gorba?ëv aveva scritto a Reagan proponendo un calendario per l’eliminazione di tutte le armi nucleari entro la fine del secolo. I consiglieri del presidente americano avevano prontamente bocciato la proposta bollandola come un trucco propagandistico. Reagan aveva però reagito diversamente e aveva addirittura rilanciato:

«Perché aspettare fino al 2000?». Fu la sua risposta a Gorbachëv.

I due presidenti – davanti agli occhi attoniti delle rispettive delegazioni – raggiunsero l’accordo sull’eliminazione di tutti i missili balistici e gli arsenali nucleari entro dieci anni. Entro il 1996 l’umanità sarebbe uscita dall’incubo iniziato a Hiroshima quarantun anni prima.

Reagan e Gorbachëv disprezzavano gli ordigni atomici e non credevano nella dottrina dell’equilibrio del terrore. Sulla questione delle armi nucleari, Reagan è stato il più radicale dei presidenti americani, anche di quelli democratici venuti prima e dopo di lui. Ha sempre creduto nella necessità di abolirle, non di ridurle o aumentarle per salvaguardare la pace. Per lui rappresentavano il più grande pericolo per il genere umano. Un male assoluto, come il comunismo sovietico, con il quale occorreva comunque convivere e trattare.

Reagan viene ricordato come un combattente anticomunista, ma la sua carriera politica era iniziata nel 1945 con un discorso sulla pericolosità delle armi nucleari, e con una militanza pacifista nell’associazione mondiale federalista che si batteva per il governo universale. Il capo del suo staff ha scritto nelle sue memorie che ogni azione di Reagan in politica estera è stata compiuta con l’idea che un giorno ci si sarebbe seduti intorno a un tavolo di negoziato con il leader dell’Unione Sovietica e si sarebbero messe al bando le armi di distruzione di massa.[1]

L’accordo non fu firmato perché Gorbachëv subordinò la sua firma alla rinuncia da parte di Reagan al progetto dello Scudo spaziale, ma da allora in poi l’idea di un mondo senza armi nucleari è diventata una strada politico-diplomatica di praticabilità immediata.

Appena eletto, Obama ha posto questo argomento come uno dei temi guida della sua presidenza, per poi abbandonarlo e passare alla storia come un presidente ambiguo e irresoluto.

La liberazione dalla cappa di bugie in cui consiste l’inganno mediatico sul nucleare comporta il rilancio dell’idea di un mondo privo di ordigni atomici. La loro totale eliminazione è l’unica soluzione concreta al problema della proliferazione e della guerra nucleare.

Questa è la soluzione che sta alla base – è bene ricordarlo – dello spirito e della lettera del Trattato di non proliferazione del 1970 (TNP). A Reykjavík, Reagan e Gorbachëv si muovevano su un terreno già arato. Il disarmo atomico totale era stato accettato dalla comunità internazionale sedici anni prima. L’articolo 6 del TNP è molto esplicito nel delineare anche il percorso da seguire per arrivare, «in modo inequivoco», al disarmo completo. Vale a dire alla fine dell’angoscia nucleare che perseguita l’umanità dalla Seconda guerra mondiale in poi.

Il TNP è un tipico accordo multilaterale, un compromesso precario tra sovranità enormemente disuguali: cinque stati nucleari contrapposti a una massa di paesi che accettano di non dotarsi di ordigni atomici in cambio di tecnologia nucleare pacifica e di un impegno verso il disarmo generale.

Il Trattato di non proliferazione ha costituito fino a poco tempo fa uno dei successi più eclatanti del diritto internazionale. È stato firmato da 187 paesi, diventando l’accordo internazionale più condiviso dopo la Carta delle Nazioni unite. Le potenze non nucleari lo hanno diligentemente rispettato. È grazie a esso che i paesi dotati di armi atomiche sono rimasti cinque (Cina, Russia, Stati Uniti, Francia e Regno Unito), più tre altri paesi che si sono rifiutati di firmare il TNP (India, Israele e Pakistan) e uno, la Corea del Nord, che ne è uscito nel 2003.

Dozzine di altri stati potrebbero oggi possedere armi atomiche se non ci fossero all’opera gli impegni del TNP.

Nel corso del tempo, il TNP ha spinto varie nazioni ad abbandonare le ambizioni di armamento nucleare. Parlo dell’Argentina, del Brasile, della Turchia, della Corea del Sud, di Taiwan, della Svezia, della Romania, della Iugoslavia e della Libia. Mentre altri quattro paesi che già possedevano gli ordigni atomici se ne sono sbarazzati. Parlo del Sudafrica, della Bielorussia, del Kazakistan e dell’Ucraina.

Il TNP rende inoltre molto più difficile per i paesi non nucleari l’acquisizione delle tecnologie e dei materiali necessari per costruire ordigni atomici. E, anche nel caso in cui questi paesi decidano di farlo, il sistema dei controlli in vigore dopo il 1970 impedisce che ciò avvenga in modo clandestino. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) di Vienna è il perno di un insieme di garanzie e di ispezioni che rendono molto ardua la diversione di tecnologia nucleare e di materiali a scopo bellico.

Ricordo un colloquio con il mio collega Hans Blix, direttore generale dell’AIEA, qualche anno prima della seconda invasione Usa dell’Iraq: «Disponiamo ormai di tecnologie che ci permettono di scoprire se un paese sta costruendo impianti nucleari segreti. Le analisi delle acque, per esempio, sono ormai l’equivalente delle analisi delle urine per gli umani. Saddam sta solo mettendo in piedi un bluff, facendo credere di avere armi che non ha».

È la disinformazione dominante che ha diffuso per lungo tempo l’errata credenza di un Iran dotato di tecnologie nucleari belliche quasi pronte per essere usate. L’AIEA, corroborata dalle valutazioni dei principali servizi di sicurezza nazionali – Stati Uniti inclusi –, ha costantemente sostenuto il contrario. Uno dei suoi più prestigiosi direttori, Mohamed ElBaradei, non ha avuto remore nel dichiarare che gli esperimenti di arricchimento dell’uranio compiuti dall’Iran durante il suo mandato non costituivano una minaccia immediata alla sicurezza globale.

L’esistenza del Trattato, e il sostegno a esso fornito dalla società civile mondiale, ha spinto la Russia e gli Stati Uniti verso la strada dei negoziati per la riduzione degli armamenti nucleari strategici e l’approvazione della convenzione che proibisce gli esperimenti atomici, firmata nel 1996.

Il TNP, infine, ha spinto le potenze nucleari a rilasciare le cosiddette negative security assurances – vale a dire gli impegni a non usare ordigni nucleari contro i paesi non nuclearizzati che fanno parte del TNP–, riducendo così l’incentivo a procurarsi le bombe atomiche per ragioni di prestigio e di autodifesa.

Uno dei maggiori successi del Trattato di non proliferazione, però, è assai poco noto perché vittima dell’ignoranza prodotta dai padroni dell’informazione.

Mi riferisco alla non proliferazione su base regionale.

Pochi sanno che aree molto vaste del pianeta hanno negoziato accordi regionali di proibizione delle armi di distruzione di massa e dei missili di lunga gittata. Si tratta delle nuclear-weapons-free zones, le zone libere da armi nucleari, che comprendono ormai l’intero emisfero australe più ampie aree di quello boreale. Quasi tre miliardi di persone in centoventi paesi vivono entro un sistema di garanzie che riduce la possibilità di una corsa agli armamenti atomici e rafforza notevolmente il tabù nucleare…

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L’ordine del caos: il format Usa replicabile all’infinito – Enrico Tomaselli

Se guardiamo alle ultime guerre condotte dall’impero americano, non si può non constatare che esse si sono sempre lasciate alle spalle rovine e disastri. Così è stato in Iraq, così è stato in Siria, così in Afghanistan e Libia. Persino la guerra contro la Serbia, ha – in un certo senso – lasciato una scia di problemi irrisolti e di potenziali focolai di crisi. Insomma, indipendentemente dall’esito militare dei conflitti, il prodotto finale di questi è sempre stato il caos. Sotto questo profilo, quindi, si potrebbe trarne la conclusione che tali guerre siano state sostanzialmente un fallimento, o quanto meno che non abbiano raggiunto appieno gli obiettivi che si prefiggevano. Ma, in effetti così non è. Queste guerre, infatti, hanno ottenuto quasi completamente ciò che a Washington si considerava essere necessario.

Il primo risultato delle guerre americane è ovviamente l’abbattimento di un regime considerato ostile, o comunque una minaccia per l’impero. Un secondo risultato acquisito è il messaggio di monito, lanciato soprattutto a quanti sono in bilico, indecisi se sfidare o meno Washington.

E c’è poi, quasi sempre, un terzo risultato, ovvero l’insediamento di basi militari permanenti per le forze armate USA, che anche attraverso i conflitti hanno via via esteso la propria rete – una vera e propria cintura, composta da oltre 800 punti, disposti a circondare i paesi nemici, Russia e Cina sopra tutti, e ad essi sempre più prossima.

Ma soprattutto c’è il quarto risultato, di non minore rilevanza strategica, che molto spesso si accompagna alla conclusione di una guerra imperiale: il caos. Un paese non stabilizzato, lasciato in preda al disordine, infatti, è uno strumento perfetto per esercitare un’influenza su tutta l’area, che può essere facilmente destabilizzata – ove necessario – proprio alimentando quel focolaio, opportunamente mantenuto attivo.

In questo quadro, gli Stati Uniti hanno messo a punto un vero e proprio format, replicabile quasi all’infinito – un po’ come funziona, con obiettivi strategici del tutto simili, ma con diverse modalità tattiche, per le cosiddette rivoluzioni colorate.

Questo format prevede in genere che l’intervento militare diretto, qualora necessario, si esplichi quasi esclusivamente in modo mirato, ed utilizzando aviazione e forze missilistiche, evitando al massimo di mettere boots on the ground. Questo compito, infatti, viene solitamente esercitato per interposta persona, utilizzando gruppi e formazioni pre-esistenti, che vengono opportunamente finanziate, addestrate e poi utilizzate per le operazioni sul terreno; la loro permanenza, anche successivamente all’abbattimento del regime nemico, è l’elemento fondamentale su cui si costruisce la strategia del caos. È interessante notare l’estrema flessibilità con cui la strategia USA individua ed utilizza gli elementi più disparati, al fine di conseguire questi scopi. Nel caso del Kosovo – ancora adesso utilizzato come destabilizzatore della Serbia filo-russa – vennero usati ad esempio i separatisti filo-albanesi dell’UCK, fino a poco prima inseriti nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali; e guarda caso, sempre in Albania (paese NATO) trovano ospitalità i terroristi iraniani del Mojahedin-e-Khalq, un gruppo a suo tempo islamico-marxista, ormai ridotto ad una banda mercenaria dedita al culto della personalità della leader.

Un interessante esempio di questa flessibilità operativa è rappresentato dal caso siriano. La Siria di Assad era considerata un paese ostile, sia per l’alleanza con l’Iran, sia perché ospita l’unica base navale russa nel Mediterraneo, a Tartus. Benché il regime siriano avesse precedentemente collaborato con la CIA nella sua guerra ad Al Queda, ospitando sul proprio territorio centri di detenzione clandestini, quando nel 2011 si presenta l’occasione per destabilizzarla gli Stati Uniti sono pronti. Immediatamente i gruppi di opposizione che danno vita alle proteste vengono sostenuti e riforniti, in particolare quelle formazioni islamiste più radicali, legate proprio ad Al Queda, facendo in modo di innescare la spirale repressione-reazione, sino a trasformare le proteste in vera e propria guerriglia armata. Il vento islamista che comincia a spirare nella regione finisce con infiammare anche il vicino Iraq, dove si opera la saldatura tra correnti dell’Islam radicale e le comunità sunnite, soprattutto ex-militari dell’esercito di Saddam, dando così vita all’Isis-Daesh. Potendo contare sulla propria presenza militare, nonché sull’appoggio del governo del Kurdistan iracheno (da tempo filo-americano), e poi anche di quello turco, l’Isis viene discretamente foraggiato, e dilaga anche in Siria…

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Il ritiro russo da Kherson tra risvolti militari e politici – Gianandrea Gaiani

Il ritiro russo da Kherson rappresenta un importante segnale politico inviato da Mosca ma rivolto all’Occidente, soprattutto agli Stati Uniti, non agli ucraini. Non deve sfuggire che l’annuncio del ritiro è stato effettuato il giorno dopo le elezioni di mid-term negli Stati Uniti: circostanza definita “curiosa” dal presidente Joe Biden che considera il ritiro annunciato un “ulteriore segnale dei problemi che i russi stanno affrontando”. Difficile però non trovare nella coincidenza temporale la conferma che Washington e Mosca stanno trattando segretamente una via d’uscita dal conflitto.

Certo Biden ha aggiunto che “rimane da vedere se le autorità ucraine saranno pronte a scendere a compromessi con la Russia” ma è altrettanto chiaro che tali opzioni non sono nelle mani di Kiev.

 

L’Ucraina è in ginocchio tra danni di guerra, morti militari re civili, black-out elettrico che minaccia di costringere milioni di cittadini a cercare un rifugio in Europa per l’inverno. Solo il sostegno militare ed economico dei paesi della NATO consente a Kiev di continuare a combattere, a dare da mangiare alla popolazione, a pagare gli stipendi con un PIL quasi dimezzatosi dall’inizio della guerra e che il blackout elettrico divenuto ormai una costante quotidiana potrebbe ridurre di un ulteriore 40 per cento.

E’ evidente quindi che l’Occidente ha a disposizione la leva degli aiuti militari ed economici per indurre Zelensky a trattare. Forse non a caso ieri, mentre il Pentagono annunciava nuovi aiuti militari caratterizzati da forniture di missili antiaerei, il Wall Street Journal ha reso noto che il Pentagono ha deciso di non fornire a Kiev i grandi droni armati americani Grey Eagle nel timore che questo potesse portare a un’escalation del conflitto.

Anche tenendo conto che molti ambienti politici statunitensi (in maggioranza repubblicani ma anche democratici) sono stanchi di questa guerra, per le conseguenze economiche e perché ne temono i rischi di potenziale escalation non si può escludere che il Congresso uscito dalle elezioni di mid-term possa imprimere una svolta nella gestione del conflitto impostata finora dagli Stati Uniti sulla volontà di prolungarlo per logorare la Russia.

Il ritiro russo da Kherson offre quindi a Washington una ulteriore opportunità per indurre gli ucraini a sedersi al tavolo delle trattative potendo vantare successi militari e ridotte ambizioni territoriali da parte di Mosca.

Con un tempismo non casuale l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov, ha detto in un’intervista apparsa oggi sul quotidiano russo Izvestija che gli Stati Uniti potrebbero porre fine al conflitto in Ucraina con “uno schiocco di dita”.

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A mente fredda – Enrico Tomaselli

…a conti fatti, ad oggi la Russia può vantare il conseguimento di un successo strategico globale, il cui costo è ancora accettabile. Da qui, quindi, approfittando anche dei segnali di stanchezza provenienti dall’Europa, e delle difficoltà americane, la scelta di giocare veramente una carta diplomatica.

Anche perché non può non tener conto anche di altri due fattori, assai rilevanti.

Innanzi tutto, la frattura con l’Europa, seppure tamponata trovando altri sbocchi commerciali, non solo ha comunque un costo in termini di mancato accesso a prodotti di alta tecnologia, ma rappresenta comunque un danno strategico, in quanto è l’asse Russia-Germania quello vincente, non quello Mosca-Pechino. E più la guerra va avanti, più il solco si approfondisce.

E poi, last but not least, la guerra ha mostrato anche i limiti della capacità militare russa. Se, infatti, ha dimostrato sul campo di avere un considerevole potenziale in termini di armamenti strategici, una capacità dell’industria bellica più pronta e reattiva di quella occidentale, così come una resistenza all’attrito assai superiore a quella della NATO, si è anche evidenziato un limite non da poco: quei 120/130.000 uomini inizialmente impegnati, sono di fatto il massimo che è in grado di gettare prontamente in battaglia. Pur tenendo conto della vastità del territorio, da presidiare non solo alle frontiere, in particolar modo quelle calde del Caucaso e dell’Asia, così come dell’impegno in Siria, resta il fatto che – quando è emersa la necessità di rinforzare il dispositivo militare in Ucraina – l’unica scelta possibile è stata la mobilitazione dei riservisti, con la conseguenza che diventa operativa solo a distanza di mesi.

 

Conclusioni

Per come sembra si stiano mettendo le cose, si può affermare che si sta predisponendo il clima per aprire un processo che possa portare alla fine delle ostilità. Sarebbe illusorio pensare ad un processo veloce. Ci vorrà un certo tempo perché, sia Washington che Kiev, trovino la piena volontà di avviare un percorso di tal genere; e poi, successivamente, affinché si arrivi ad un non facile accordo. Parliamo necessariamente di mesi. Arrivare almeno ad un cessate il fuoco entro l’arco dei dodici mesi dall’inizio della guerra sarebbe già un ottimo risultato.

Tutto ciò, naturalmente, sempre che non intervengano fattori capaci di inceppare il cammino, rallentando o bloccando del tutto il processo.

Non è possibile prevedere, ad esempio, quale possa essere la reazione dell’estrema destra nazista, ad una prospettiva di tal fatta – che, inevitabilmente, significa congelamento della situazione sul terreno. Né quella delle stesse forze armate, che sono ampiamente permeate dal medesimo nazionalismo tossico. Per quanto l’influenza, per non dire il controllo, esercitato dagli USA sul governo Zelensky sia praticamente totale, non si può escludere che ci possano essere reazioni di rigetto da parte di settori militari. Diciamo pure che è un classico delle destre, la reazione a quella che verrebbe considerata una resa ed un tradimento.

Del resto, ancora in questi giorni, secondo il New York Times, “ci sono sempre più indizi da parte delle truppe a terra e dei volontari vicini a loro che gli ucraini si stanno preparando per una nuova offensiva terrestre a sud attraverso la regione di Zaporozhye verso Melitopol”.

Ugualmente non sappiamo come, ed in quale misura, una opzione di questo genere verrebbe presa in Gran Bretagna, dove sia le spinte oltranziste, sia la tendenza a fare un po’ da sé, sono ben radicate; e come sappiamo, sono molto ben collegati con i servizi segreti ucraini. Già pare che stiano tramando in Moldova, magari per innescare qualche provocazione con la Transnistria. Del resto, in ambienti NATO non tutti sono d’accordo nel chiudere la partita, e vorrebbero trascinare ancora il conflitto.

In ogni caso, se tutto va bene potremo parlare – come detto – di fine delle ostilità. La pace è tutt’altra cosa, ed è ben lontana dall’essere anche solo in vista.

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L’importanza di chiamarsi Boris – Toni Capuozzo

Boris, lo ricorderanno in tanti, è stata una serie televisiva, a me cara per due ragioni. La prima è la presenza del bravo Francesco Pannofino, una delle voci della prima stagione di Terra! La seconda è la trama: le piccole e grandi menzogne umane e professionali nella produzione di una fiction televisiva. E la guerra, nel suo svolgersi atroce, è il sipario di tante, troppe miserie umane.

Boris era anche il nome di Eltsin. Lo vidi da vicino, una volta. Il passo malfermo. La giacca – un vestito non esattamente di alta sartoria – con le maniche lunghe. Dentro a una delle quali si nascondeva la mano sinistra, alla quale mancavano due dita, perse in un gioco da ragazzi con residuati bellici. Un dettaglio nascosto anche nel gesticolare, e persino nei ritratti ufficiali. I leader, sovietici o russi che fossero, hanno sempre dovuto dar mostra di perfetta salute, e di integrità, come se un difetto suonasse infausto per l’intero paese. Mi è tornato in mente quel dettaglio, sì, quando l’intelligence britannica suggeriva all’informazione libera che il braccio di Putin fosse rigido, e che non avesse, forse, molti mesi di vita davanti a sé. E mi è ritornato poco tempo fa, quando ho visto la foto con cui Lula, al contrario, esibiva quasi a farne un simbolo, la mancanza di alcune dita, perse sul lavoro.

Boristene era il nome greco (con la esse finale) del Dnepr, il grande fiume. In italiano si chiama ancora così, ed è una buona scappatoia per sfuggire alla correttezza toponomastica: Dnepr per i russi, Dnipro per gli ucraini. Oltre quel fiume si sono ritirati i russi, abbandonando Kherson. A Kiev (e in Italia) c’è chi celebra ed esalta, a Mosca (e in Italia) c’è chi la considera un’umiliazione. Mi piacerebbe prendere questo fatto per quello che è. Intanto un’ammissione di impotenza, di debolezza: sai di non poter reggere l’urto del nemico, dopo che l’artiglieria Nato ha reso precarie le tue vie di rifornimento. Non è la prima sconfitta, se ricordiamo la ritirata dai dintorni di Kiev, e se pensiamo alle avanzate ucraine a Kharkiv, e a sud, verso Kherson. Ma è la prima sconfitta, come dire, autoinflitta, ordinata dall’alto e ordinata nel suo svolgimento: un coma indotto, in un corpaccione da stabilizzare. Una mossa realistica, come a dire che non c’è nulla di sacro e irrinunciabile. Persino in una grande città che era stata proclamata, con un referendum di parata, territorio russo, e per sempre, poche settimane fa. C’è dietro una trattativa segreta ? Non credo, e lo stupore iniziale di Kiev, e il timore di trappole (Timeo Danaos et dona ferentes), lo smentisce. Resta che hanno fatto una mossa sulla scacchiera. E adesso tocca a te. Già, quale mossa ?

Boris Pianida Nikitpvich era nato nel 1920 nei dintorni di Kiev. Membro dell’Alleanza dei Pittori d’Ucraina dal 1962 aveva iniziato la sua carriera di artista all’indomani della guerra mondiale. Una delle sue opere più famose è L’attraversamento del Dnepr. Epica sovietica: l’armata rossa che traversa su zattere il grande fiume, costringendo i nazisti alla ritirata, fino a liberare Kiev. E’ morto in tempo, nel 1993, per non vedersi messo all’indice. Se non i quadri, di quella battaglia decisiva sul Dnepr restano foto in bianco e nero, molto belle, rintracciabili in rete, che raccontano uno scontro epocale: quattro milioni di combattenti coinvolti, tra i due schieramenti, quattro mesi di combattimenti. Nelle foto si vedono i russi passare il fiume e un cartello indica, come un ordine, Kiev. Oggi la situazione è più modesta; i russi devono aver ritirato qualcosa come quarantamila uomini. Hanno evacuato ottantamila civili da Kherson e altri settantamila dalla provincia (deportati ? Può essere, ma a giudicare dalla scena di giubilo all’arrivo degli ucraini chi voleva rimanere è rimasto, ed è forse l’unico posto, in Ucraina, in cui ha vinto una resistenza passiva, gandhiana. Grazie al sacrificio bellico di altri ? Si). E adesso si trincerano. Sta a Zelensky mettere il cartello con su scritto Mariupol o Sebastopoli. E sta a Washington decidere, e all’Europa eseguire, in merito a una domanda: la mossa è andare avanti, fino in fondo, fino a restituire all’Ucraina i territori che non controlla dal 2014, fino a rimandare i russi e gli ucraini secessionisti del Donbass, oltreconfine ? Scelta libera, basta sapere quello cui si va incontro: una guerra lunga, a cominciare dall’attraversamento del grande fiume, in senso contrario.

L’ultimo Boris è il Godunov che il console ucraino a Milano vorrebbe fosse cancellato dall’agenda del 7 dicembre. Pretesa ignorante, che tende a confondere Puskin con Putin. Chi detta le nostre agende ? Intendo le agende di un’Europa che barcolla davanti ai migranti, (e che però decide un Piano di Mobilità Militare 2022-2027 che consenta più agili trasferimenti di materiali bellici verso est. Costo 1 miliardo e 700 milioni) di un’Italia che ha tre batterie antimissile e dovrebbe sguarnirsi per darle all’ Ucraina (la Corea del sud, agli Usa che battono il mondo per procurarsi nuove armi – nessuno era preparato a una guerra così intensa e dispendiosa che dura da otto mesi – ha detto armi a voi sì, alla guerra tra russi e ucraini no) ? Certo, ibernare questa linea, il grande fiume, avrebbe il sapore di darla vinta agli invasori, ma davvero ne soffrirebbe la democrazia e la libertà europea ? Sono morti in almeno centomila, da una parte, e centomila dall’altra, questo è il vero dispendio. Bisognerebbe consolare l’Ucraina, e compensarla con aiuti (prima era in gara con la Moldavia per il posto di paese più povero d’Europa) e accelerarne il passaggio dentro le istituzioni europee, e bisognerebbe mitigare lo scontento da vittoria mutilata (sarebbe duro il lavoro, per Zelensky) e accettare che il fiume diventi una specie di trentottesimo parallelo. Pavidità, vigliaccheria, sudditanza ? Ci dicano gli arditi, i patrioti con la patria altrui, gli intransigenti sui principi se vogliono mettere un cartello, e preparino l’assalto a primavera. Vedremo i servizi sui Natali di guerra, ci interrogheremo sui rischi nucleari, faremo il tifo come si deve, aspetteremo quel che dice Washington, aggiorneremo il tabellino delle vittime, pianteremo bandierine come tanti Emilio Fede, e ci augureremo che la guerra diventi un’abitudine, con le vite ucraine di Kiev e ucraine del Donbass e russe invadenti che diventano come vite yemenite, come donne afghane, come ragazzi somali, se la vedano loro, basta che restino nel recinto, nell’arena, e che noi restiamo sulle gradinate, a fare pollice su e pollice giù, e la tribuna delle autorità, Stoltenberg o Von der Leyen, sorrida enigmatica e rassicurante. La guerra continua. Verbo o aggettivo fa lo stesso.

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Crisi e protezionismo: le sanzioni non conseguenza ma causa della guerra

Pubblichiamo stralci del nuovo libro dell’economista Emiliano Brancaccio, realizzato assieme ai colleghi Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli: La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano – 

“[…] Con buona pace delle ideologie propugnate dalle rispettive fazioni in campo, in questo libro mostreremo che sullo scacchiere mondiale agiscono almeno due diversi imperialismi, legati tra loro dal grande squilibrio accumulato nell’epoca del liberoscambismo globale e logicamente consequenziali l’uno all’altro.

Il blocco dei debitori e quello dei creditori

Da un lato c’è il vecchio blocco imperialista definibile “dei debitori”, a guida americana e anglosassone, con l’Europa al traino, impegnati a difendere un’infiacchita egemonia con tutti i mezzi possibili, una volta militar-monetari e dopo la grande recessione anche protezionistici.

Dall’altro lato, c’è un emergente blocco imperialista “dei creditori” a guida cinese, che coinvolge russi e vari asiatici e registra un’indubbia fase di ascesa. Quest’ultima, tuttavia, è resa instabile proprio dalla decisione di rispondere al protezionismo dei debitori con una scompaginante aggressione militare, che sfida il feroce monopolio della guerra imperialista lungamente detenuto dagli Stati Uniti e dagli alleati occidentali.

È una situazione in larga parte senza precedenti, ma che per certi aspetti richiama la crisi dell’impero britannico del secolo scorso, con tutte le sue terrificanti implicazioni.

Osservata in questo quadro generale, la stessa guerra in Ucraina assume caratteri piuttosto diversi rispetto alle solite narrazioni. Non si tratta semplicemente di una guerra per l’autodeterminazione di una regione o per la sovranità di una nazione, né per la denazificazione di un territorio o per la libertà di un popolo aggredito.

La guerra e un diverso ordine dei rapporti di forza

Piuttosto, quel conflitto sanguinoso segna l’avvio di una contesa economica su vasta scala, che servirà a verificare se gli Stati Uniti e i loro alleati possono tranquillamente saltare dal liberoscambismo al protezionismo e tutti gli altri debbono passivamente adattarsi- Oppure se da ora in poi le regole del gioco economico si decideranno in base a un diverso ordine dei rapporti di forza globali. […]

Una tesi sconvolgente sulle sanzioni

A tale riguardo, sosterremo una tesi piuttosto sconvolgente rispetto alla vulgata: le “sanzioni” dell’occidente contro la Russia, la Cina e gli altri paesi “nemici”, rappresentano non una conseguenza ma piuttosto una causa del conflitto militare. Esse infatti costituiscono una forma surrettizia del cosiddetto “friend shoring”, un protezionismo occidentale iniziato già diversi anni fa, che solitamente si giustifica con il nobile scopo di punire regimi illiberali e guerrafondai ma che in realtà nasce dagli squilibri montati durante l’epoca del liberoscambismo globale.

Questo nuovo protezionismo dei debitori occidentali impedisce ai creditori orientali di esportare e centralizzare il capitale, e li induce a una sorprendente reazione militare in un mondo che si credeva dominato dalla sola violenza dell’imperialismo occidentale.

Stabilire le regole imperiali del futuro

In definitiva, sgombrando il campo dalle consuete, opposte mistificazioni idealistiche, questo libro tenta di riportare alla luce una complessa catena di fatti materiali, che parte dalla forza dirompente della centralizzazione nel mezzo degli squilibri del libero scambio globale, passa per la crisi economica e per la successiva svolta protezionista, e sfocia in una vera e propria “guerra capitalista”, esplosa non semplicemente per conquistare territorio ma per stabilire le regole imperiali del futuro.

Una guerra dalle conseguenze terrificanti, già ben visibili in Europa, ma che potrebbe catastroficamente innescare una sequenza di azioni e reazioni su scala planetaria, al limite così violenta da infrangere l’ultimo tabù della storia: il ricorso all’arma nucleare. […]”

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Basi di guerra da nord a sud. L’Unità d’Italia rifatta dalla Nato – Antonio Mazzeo

Il sempre più evidente coinvolgimento nella guerra fratricida Russia-Ucraina di alcune delle principali basi ospitate in territorio italiano si accompagna al colpo di acceleratore che le forze armate nazionali, USA e NATO hanno dato ad alcuni programmi (vecchi e nuovi) di ampliamento e potenziamento del dispositivo bellico

L’ultima missione di spionaggio sui cieli dell’Europa dell’Est è stata tracciata dai radar lo scorso 14 ottobre. Un Gulfstream E.550 CAEW del 14° Stormo dell’Aeronautica militare italiana dopo essere decollato dallo scalo romano di Pratica d Mare ha raggiunto prima i confini della Polonia con l’Ucraina e poi quelli con l’enclave russa di Kaliningrad. Un’operazione ormai di routine da quando le forze armate di Mosca hanno invaso l’Ucraina. Il velivolo in dotazione ai reparti di volo italiani aveva fatto il suo debutto nelle aree di conflitto l’8 marzo 2022 con una missione d’intelligence nello spazio aereo della Romania fino ai confini con Moldavia e Ucraina e le sempre più agitate e militarizzate acque del Mar Nero. Da allora i Gulfstream E.550 di Pratica di Mare sono uno degli attori più richiesti dai comandi NATO che coordinano le operazioni aeree di sorveglianza e “contenimento” dei reparti di guerra della Federazione russa in territorio ucraino.

Basati sulla piattaforma del jet sviluppato dall’azienda statunitense Gulfstream Aerospace, appositamente modificato e potenziato dalla israeliana Elta Systems Ltd. (società del gruppo IAI), i velivoli in dotazione all’Aeronautica italiana non sono semplicemente dei “radar volanti”, ma possiedono anche compiti di “gestione” delle missioni alleate nei campi di battaglia e di disturbo delle emissioni elettroniche “nemiche”. “Gli aerei CAEW hanno funzioni di sorveglianza aerea, comando, controllo e comunicazioni, strumentali alla supremazia aerea e al supporto alle forze di terra”, spiega lo Stato maggiore dell’Aeronautica.

“In altre parole, essi sono un assetto di straordinario valore sia per l’Italia che per la NATO per conseguire quella che è definita come Information Superiority, cioè il vantaggio che deriva dall’abilità di raccogliere, processare e trasferire un flusso ininterrotto di informazioni mentre si impedisce al nemico di poter fare lo stesso”.

Non sono solo i sofisticati e costosissimi aerei di produzione israelo-statunitense a consolidare il ruolo di cobelligerante dello scalo militare di Pratica di Mare nel sanguinoso conflitto russo-ucraino. E’ da qui infatti che decollano con sempre più frequenza i velivoli cisterna KC-767A dell’Aeronautica utilizzati per il rifornimento in volo dei cacciabombardieri italiani e NATO impiegati nella Air Policing Mission anti-russa nello spazio aereo di Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria e delle Repubbliche baltiche. Velivoli cargo dello stesso tipo vengono impiegati da Pratica di Mare anche per trasportare i sistemi d’arma “donati” dal governo italiano alle forze armate ucraine e gli uomini, i mezzi pesanti e gli armamenti destinati ai battaglioni di pronto intervento che la NATO ha insediato a mò di tenaglia alle frontiere occidentali di Russia e Bielorussia (attualmente i reparti italiani d’élite dell’Esercito sono presenti in Ungheria, Bulgaria e Lettonia).

Ma in Italia non c’è solo Pratica di Mare a fare da trampolino di lancio degli assetti aerei impiegati nella pericolosa escalation bellica in Europa orientale e nel Mar Nero. Dalla stazione aeronavale di Sigonella, in Sicilia, con cadenza ormai quotidiana e fin da prima dell’aggressione russa del 24 febbraio scorso, decollano i droni d’intelligence AGS della NATO e “Global Hawk” di US Air Force e i nuovi pattugliatori marittimi P8A “Poseidon” di US Navy e delle forze aeronavali di Australia e del Regno Unito. Anch’essi ricoprono le stesse rotte fino ai confini con il territorio ucraino, rumeno, bulgaro e moldavo, per operazioni di intelligence e ricognizione. Così come avviene con i CAEW Gulfstream di Pratica di Mare, i dati sensibili raccolti dai “Poseidon” e dai droni USA e NATO di Sigonella vengono messi a disposizione delle forze armate di Kiev per pianificare le operazioni contro l’invasore russo. Sono cioè una specie di occhio e orecchio non poi tanto segreto contro le manovre dell’esercito di Mosca e una sorta di consigliere-guida della controffensiva ucraina che ha già consentito di ottenere sul campo rilevanti “successi” sugli avversari.

Questi velivoli hanno pure moltiplicato gli interventi nel Mediterraneo orientale in prossimità del porto di Tartus, Siria, utilizzato per le soste tecniche della flotta militare russa. In particolare proprio un pattugliatore P-8A di US Navy è stato protagonista di quella che, per il valore politico-simbolico ma soprattutto per le conseguenze in termini di vite umane, ha rappresentato una delle azioni di guerra più significative e drammatiche del conflitto: l’affondamento dell’incrociatore russo Moskva a largo di Odessa, mercoledì 13 aprile, presumibilmente dopo essere stato colpito dai militari ucraini con uno o più missili anti-nave. Sono ancora fittissimi i misteri sulle dinamiche e sulle unità protagoniste dell’attacco, così come è ancora ignoto il numero delle vittime. E’ tuttavia certo che l’operazione militare contro la nave ammiraglia russa nel Mar Nero è stata “monitorata” e registrata a poche miglia di distanza da un “Poseidon” statunitense decollato dalla stazione aeronavale siciliana…

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In Campania cellula neonazista legata al battaglione Azov – Adriana Pollice

«Una costante attività di addestramento paramilitare, anche frequentando all’estero corsi di combattimento corpo a corpo e sull’utilizzo di armi da fuoco, sia corte sia lunghe. Contatti diretti e frequenti con formazioni ultranazionaliste ucraine», come il Battaglione Azov, Pravi Sector, Misantropya Division e Centuria, probabilmente in vista di possibili reclutamenti nelle fila dei gruppi combattenti: l’inchiesta coordinata dalla procura di Napoli ha svelato, ieri, un’associazione sovversiva di stampo neonazista, negazionista e suprematista denominata Ordine di Hagal.

Quattro le misure cautelari in carcere per terrorismo, eversione dell’ordine democratico e propaganda dell’odio razziale più l’obbligo di firma per un quinto indagato. Oltre 26 perquisizioni nelle province di Napoli, Avellino, Caserta, Milano, Torino, Palermo, Ragusa, Treviso, Verona, Salerno, Potenza, Cosenza, Crotone, inclusa la libreria avellinese di Franco Freda, estremista neofascista condannato per associazione sovversiva. La cellula, nata nel 2018, si serviva dei social per fare propaganda, su Telgram era attiva con il canale «Protocollo 4» su cui venivano diffuse teorie naziste, negazioniste, omofobiche, no vax e no green pass, anti migranti.

Uno degli indagati, Anton Radomsky, è irreperibile perché tornato in Ucraina: dalle indagini è emerso che era in contatto con il battaglione Azov (fondato dal militare Andrj Bileckyj, di orientamento neonazista). Gli inquirenti gli contestano compiti nell’organizzazione come l’addestramento militare degli associati e il reclutamento. Al vertice dell’Ordine di Hagal Maurizio Ammendola, 43 anni, quindi il vice Michele Rinaldi e poi Massimiliano Mariano (addetto all’indottrinamento) e Gianpiero Testa, attivo nel procacciare proseliti. Il gruppo progettava di ritirarsi nelle campagne in una sorta di struttura verticistica, autosufficiente e legata da vincoli di segretezza.

Ammendola e Testa, in particolare, si sono diplomati in Polonia presso l’European security academy: «I programmi di addestramento – si legge negli atti – ricalcano quelli previsti per le forze speciali militari (dalla guida operativa, al tiro tattico o dinamico mediante l’impiego di armi, nonché tecniche di autodifesa), ove gli stessi hanno seguito il corso avanzato di Krav Maga (arte marziale delle forze speciali israeliane) e di combinated firearms».

Il gruppo non è entrato in azione ma dalle indagini risulta che stessero preparando un’azione contro la caserma dei Carabinieri di Marigliano (sede ufficiale dell’Ordine) e al centro commerciale Vulcano buono di Nola. Per diventare membri era necessario un rito di affiliazione all’insegna dei simboli nazisti e il pagamento di 30 euro su una carta Postepay. Nello statuto è prevista l’accettazione incondizionata del regolamento interno dell’Ordine di Hagal con conseguente «impegno di riservatezza perpetuo, anche qualora si decidesse di non iscriversi dopo la lettura dello Statuto o di abbandonarlo successivamente o si finisse con il venire espulsi».

da il manifesto

da qui

 

Il contributo della NATO all’instabilità globale

Dalla caduta del muro di Berlino alla ventennale occupazione dell’Afghanistan, l’infinita competizione con la Russia, la corsa agli armamenti nucleari, i Trattati traditi. Il 53° Report del Centre Delàs evidenzia alcune contraddizioni dell’immensa creatura militare guidata dagli USA

 Tradotto da PeaceLink

Fonte: Sintesi in italiano del Report “NATO, Building Global Insecurity”. Traduzione e sintesi a cura di Maria Pastore. Fonte https://www.ipb.org/?s=nato+building+insecurity

Il Centre Delàs d’Estudis per la Pau è una organizzazione di ricerca indipendente orientata a rafforzare l’advocacy politica e sociale della cultura della pace e del disarmo. A giugno 2022 ha pubblicato il suo 53° Report “NATO, Building global insecurity” in collaborazione con l’International Peace Bureau (IPB) e la Global Campaign on Military Spending (GCOMS).
I 9 capitoli del Report mettono in evidenza i lati oscuri della NATO dalla sua fondazione a oggi, l’ambiguità del suo operato e dei principi che proclama, e sostengono la tesi che questa organizzazione militare, la più grande al mondo, stia portando solo guerra e instabilità internazionale.

Chiude il Report una Appendice scritta da esperti dell’International Peace Bureau e della Olof Palme Foundation nella quale si puntalizza una agenda di pace trasformativa e inclusiva, per rifiutare ogni forma di militarismo.

Nell’articolo di seguito presento una sintesi dei capitoli del 53° Rapporto del Centre Delàs “NATO, Building global insecurity”

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