Nazim Hikmet: «Il più bello dei mari»
Vita e poesie di Hikmet raccontate da Pierpaolo Piludu
Il meglio del blog-bottega /242…. andando a ritroso nel tempo (*)
Carcere di Bursa, Anatolia
Il più bello dei mari è quello che non navigammo. Il più bello dei nostri figli non è ancora cresciuto. I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti. E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto
Nazim Hikmet nasce nel 1902 in una cittadina turca che fa parte di quell’impero ottomano che ormai si sta sfaldando quasi completamente.
Alla fine della prima guerra mondiale truppe inglesi, francesi, italiane, greche, occupano Istanbul e gran parte del territorio nazionale.
Maometto VI, l’ultimo sultano, è di cultura strettamente ottomana, una cultura che, come dire… (per tradizione!) aveva da sempre oppresso e sfruttato i turchi, che erano soprattutto contadini e pastori dell’Anatolia. Non era una tradizione molto bella, come potete intuire… ma era così!
Ora Maometto VI, come il suo papà-sultano e come il papà –sultano del suo papà, è fedele a questa “tradizione”: Anche lui considera i turchi una razza inferiore e l’Anatolia una colonia. Ora, ironia della sorte, questo povero sultano si trova a capo di un impero ottomano che un po’ alla volta ha perso tutte le sue province, quelle balcaniche, quelle arabe, quelle persiane… e che si è ridotto a poco più della sola Anatolia: insomma, un sultano ottomano con dei sudditi turchi… un casino!
Maometto VI è preoccupato. Ha paura che questi turchi, dopo tanti secoli di oppressione possano ribellarsi. Quindi non oppone nessuna resistenza agli eserciti invasori che, anzi, potrebbero dargli una mano per soffocare qualsiasi eventuale rivolta. Detto fatto! I turchi, giustamente, non perdono tempo e si schierano sia contro le truppe straniere che contro quelle del sultano. Il leader della rivolta è il generale Kemal, che dà vita al Partito Nazionalista Turco, un partito che alle elezioni del 1919 ottiene la stragrande maggioranza dei consensi. Il sultano Maometto VI (che non sopportava perdere neanche quando giocava a scacchi!) non si dà per vinto, e con l’aiuto delle forze alleate che presidiano Istanbul fa invadere il parlamento ed arrestare i deputati. Fa rastrellare la città e uccidere i nazionalisti. (Metodi un po’ bruschi, ma vuole riportare la situazione sotto controllo!)
Hikmet all’epoca ha diciassette anni; fugge dall’Accademia di Marina che sta frequentando, attraversa a piedi l’Anatolia (praticamente una buona parte della Turchia) e raggiunge il quartier generale dei nazionalisti: ormai è guerra per l’indipendenza. La maggior parte della popolazione sta col generale Kemal: tutti sperano che la conquista dell’indipendenza significhi anche liberazione dalla miseria e dalla servitù. Sono soprattutto contadini, pastori, manovali turchi e curdi.
I turchi, con l’aiuto dei curdi potevano farcela a sconfiggere sultano ed alleati. E qui, però, subentra il primo problema: come abbiamo detto, gli ottomani consideravano i turchi una razza inferiore. “E va be’, sin qui non c’è niente di male” direte voi, “avranno avuto le loro buone ragioni…”
Si, però la maggior parte dei turchi, a loro volta, consideravano profondamente inferiori i curdi…
E anche qui, se non ci fosse stato il problema di questa alleanza turchi-curdi da organizzare lì su due piedi… sarebbe tutto ancora più o meno normale.
Infatti, se analizziamo i dati in chiave occidentale, abbiamo che:
come i bresciani considerano terroni i messinesi… allo stesso modo gli amburghesi considerano terroni i bresciani!
E i copenaghenesi, che considerano terroni gli amburghesi… sono considerati terroni dagli elsinkesi! Anche se, come sostengono giustamente i reikiavikiani: «Ma questi elsinkesi non si staranno dando un po’ troppe arie?!… Ma cos’hanno da fare tanto gli spiritosi?!… Per quei quattro peletti albini che hanno sulla testa?! Ma chi si credono di essere?… Che poi, non per essere razzisti, ma appena li senti parlare… hanno anche loro questo accento “do o sud” che si sente da due chilometri! Non c’è niente da fare… hai voglia di fare i corsi di dizione! Si sente sempre, ed è terribile, fastidioso…
Mi son de Reikiavik. (N’ol par?) N’ol par… ma mi son de Reikiavik! Ma mi no so mia un rassista. E no ostia che mi non so rassista… ma quando ca sento parlar un teron de Oslo o de Stoccolma me se gira solo i coioni! Parché i gà sto acento del sud… xe fastidioso! Me se rebalta el stomego a sentirlo!».
Scusate la parentesi esplicativa. Fermiamoci qui. Adesso, senza arrivare a tirare in ballo l’orso polare (che a questo punto avrebbe anche lui le sue buone ragioni per considerare terroni gli eschimesi!), senza arrivare a questi estremi, per il generale Kemal tutta la questione per riuscire a sconfiggere il sultano e gli invasori occidentali si riduceva a cinque parole: “bisognava farsi amici i curdi”..
Il generale Kemal sa che è necessario avere il sostegno di tutti i curdi e promette loro larghe autonomie regionali, l’uso della loro lingua, il rispetto della loro cultura. In quegli anni in Turchia chiunque non fosse conservatore appoggiava i nazionalisti.
Hikmet non era un conservatore.
Nel giro di qualche anno i nazionalisti riescono ad arrivare al potere, ma a quel punto la politica di Kemal, che ora si fa chiamare Ataturk, “padre dei turchi”, subisce una brusca involuzione: abolisce il califfato, il fez e l’alfabeto arabo, ma anche ogni forma di opposizione. Costruisce nuove fabbriche, ma estorcendo nuove tasse ai contadini già stremati dalla miseria antica e dalle guerre recenti. Per quanto riguarda i curdi decide di risolvere il problema alla radice. La mattina del sei marzo 1921, terminata la sua abbondante colazione, il generale Ataturk si disse: «Mi sa, mi sa che oggi risolvo il problema dei curdi alla radice. DA OGGI I CURDI NON ESISTERANNO PIU’! Si, è vero, gli avevo promesso larghe autonomie regionali… gli avevo promesso che avrebbero potuto parlare la loro lingua… gli avevo promesso rispetto per la loro cultura. Certo, gli avevo dato la mia parola… ma avrebbe dovuto capirlo anche un bambino che si trattava della mia parola di politico, mica di quello di uomo!!».
(Della serie “quanto è piccolo il mondo”: sembra incredibile ma funzionava così, già da allora, anche da quelle parti!)
«Da oggi la parola curdo non esisterà più! La faremo cancellare anche dai vecchi vocabolari… costi quel che costi! E se per qualche strano motivo dovesse ancora essere necessario doverli nominare… li chiameremo turchi di montagna, e che non rompano più i coglioni!!».
Consultare qualsiasi odierno vocabolario turco per conferma: la parola” curdo” non esiste più!
(COMPARE UNA DIAPOSITIVA DELLA POPOLAZIONE CURDA IN FUGA A CONCLUSIONE DELLA GUERRA DEL GOLFO)
E questa non è affatto un’altra storia, ma è sempre la stessa.
Ma torniamo al 1921. Hikmet si allontana velocemente dal Partito Nazionalista. Aveva letto i primi testi di Marx, ma, come tutti i turchi, della rivoluzione che era scoppiata in Russia nel 1917, non sapeva ancora niente.
Ataturk, antirusso e antisovietico, ha paura che le idee bolsceviche possano prima o poi arrivare in Turchia e turbare i suoi cittadini. Quindi cosa fa? Vieta alla stampa di riportare qualsiasi notizia riguardante la Russia, fa chiudere ermeticamente le frontiere tra i due Paesi e non fa costruire strade in Anatolia. “E mo’ voglio vedere come fanno ad arrivare le notizie!”
Hikmet ormai è un oppositore del regime e si avvicina al piccolo Partito Comunista Turco, di ispirazione spartachista.
(COMPARE UNA DIAPOSITIVA DI UN GRUPPO DI SPARTACHISTI CON ROSA LUXEMBURG)
La signora al centro è Rosa Luxemburg. Vi ricordate? «Le anime come i corpi possono morire di fame. Dateci il pane, ma dateci anche le rose».
Nel 1921 una delegazione di quindici comunisti turchi, con il segretario Mustafà Sufi, esce clandestinamente dalla Turchia per recarsi a Berlino, proprio dagli spartachisti, ma appresa la notizia di ciò che è avvenuto in Russia si recano a Mosca. Ataturk, avvisato dai servizi segreti, li attende al varco. Non appena la loro barca ha attraversato il confine lungo le coste del mar Nero, manda loro un messaggero invitandoli ad incontrarsi con lui. Appena giunti a riva… li fa assassinare tutti e quindici. Quando Hikmet viene a saperlo scrive la poesia «Quindici ferite».
Ormai è impossibile qualsiasi forma di dissenso. Ataturk, “padre dei turchi”, (COMPARE UNA DIAPOSITIVA CON ALCUNI BOZZETTI PER LO SPETTACOLO “UBU RE” DI ALFRED JARRY), “padre Ubu”, come direbbe Jarry, continua il suo processo di modernizzazione forzata. La popolazione è alla fame però può, anzi, è obbligata a cambiare i propri vecchi nomi presi dal Corano, con degli altri più allegri e moderni!
“Tu, come ti chiami?”
“Abù Assan.”
“Bene, da oggi ti chiamerai… Turco Felice!
Tu, come ti chiami?”
“Bakbarah”
“Bene, da oggi ti chiamerai… Yassup il Moderno!”
“ Yassup il Moderno?!… Ma è brutto…”
“ Ho detto Yassup il Moderno!! Tu, come ti chiami?…”
Tredici milioni, tredici milioni e mezzo di turchi (non ve li mostro tutti per problemi di tempo!) che
continuano a vivere nella miseria più nera… ma con simpatici nomignoli moderni!
Hikmet, con il suo amico giornalista Vale Nurettin, decide di lasciare clandestinamente la Turchia, non tanto per timore di dover cambiare il proprio nome, quanto per raggiungere in Germania i compagni spartachisti. Anche loro soltanto durante il viaggio vengono a sapere cosa è successo in Russia nel Diciassette, e la scoperta di questa rivoluzione così vicina, eppure ignorata, è per loro folgorante! E’ quello il mondo che avevano tanto sognato! Felici, distribuiscono i soldi che hanno in tasca ai contrabbandieri che li stanno accompagnando. Sono convinti che questa nuova società di lavoratori abbia abolito per sempre il denaro. Regalano tutto ciò che hanno e si dirigono, con i soli abiti che hanno indosso verso Mosca. Il viaggio dura un mese e l’entusiasmo cresce giorno dopo giorno.
Loro non sanno che il 1921 è l’anno della peggiore carestia che si abbatte sull’Unione Sovietica dopo la rivoluzione. Ma nonostante la carestia, una grande speranza, una grande gioia sembra si respiri in ogni angolo della città di Mosca:
Majakovskij ha già scritto «Mistero buffo» e «I centocinquantamilioni», Eisentein sta preparando «Sciopero», il suo primo film. I cineasti sovietici invitano il pubblico a scrivere nuove sceneggiature. Chagall fonda un’accademia aperta a tutte le nuove tendenze e affresca gli edifici pubblici, mentre Kandinski organizza una rete di musei per l’istruzione del popolo. Esenin scrive le sue poesie più belle e si sposa con Isadora Duncan, invitata a Mosca dal governo sovietico ad aprire una scuola di danza. Il teatro vive gli anni più belli della sua ricerca: spettacoli senza proscenio e senza sipario, spettacoli colorati che riescono a portare a teatro, in modo nuovo, la festa e la commedia dell’arte.
Hikmet conosce di persona Vladimie Il’ic Ul’janov Lenin che lo invita a frequentare l’Università per i Lavoratori d’Oriente. E nel 1924, quando Lenin, muore anche lui porta sulla sua spalla il feretro, con indicibile commozione.
Lo stesso anno decide di tornare in Turchia, dove è in atto una furiosa repressione contro i partiti d’opposizione e i sindacati non statali. Ataturk manda messaggi ad Hikmet per indurlo a un colloquio ma lui rifiuta ogni compromesso e continua a portare avanti la sua attività politica clandestinamente. Il primo arresto avviene nel 1929. Incomincia la lunga parentesi del carcere.
Scriverà Pablo Neruda tanti anni dopo:
«A Mosca andavo spesso a fare visita al mio amico Nazim Hikmet. Mi raccontava di quando, accusato di voler organizzare una rivolta nella marina turca, fu condannato a tutte le pene dell’inferno. Il processo ebbe luogo su una nave da guerra. Mi raccontava come lo fecero camminare fino all’esaurimento sul ponte della nave, e poi lo misero nel locale delle latrine, dove gli escrementi raggiungevano il mezzo metro sul pavimento. Il mio fratello poeta si sentì venir meno. Il puzzo lo faceva traballare. Allora pensò: i miei carnefici mi stanno sicuramente osservando da qualche parte. Vogliono vedermi cadere, vogliono contemplarmi con disprezzo. Con superbia le sue forze risorsero. Cominciò a cantare, dapprima a bassa voce, poi a voce più alta, a squarciagola, alla fine. Cantò tutte le canzoni, tutti i versi d’amore che ricordava, le sue poesie, le romanze dei contadini, gli inni di lotta del suo popolo. Cantò tutto quello che sapeva.
Quando mi raccontava queste cose gli dissi: Fratello mio, hai cantato per tutti noi. Non abbiamo più bisogno di dubitare, di pensare a quello che faremo. Ormai sappiamo tutti quando dobbiamo cominciare a cantare».
Carcere di Bursa, Anatolia
Il vento cala e se ne va
lo stesso vento non agita
due volte lo stesso ramo
di ciliegio
gli uccelli cantano sull’albero
ali che voglion volare
la porta è chiusa
bisogna forzarla
bisogna vederti, amor mio,
sia bella come te, la vita
sia amica e amata come te
so che ancora non è finito
il banchetto della miseria
ma finirà…
Tra il ’28 e il ’38 entra ed esce dal carcere in continuazione. Il suo amico pittore Abidùn Dino lo descrive così:
«Nazim Hikmet, con la sua giacca spiegazzata buttata sulla spalla, solcava la città recitando versi a chi voleva ascoltarlo, seguito da un codazzo di ammiratori e di poliziotti in borghese. I benpensanti gridavano alla sovversione. E’ sovversiva la poesia di Nazim? Ogni grande poesia è sovversiva, e questa lo era magnificamente! Che c’è di più sovversivo della bellezza congiunta alla verità? Nazim era bello e vero, era un autentico pericolo pubblico. Lui non ha mai complottato. Ha sempre detto a voce alta quel che aveva da dire e l’ha detto anche quando pretendevano impedirglielo. Tutto qui. Se gli arresti erano seguiti dall’evasione e le persecuzioni dalla clandestinità, di chi la colpa?
Arrestato, rilasciato, applaudito, seguito da sbirri e provocatori, da amici e compagni; adorato dalle donne, detestato dai mariti, Nazim aveva messo sottosopra Bisanzio. Fu favoloso!».
La situazione politica, però, in quegli anni si fa sempre più disperata, non solo in Turchia, ma anche in Italia, in Germania. Sono i tristi anni dell’ascesa del fascismo e del nazismo che porteranno alla seconda guerra mondiale. Siamo nel 1937. Ragazzi di tutto il mondo si recano in Spagna per cercare di fermare l’avanzata delle armate fasciste. La polizia turca trova nelle tasche di alcuni marinai una poesia intitolata «Alle porte di Madrid».
Non ascoltare le voci delle sfere dell’al di là,
né intrecciare nella trama delle righe “poesie ermetiche”
né cercare con pazienza di orafo
rime graziose e fini espressioni,
stasera grazie al cielo, io sto più su di tutto ciò
stasera io sono un cantastorie di strada. La mia voce è semplice senza artifici,
e tu non puoi udire la mia canzone… E’ notte nevica.
Tu sei alle porte di Madrid. Davanti a te hai l’anima dei nemici,
che è venuta per uccidere
tutto ciò che c’è di più bello:
la libertà il sogno la speranza e i ragazzi. E nevica. E forse i tuoi piedi nudi gelano. Nevica… Ed ecco, in quest’istante
che io penso a te con tutto il mio cuore,
forse una pallottola spezzerà la tua vita
e per te non ci sarà più
neve né vento né notte né giorno…
E nevica So che anche prima di gridare
“No pasaran!” e di montare la guardia alle porte di Madrid,
tu esistevi! Chi eri? Di dove sei venuto?
Forse dalle miniere delle Asturie? Forse una benda insanguinata sulla tua fronte ha coperto
una ferita che ti sei preso al nord?
Forse sei tu quello che per ultimo
sparò nella notte che gli junker bombardavano Bilbao? O servivi come bracciante nelle tenute di un qualche
Conte Fernando Valesquero di Cortolon?
O avevi una botteguccia alla porta del sole
e vendevi la frutta dai colori spagnoli? Forse, non avevi alcun talento, o forse avevi una bella voce? O eri uno studente un futuro giurista, e i tuoi libri
sotto i cingoli di un carro armato italiano son rimasti
nella città universitaria? Forse non credevi in Dio, o forse invece portavi
una piccola croce di rame a un cordino di seta?
Chi sei? Come ti chiami? Quanti anni hai?
Non ho visto la tua faccia e non la vedrò. Forse essa ricorda le facce di quelli
che batterono le bande di Kolciak in Siberia? O in qualche tratto tu ricordi coloro che sono caduti
a Domlupinar? O somigli a Robespierre? Non hai udito il mio nome, e non l’udrai. Tra noi due, fratello, ci sono i mari e i monti,
e le mie maledette catene, e le prescrizioni del comitato di non intervento… Non posso venire da te
non posso mandarti di qui né una cassa di cartucce
né uova né un paio di calze di lana…
So che in questo gelo i tuoi piedi nudi,
là, alle porte di Madrid, come due bimbi gelano al vento… E so che tutto ciò che in questo mondo c’è di grande
e di bello; tutto ciò che sarà fatto dagli uomini,
tutta la verità futura e la Grandezza che io aspetto
con tanta ansia nel cuore, tutto questo riluce nei tuoi occhi,
sentinella mia, stanotte, alle porte di Madrid…
E so che oggi non posso, come non potei ieri
e non potrò domani, farà nient’altro che pensare a te
e amarti!
Per questa poesia il tribunale della marina lo condanna a dodici anni di carcere, quello dell’esercito a venti. Per lungo tempo sia lui che i suoi amici si sono chiesti: «Ma perché tanto accanimento da parte del tribunale dell’esercito?!».
Dodici anni potevano anche essere sufficienti, no?
Ora siamo nel carcere di Smirne
ANGINA PECTORIS
Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore,
l’altra metà sta in Cina
nella lunga marcia verso il fiume Giallo. E poi ogni mattina, dottore,
ogni mattina all’alba
il mio cuore lo fucilano in Grecia. E poi quando i prigionieri cadono nel sonno
quando anche gli ultimi passi si allontanano
dall’infermeria
il mio cuore se ne va, dottore,
va in una vecchia casa di legno, a Istanbul. E poi sono dieci anni, dottore,
che non niente in mano da offrire al mio popolo
niente altro che una mela
una mela rossa, il mio cuore.
Ed è per tutto questo, dottore,
e non per l’arteriosclerosi, per la nicotina, per la prigione,
che ho questa angina pectoris. Guardo la notte attraverso le sbarre
e malgrado tutti questi muri che mi pesano sul petto
il mio cuore batte con la stella più lontana.
In un’altra raccolta di poesie la polizia scopre gli estremi di un complotto contro il governo ed arriva anche la condanna a morte.
Hikmet vede entrare in carcere contadini, quei contadini da sempre brutalmente perseguitati dai signori feudali della Turchia. Li vede dare in cambio di un po’ di tabacco il misero tozzo di pane che ricevevano come razione. Li vede camminare avanti e indietro nella cella. Li vede camminare durante l’ora d’aria, nel cortile della prigione, e guardare distrattamente l’erba. Li vede camminare affamati con mozziconi di sigaretta tra le dita. Passano i giorni e osserva i contadini che camminano sempre più magri, e guardano l’erba del cortile con attenzione, quasi con gola. Un giorno li vede portarsi qualche filo d’erba alla bocca, così, per scherzare. In seguito li vede strappare l’erba a ciuffi e divorarla in gran fretta. Alla fine mangiavano l’erba a quattro zampe, come i cavalli…
ALLA VITA
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte, pur temendola,
e la vita, sulla bilancia, peserà di più.
MUSICA POPOLARE TURCA
IL POSTINO
Notizie della patria, dell’uomo, del mondo
notizie degli uccelli, delle bestie, degli alberi,
all’alba e mezzanotte
ho portato agli uomini
nella borsa del mio cuore.
Da ragazzo volevo fare il postino,
ma il postino vero, non come i poeti. Con mozziconi di matite colorate
disegnavo ritratti di postini,
disegnavo, come i bambini sulla ghiaia, goffo ma esatto,
disegnavo postini sui libri di geografia
e sui romanzi di Giulio Verne.
Ecco un uomo in passamontagna.
I cani tirano la slitta sul ghiaccio. Sui pacchi postali e sulle scatole di conserva
splende l’aurora boreale. Stretta la cinghia ancora di un buco
io attraverso lo stretto di Behring.
Eccomi con la borsa nella steppa sotto il peso delle nubi,
distribuisco lettere ai soldati e bevo tiepido latte.
Oppure cammino per una via rumorosa
E cerco un indirizzo. Dov’è questo nome?
Nella mia borsa porto solo buone notizie,
solo speranza.
Oppure ecco tempesta, neve,
tenebre alla finestra. Una piccola ragazza è ammalata, brucia di febbre.
Com’è lunga questa notte…
Qualcuno bussa alla porta: “Posta!”
Gli occhi della piccola ragazza
guardano come fiordalisi dal buio. Domattina suo padre uscirà di prigione. E proprio io, postino, l’ho trovata qui;
proprio io nella neve e nel gelo
ho portato a questa ragazza la più bella notizia del mondo.
Da ragazzo volevo fare il postino,
anche se nella mia Turchia
questo è un mestiere duro:
nelle lettere c’è dolore e tristezza,
raramente qualche buona notizia.
Anche dai tribunali continuano ad arrivare solo cattive notizie e le condizioni della prigione sono sempre durissime con mesi interi di segregazione cellulare. Hikmet che da tempo è malato di cuore, ha il suo primo infarto e la minaccia dell’impiccagione è sempre sospesa sulla sua testa. Ma le sue poesie riescono a uscire misteriosamente dal carcere. Riesce in qualche modo a tenere i contatti con i suoi amici, un po’ in tutto il mondo.
A Parigi si crea un comitato per la sua liberazione, presieduto da Tristan Tzara, il dadaista. Messaggi di protesta giungono al governo turco con le firme più prestigiose della cultura mondiale. Hikmet inizia uno sciopero della fame che mina la sua già precaria salute. Il governo turco comincia a preoccuparsi. Nel 1950, dopo tredici ininterrotti anni di carcere gli viene concessa una libertà provvisoria e vigilata.
Ti svegli. Dove sei?
A casa
Non hai potuto ancora abituarti:
al tuo risveglio trovarti a casa. Ecco quel che ti lasciano
tredici anni di carcere. Chi c’è nel letto, accanto a te? Non è la solitudine, è tua moglie.
Dorme coi pugni chiusi, come un angelo. Le dona, essere incinta.
Che ore sono?
Le otto. Possiamo dunque star tranquilli
fino a sera. E’ l’uso,
la polizia non fa mai irruzione in pieno giorno.
Trascorre alcuni mesi a Istanbul con la polizia che segue ogni suo piccolo movimento e che aspetta il minimo pretesto per arrestarlo nuovamente. Ma riesce ad eludere la loro sorveglianza, a passare clandestinamente la frontiera e a arrivare nuovamente in Russia. La sua compagna Munnever non può seguirlo: dove uno passa, non sempre due possono passare. E Munnever aspetta un bambino: si chiamerà Mehmet e sarà trattenuto in ostaggio, insieme alla madre, dal governo turco.
Ma la città di Mosca del 1951 è molto diversa da quella di trent’anni prima, e così tutta l’Unione Sovietica. E’ finito il tempo del teatro e dell’arte rivoluzionaria. I suoi vecchi amici non ci sono più: molti sono morti, altri sono fuggiti all’estero, altri sono stati arrestati. Majakovskij e Esenin si sono suicidati…
Non c’è più spazio per la gioia, la creatività e la poesia, ma solo per il culto della personalità di Stalin.
Hikmet subito si mette al lavoro per esprimere le sue critiche nel modo più efficace. Scrive e riesce a far mettere in scena «Ma è mai esistito Ivan Ivanovic?» dove attacca duramente la nuova classe di burocrati. Alla fine del secondo atto si fa chiamare direttamente in causa dal protagonista.
VOCE REGISTRATA: Ehi, Nazim Hikmet! Dove vi siete cacciato? Lo so, l’Unione Sovietica è la vostra seconda casa, voi amate i sovietici, li rispettate… siete un vecchio membro del partito… tutto questo lo sappiamo. Ma è possibile che il vostro primo lavoro teatrale su un tema sovietico debba essere proprio una satira? Perché minate l’autorità dei nostri funzionari? E perché poi ci avete presi di mira? Come se non avessimo già abbastanza preoccupazioni! Lasciateci in pace. E inoltre, a pensarci bene, questo non è corretto. Voi qui siete un ospite. E’ male abusare della nostra ospitalità. Noi non siamo soliti richiamare all’ordine un ospite, ma a questo punto è necessario farlo. Intendo dire, chiudete questo lavoro in un cassetto, sarà meglio per voi e per noi, e anche per il teatro che lo metterà in scena… ammesso sempre che ne troviate uno!
ALTRA VOCE REGISTRATA: Ivan Ivanovic!… Sono qua! Sentite un po’. L’Unione sovietica è realmente la mia seconda casa e io amo molto la gente sovietica. Proprio per questo mi devo comportare così come si comporta qui ogni persona per bene. Ma anche se nell’Unione Sovietica, in questa casa così bella io sono soltanto un ospite, non fa nulla. Visto che in questa casa è entrato, strisciando, un serpente, è mio dovere schiacciargli la testa!
Abbastanza chiaro no?
La commedia ha un grande successo ma dopo tre giorni è tolta dai cartelloni. Tuttavia Hikmet non ebbe troppi problemi con le autorità sovietiche. Non potevano certo arrestarlo! Con tutti i comitati pro Hikmet che c’erano ancora in giro per il mondo, lo scandalo sarebbe stato troppo grande!
Nel frattempo, in Turchia il governo, con decreto legge, gli toglie la nazionalità turca.
Ma la disperazione continua a stare sempre lontana dalle sue poesie. Questa è intitolata «Praga ottimista».
ORE DI PRAGA IL MATTINO “PRAGA OTTIMISTA”
Millenovecentocinquantasette, diciassette gennaio,
suonano le nove. Il freddo è soleggiato, sincero,
il freddo è rosa pallido,
il freddo è celeste cielo. I miei baffi rossi stanno per gelarsi. La città di Praga è incisa su una coppa di vetro
incisa con un diamante. Risuonerebbe se la toccassi:
striata d’oro, limpida e bianca. Sono le nove sonanti a tutte le torri e al mio orologio da polso. In questo minuto, in questo istante
a Praga nessuno ha mentito
in questo minuto, in questo istante
le donne hanno partorito senza doglie e in tutte le strade non è passata una sola bara
in questo minuto, in questo istante
tutti i diagrammi sono saliti – eccetto quelli dei malati –
in questo minuto, in questo istante
le donne sono tutte belle, tutti gli uomini intelligenti
e i manichini di cera senza tristezza
in questo minuto, in questo istante
nelle scuole tutti i ragazzi han risposto
senza confondersi alle domande
in questo minuto, in questo istante
in tutte le stufe c’era carbone
tutti i termosifoni erano caldi
e come sempre la Torre Nera dalla punta d’oro.
In questo minuto, in questo istante
i ciechi han dimenticato la loro tenebra
e i gobbi la loro gobba
in questo minuto, in questo istante
non ho un solo nemico. Nessuno può neanche immaginare che i giorni passati
potrebbero ritornare.
In questo minuto, in questo istante
Vastlar è sceso dal suo cavallo di bronzo
e s’è mescolato alla folla come uno sconosciuto.
In questo minuto, in questo istante
mi amavi, mio amore,
come non hai mai amato nessuno
in questo minuto, in questo istante
il freddo soleggiato, sincero,
il freddo è rosa pallido,
il freddo è celeste cielo. La città di Praga è incisa su una coppa di vetro
incisa con un diamante. Risuonerebbe se la toccassi:
striata d’oro, limpida e bianca.
Hikmet continua a girare da un Paese all’altro. Per fortuna non ha particolari problemi di adattamento! Ma è difficile riuscire a dimenticare Istanbul, con i suoi vicoli che si tuffano nel Bosforo, i profumi e le voci delle sue strade, del Gran bazar. Istanbul e le persone che a Istanbul ha dovuto lasciare: poterci tornare anche soltanto un giorno, magari solo un paio d’ore… magari sotto le spoglie di un albero, in un grande parco della città, senza essere riconosciuto dalla polizia…
IL NOCE
La mia testa è una nuvola schiumosa,
il mare è nel mio petto. Io sono un noce nel parco Ghiulkhan,
cresciuto, vecchio, ramoso – guarda! –
ma né la polizia, né tu, lo sapete.
Io sono un noce nel parco Ghiulkhan.
E le foglie, come pesciolini, vibrano dall’alba alla sera,
frusciano come un fazzoletto di seta; prendi,
strappale o mia cara, e asciuga le tue lacrime.
Le mie foglie sono le mie mani, centomila mani verdi,
centomila mani io tendo, e ti tocco, Istanbul. Le mie foglie sono i mie occhi, e io guardo intorno,
con centomila occhi ti guardo, Istanbul.
Le mie foglie battono, come centomila cuori.
Io sono un noce nel parco Ghiulkhan,
ma né la polizia, né tu, lo sapete.
Purtroppo però il suo cuore, la sua cardiopatia, continua a creargli non pochi problemi, e da Mosca spedisce a suo figlio quella che lui stesso definisce “Forse la mia ultima lettera Mehmet”.
Da una parte gli aguzzini tra noi
ci separano come un muro
d’altra parte questo cuore sciagurato
mi ha fatto un brutto scherzo
mio piccolo, mio Mehmet
forse il destino m’impedirà di rivederti.
Sarai un ragazzo, lo so,
simile alla spiga di grano
ero così quand’ero giovane
biondo, snello, alto di statura;
i tuoi occhi saranno vasti come quelli di tua madre
con dentro talvolta uno strascico di tristezza,
la tua fronte sarà chiara infinitamente
avrai anche una bella voce – la mia era atroce –
le canzoni che canterai spezzeranno i cuori
sarai un conversatore brillante
in questo ero maestro anch’io
quando la gente non m’irritava i nervi
dalle tue labbra colerà il miele
ah Mehmet,
quanti cuori spezzerai!
E’ difficile allevare un figlio senza padre
non dare pena a tua madre
gioia non gliene ho potuta dare
dagliene tu. Tua madre
forte e dolce come la seta
tua madre
sarà bella anche all’età delle nonne
come il primo giorno che l’ho vista
quando aveva diciassette anni
sulla riva del Bosforo
era il chiaro di luna era il chiaro del giorno
era simile a una susina dorata. Tua madre un giorno come al solito
ci siamo lasciati: “A stasera!”
Era per non vederci più. Tua madre
nella sua bontà la più saggia delle madri
che viva cent’anni
che Dio la benedica
Non ho paura di morire, figlio mio;
però malgrado tutto
a volte quando lavoro
trasalisco di colpo
oppure nella solitudine del dormiveglia
contare i giorni è difficile
non ci si può saziare del mondo Mehmet,
non ci si può saziare.
Non vivere su questa terra
come un inquilino
oppure in villeggiatura
nella natura
vivi in questo mondo
come se fosse la casa di tuo padre
credi al grano, al mare, alla terra
ma soprattutto all’uomo. Senti la tristezza
del ramo che si secca
del pianeta che si spegne
dell’animale infermo
ma innanzitutto la tristezza dell’uomo. Che tutti i beni terrestri
ti diano gioia
che l’ombra e il chiaro
ti diano gioia
che le quattro stagioni
ti diano gioia
ma che soprattutto l’uomo
ti dia gioia.
La nostra terra, la Turchia
è un bel paese
tra gli altri paesi
e i suoi uomini
quelli di buona lega
sono lavoratori
pensosi e coraggiosi
e atrocemente miserabili. Si è sofferto e si soffre ancora
Ma la conclusione sarà splendida.
Tu, da noi, col tuo popolo
costruirai il futuro
lo vedrai coi tuoi occhi
lo toccherai con le tue mani.
Mehmet, forse morirò
lontano dalla mia lingua
lontano dalle mie canzoni
lontano dal mio sale e dal mio pane
con la nostalgia di tua madre e di te
del mio popolo dei miei compagni
ma non in esilio
non in terra straniera
morirò nel paese dei miei sogni
nella bianca città dei miei giorni più belli.
Mehmet, piccolo mio,
ti affido ai compagni turchi
me ne vado ma sono calmo
la vita che si disperde in me si ritroverà in te
per lungo tempo e nel mio popolo, per sempre.
Hikmet trascorre gli ultimi anni della sua vita in esilio; ma non sono anni esclusivamente di sofferenza e di tristezza. C’è spazio anche per importanti riconoscimenti internazionali, per viaggi a Cuba e un po’ in tutto il mondo, per nuovi amori… Rimarrà sino alla fine una persona molto semplice, felice se la gente apprezza i suoi versi, ma senza preoccuparsi più di tanto se qualcuno storce il naso. «Nazim Hikmet non era una persona eccezionale» dice Joice Lussu, sua grande amica e traduttrice della sua opera in italiano. «Era una persona eccezionalmente normale, un uomo che si è battuto tutta la vita sia contro le celle delle prigioni, sia contro le celle dell’arte dove si sta in pochi o da soli».
Voleva che le sue poesie arrivassero al maggior numero di persone possibile. Non tanto ai signori critici letterari, quanto ai contadini, agli scaricatori del porto di Istanbul. Purtroppo però le poesie di Hikmet, tradotte in 53 lingue, in Turchia sono ancora considerate fuorilegge, così come è reato anche fare soltanto il suo nome.
Joyce Lussu dice che non si può parlare di Nazim Hikmet senza parlare dei problemi che oggi gli starebbero più a cuore: i vergognosi squilibri di questo pianeta Terra dove una minima parte della popolazione consuma il 90 per cento delle risorse; le tragedie che continuano a vivere quotidianamente tanti popoli del terzo mondo, o del quarto, o di quale serie, come nel caso del popolo curdo che ufficialmente continua a non esistere?
(COMPARE UNA DIAPOSITIVA DELLA POPOLAZIONE CURDA IN FUGA)
Infatti non soltanto il governo turco, ma anche quelli iraniano, iracheno, siriano, sostengono che buona parte dei venticinque milioni di curdi che vivono nei loro territori non esistono! Lo stato del Kurdistan, che nel 1920 era stato previsto dalle forze alleate e dallo stesso Ataturk, non è mai stato creato e quelle vaste e bellissime regioni di montagna ricche (forse purtroppo!) di giacimenti petroliferi sono state spartite fra questi Stati col benestare degli occidentali.
E così può capitare che l’Iran, la Siria, l’Iraq, la Turchia, nazioni da sempre gelosissime dei propri confini, consentano e molto spesso incoraggino reciproci sconfinamenti alle aviazioni nemiche per gettare un po’ di bombe ed eliminare un po’ di curdi di frontiera.
Così nel 1988 Saddam Hussein, quando era ancora un nostro fedele alleato e acquistava dagli occidentali armi di tutti i tipi (in quell’anno solo dal nostro “bel paese” aveva acquistato armi per quattordicimila miliardi di lire!) nell’88 Saddam Hussein ha potuto tranquillamente bombardare la cittadina curda di Halabjina utilizzando armi chimiche, armi messe al bando dall’ONU. E non essendo arrivata nessuna condanna da parte occidentale ha potuto ripetere l’operazione l’anno successivo con gas ancora più potenti e micidiali, (mostarde, gas nervino, vapori di cianuro), con “un successo” ancora maggiore: solo in quell’occasione cinquemila morti, quasi tutti bambini, vecchi, donne. Una morte “pulita”, silenziosa, senza sangue. Niente corpi mitragliati sulle bancarelle che vendono arance, nessuna casa squarciata. Solo il rumore degli aerei che forano le nuvole tra le montagne, e poi, silenzio. Un silenzio assordante e cinquemila corpi di donne, di bambini, con le bocche aperte, le mani intorno alla gola, a stringerla per non respirare, a impedirle di gonfiarsi ancora di più, la lingua fuori, gli occhi grandi, impietriti, la pelle che perde colore…
Ma per l’ONU il problema del Kurdistan non è degno di nessuna risoluzione. Il resto è storia dei nostri giorni: nonostante la “vittoriosa” operazione di polizia internazionale nel Golfo, il popolo curdo continua a essere perseguitato, privato dei più elementari diritti nella più totale indifferenza.
Potremmo fermarci qui, ma vorrei leggervi ancora una poesia, l’ultima. L’ultima poesia scritta da Nazim Hikmet, a Mosca, proprio pochi giorni prima di morire. Eppure, nonostante il titolo e l’argomento, si tratta ancora una volta di una poesia positiva, di una poesia di speranza!
IL MIO FUNERALE
Il mio funerale partirà dal nostro cortile? Come mi farete scendere giù dal terzo piano? La bara nell’ascensore non c’entra
e la scala è tanto stretta.
Il cortile sarà, forse, pieno di sole, di piccioni
forse nevicherà, i bambini giocheranno strillando
forse sull’asfalto bagnato cadrà la pioggia
e al solito ci saranno i bidoni per l’immondezza.
Se mi tiran su nel furgone col viso scoperto, come si usa qui,
forse mi cadrà in fronte qualcosa di un piccione, porta fortuna,
che ci sia o no la fanfara, i bambini accorreranno
i bambini sono sempre curiosi dei morti.
La finestra della nostra cucina mi seguirà con lo sguardo
e il nostro balcone mi accompagnerà col bucato steso. Sono stato felice in questo cortile, pienamente felice. Vicini miei del cortile, vi auguro lunga vita, a tutti.
(COMPARE UNA DIAPOSITIVA DI NAZIM HIKMET CHE SORRIDE)
BUIO
Per ricordare Hikmet nel cinquantenario della morte ho chiesto a Pierpaolo Piludu di postare lo spettacolo che lui aveva scritto – nel periodo della guerra del Golfo – per raccontare la vita di Hikmet e il dramma dei curdi. (db)
(*) Anche quest’anno la “bottega” ha recuperato alcuni vecchi post che a rileggerli, anni dopo, sono sembrati interessanti. Il motivo? Un po’ perché oltre 17mila e 700 articoli (avete letto bene: 17 mila e 700) sono taaaaaaaaaaanti e si rischia di perdere la memoria dei più vecchi. E un po’ perché nel pieno dell’estate qualche collaborazione si liquefà: viva&viva il diritto alle vacanze che dovrebbe essere per tutte/i. Vecchi post dunque; recuperati con l’unico criterio di partire dalla coda ma valutando quali possono essere più attuali o spiazzanti. Il “meglio” è sempre soggettivo ma l’idea è soprattutto di ritrovare semi, ponti, pensieri perduti… in qualche caso accompagnati dalla bella scrittura, dall’inchiesta ben fatta, dalla riflessione intelligente: con le firme più varie, stili assai differenti e quel misto di serietà e ironia, di rabbia e speranza che – lo speriamo – caratterizza questa blottega, cioè blog-bottega. [db]