Nicaragua: il pantano danielista

Le manifestazioni e gli scontri che da aprile incendiano il paese affondano le radici nel tradimento dei valori della rivoluzione del 1979 ad opera del sandinismo vicino a Ortega. Le elites imprenditoriali e la destra cercano di capitalizzare errori e contraddizioni del Frente sandinista

di David Lifodi

Che cosa è rimasto di quel sandinismo che, alla fine degli anni ’70, con l’ingresso vittorioso del Frente sandinista a Managua, aveva suscitato così tante speranze non solo in Nicaragua e in America latina, ma in tutto il mondo? Qual è il ruolo del presidente Daniel Ortega e del suo governo nella repressione dell’ondata di proteste che dal mese di aprile scuote il paese centroamericano? Come interpretare gli scontri di piazza? Sono domande a cui non è semplice dare una risposta univoca, vista la complessità della situazione, e accomunare tout court quanto sta accadendo in Nicaragua alla situazione venezuelana sotto certi aspetti potrebbe essere fuorviante. Altrettanto errato sarebbe ridurre tutto alla polarizzazione tra gruppi paramilitari di destra infiltrati nei cortei allo scopo di compiere atti vandalici e le cosiddette turbas della gioventù sandinista.

Di certo l’attuale governo sandinista non è più progressista, aldilà della retorica rivoluzionaria che Ortega continua ad utilizzare da anni e della sua adesione all’Alba (Alianza Bolivariana para los pueblos de nuestra América), ma è altrettanto vero che sono in molti a cercare di capitalizzare il declino del sandinismo e la sua recente traiettoria politica quantomeno discutibile, per raggiungere il potere, a partire dai settori ultraconservatori del paese.

Tuttavia è innegabile che già da molti anni il Frente sandinista sia stato ribattezzato con amara ironia Frentedanielista. In particolare, la virata di Ortega verso posizioni inimmaginabili all’epoca della rivoluzione era iniziata con la alleanza stretta con Arnoldo Alemán, uno dei peggiori presidenti del paese e vicino al regime somozista. Non solo. Ortega non si è fatto scrupoli nell’avvicinarsi al settore più reazionario della Chiesa cattolica e, per compiacerlo, si è spinto fino ad abolire l’aborto terapeutico. Inoltre, e non da adesso, il paese si è allineato al respingimento dei migranti imposto da Trump,facendo così il lavoro sporco, insieme al Messico, per l’amministrazione statunitense. Contemporaneamente, anche all’interno del Frente sandinista, Ortega ha finito per creare un cerchio strettissimo dei suoi collaboratori, respingendo le innumerevoli critiche provenienti da roccaforti storiche quali Estelí o León e non guardando in faccia a nessuno quando si è trattato di mettere a tacere le proteste degli universitari.

Ad esempio, proprio ad Estelí, ha suscitato grande emozione la morte di Orlando Pérez, figlio della professoressa Socorro Corrales, aderente, al pari di tanti militanti storici, a quel sandinismo di base relegato ai margini dalla moglie di Ortega, Rosario Murillo, una figura già ambigua ai tempi della rivoluzione, come emerso anche nei romanzi di Gioconda Belli, la scrittrice protagonista di primo piano della lotta sandinista all’epoca della lotta contro la dinastia dei Somoza. Tra coloro che si sono allontanati da tempo dal sandinismo ufficiale anche il religioso, poeta e intellettuale Ernesto Cardenal, già ministro all’epoca della rivoluzione indignatosi fin dal 1990 (quando Violeta Chamorro sconfisse il Frente nelle urne) a causa della cosiddetta piñata, l’appropriazione di molti beni di carattere collettivo o sociale da parte dell’allora nascente borghesia orteguista costretta ad abbandonare la guida del paese. Fu Cardenal, quando il Nicaragua sandinista era sotto assedio, ad accogliere Giovanni Paolo II all’aeroporto di Managua con la celebre frase: “Benvenuto nel Nicaragua libero, grazie a Dio e alla rivoluzione”.

Nelle mobilitazioni di piazza che hanno già provocato numerosi morti, un ruolo di primo piano lo hanno giocato quei giovani nati negli anni Ottanta, quando il sandinismo era costretto a guardarsi dagli attacchi degli Stati uniti, che si affidarono ai contras nel timore che l’America centrale si trasformasse in un laboratorio rivoluzionario. Oggi questi giovani, che non dovrebbero essere esclusi dalla costruzione del paese, hanno sperimentato sulla propria pelle cosa significhi essere respinti da un governo che, solo a parole, si definisce sandinista, solidale e attento alla democrazia partecipativa. Difficile, sotto questo punto di vista, paragonare il caso del Nicaragua ai colpi di stato andati a segno in questi anni in Honduras, Paraguay, Brasile e alla destabilizzazione quasi quotidiana del Venezuela.

Secondo la rivista Envio sono state tre le cause scatenanti dell’insurrezione.

La prima. Fino al 2014 il governo si era adoperato per l’installazione del wi-fi libero in gran parte del paese. Il levantamiento è nato su quelle rete sociali che, per quanto rappresentino un terreno sotto certi aspetti ambiguo e facilmente strumentalizzabile dalle destre (basti guardare al Venezuela o alle fake news che circolano sul candidato presidenziale di centrosinistra Andrés Manuel Obrador in Messico), hanno cominciato ad impensierire Ortega e così il wi-fi gratuito nei parchi di tutto il paese è stato subito revocato.

In secondo luogo, l’incendio del 3 aprile nella riserva biologica Indio-Maíz, nel sud est del paese è stato inizialmente minimizzato dal governo, che ha rifiutato l’aiuto dei vigili del fuoco del Costarica ed impedito a giornalisti indipendenti e ambientalisti di entrare nella riserva, ma soprattutto ha minacciato di ritirare la personalità giuridica alla Fundación del Río, la prima organizzazione che dette l’allarme quando si propagarono le fiamme. Da anni le riserve forestali del paese sono sottoposte ad una massiccia deforestazione, come evidenziato anche dall’Alianza de los Pueblos Indígenas y Afrodescendientes de Nicaragua e l’incendio nella riserva biologica Indio-Maíz ha rappresentato una sorta di shock per tutto il paese.

Infine, la riforma delle pensioni, discussa quasi esclusivamente con le elites imprenditoriali.

Nonostante tutto, i punti di vista sul pantano nicaraguense sono i più diversi. Degno di rilievo e senz’altro attendibile è quello di Giorgio Trucchi, storico corrispondente dal Nicaragua, tra gli altri, per Peacelink, l’associazione Italia-Nicaragua e l’agenzia d’informazione latinoamericana Alainet, che racconta il faticoso tentativo del governo per aprire un negoziato di pace boicottato in maniera violenta (assaltata la radio governativa Radio Ya e il Ministero dell’Economia familiare) da una parte dell’opposizione abile a conquistare tramite twitter, con l’ambiguo hashtag “SOS Nicaragua”, solidarietà all’interno e all’esterno del paese.

Probabilmente c’è chi intende trarre profitto dal caos e il timore principale è che le elites imprenditoriali puntino a sfruttare le debolezze, le difficoltà ed una gestione molto discutibile della piazza da parte del sandinismo orteguista per arrivare alla presidenza di un paese che peraltro, secondo gli stessi Stati uniti, è un buon alleato della Casa bianca, aldilà delle dichiarazioni di facciata. Se il Frente sandinista non tornerà a quei valori che gli permisero di vincere nelle strade e nei quartieri delle principali città del paese all’inizio degli anni Ottanta, il Nicaragua finirà nelle mani di una destra pericolosa e reazionaria, anche perché nel sandinismo critico e di base non sembra esserci la forza necessaria per riprendersi il paese e quello orteguista, o danielista, è tutt’altro che affidabile.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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