«Oltre la soglia»: ovvero “racconti fantastici e…

e speculativi di buon vicinato e prossimità” è in uscita. Anticipiamo la prefazione di Giulia Abbate.

In questi giorni esce nelle librerie e negli store l’antologia «OLTRE LA SOGLIA – Racconti fantastici e speculativi di buon vicinato e prossimità», edita da Watson edizioni, con la curatela di Giulia Abbate, e con racconti di Sergio Beccaria, Romina Braggion, Commando Jugendstil, Caterina Franciosi, Gloria Bernareggi & Sephira Riva, Marco Melis, Franco Ricciardiello, Erica Tabacco, Silvia Treves.

Ecco la prefazione di Giulia Abbate.


«Oltre la Soglia» – PREFAZIONE

Esiste un proverbio il cui concetto di base è comune a molte culture, e che suona pressappoco così: “Meglio un prossimo vicino che un lontano cugino”.

Eppure, non è semplice parlare di “vicinə di casa” senza che si attivino sentimenti non proprio positivi. Nella nostra società, parlare di vicinato significa spesso parlare di noie, di contrasti, di interazioni improntate sul darsi fastidio a vicenda: è raro parlare in modo positivo di questa relazione, che è complessa, ma che è anche in gran parte dimenticata, sottovalutata, disattesa.

In parte questo deriva dal fatto che il vicino, la vicina, non si sceglie: ce lə troviamo accanto, con la sua alterità e tutti i segni materiali della sua esistenza autonoma; in generale, capita spesso di pensare che potremmo felicemente farne senza.

Questo, almeno, finché non succede qualcosa.

Non mi metterò a elencare calamità domestiche, penso sia più semplice citare Il Grande Qualcosa della nostra contemporaneità, quello che ci ha scagliatə in una nuova era: appena pochi mesi fa, siamo statə costrettə a restare confinatə tra le mura delle nostre case, a causa della gestione governativa dell’emergenza pandemica, che si è basata in gran parte sulla chiusura fisica e sociale.
A quel punto, l’esistenza di un vicinato e la sua qualità hanno davvero potuto fare la differenza nei giorni difficili, nel fiume indistinguibile e ininterrotto di ore grigie che abbiamo guadato a vista.

Si è scherzato (dopo) sulla necessità di trattare bene il vicinato, perché avrebbe potuto esserci utile per le coreografie dal balcone: dopodiché, non sono certa che a livello di società si sia davvero capito il valore del vicinato tout court, e la necessità di essere buonə vicinə prima che di averne.

Chi è, il vicino o la vicina di casa, in fondo? Non è un familiare, né un’amica, eppure presenta caratteristiche simili a entrambi gli stati: vive con noi, accanto a noi, più di un cugino lontano fisicamente, appunto; e in caso di bisogno può arrivare prima di un’amica, anche senza chiamata, per darci un aiuto decisivo.

Questo è molto più chiaro nelle comunità piccole o rurali, nelle quali è ancora importante poter contare su un occhio in più, su una mano pronta quando noi non siamo nei paraggi, su una persona che apra la porta quando noi non ce la facciamo.

Sì, perché il buon vicinato ha la prima apparenza di una relazione opportunistica, ma, trascendendo dalla non disprezzabile utilità materiale, chiediamoci anche: non è bello il pensiero di poter contare su qualcunə che festeggi – e porti le sedie – quando noi festeggiamo, che pianga – e tenga a cena bambine e bambini – quando noi piangiamo? Qualcunə che lo faccia non perché coinvoltə personalmente, ma perché è accanto, vive dove noi viviamo, e partecipa alla nostra vita come noi alla sua?

Parlare di vicinato, liberandoci dall’irritazione un po’ egoista di chi pretende vicinə a modo senza porsi il problema di esserlo, significa parlare di vita comune: di una dimensione domestica che si apre alla comunità, al quartiere, e per estensione alla città.

La relazione di vicinato di fatto connette la sfera privata e quella pubblica: si pone nella sfera del comune, ovvero dei commons, della quale oggi moltə pensatrici e pensatori auspicano la riscoperta e segnalano la necessità.

In “Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons” (Ombre Corte, 2018), la filosofa e sociologa attivista Silvia Federici descrive così i commons:

Situata a metà strada tra il “pubblico” e il “privato”, ma irriducibile a entrambe le categorie, l’idea di commons esprime una concezione più ampia di proprietà , che fa riferimento ai beni sociali – terre, foreste, prati o spazi comunicativi – che una comunità, non lo Stato o un privato, possiede, gestisce e controlla collettivamente. Al contrario del “pubblico”, che presuppone l’esistenza dell’economia di mercato e della proprietà privata ed è “tipicamente amministrato dallo Stato”, l’idea dei commons evoca immagini di intensa cooperazione sociale.

Nello stesso saggio, Federici cita un passo emblematico da un manifesto di The Emergency Exit Collective:

La nostra prospettiva è quella dei commoners del pianeta: esseri umani con corpi, bisogni e desideri, la cui tradizione più essenziale è la cooperazione nella produzione e conservazione della vita, e tuttavia sono stati costretti a farlo in condizioni di sofferenza e di isolamento dagli altri (…).

Leggeremmo queste righe nello stesso modo, se non fossimo passatə atraverso il trauma della chiusura della primavera 2020? Eppure, l’isolamento e la sofferenza imposti da un sistema di vita iniquo e alienante erano tali anche prima del cosiddetto lockdown, sebbene celati nelle pieghe di una quotidianità strutturata apposta per tenerci “fuori”: fuori dalle nostre case accatastate nei palazzoni, fuori dalle contiguità di pianerottolo e di numero civico, fuori dalla nostra stessa presenza  – materiale e di spirito – in un posto specifico, tra specifiche mura.

Non ho bisogno di nessuno, il vicino di casa è un fastidio che sarebbe meglio non esistesse, non serve, non è il benvenuto, a dirla tutta è un gran rompiballe”… questo modo di pensare è una strategia sensata per tacitare il disagio della prossimità, ma silenzia anche tanto altro.

Proprio alla ricerca di quel “tanto altro” mi sono rivolta alle autrici e agli autori di questa raccolta, dopo che l’editore mi ha affidato il progetto, rivolgendo loro un appello chiaro, persino accorato, perché io stessa ho accettato questa curatela per un motivo preciso: per ragionare insieme, con gli strumenti del fantastico, sul valore del vicinato, e sull’importanza di essere buone vicine e buoni vicini.

In questo preciso momento storico – nel quale la pandemia non è che l’allarme, pure assordante, di un generale deragliamento sociale, civile, politico, valoriale, esistenziale; e nel quale la feroce atomizzazione è funzionale all’esercizio di un potere che ci vuole solə e separatə –  vicini e vicine di casa non possono più essere una minaccia né una rogna e basta.

Dobbiamo riconoscere il valore del mutuo aiuto, il nostro dovere di coltivarlo, il nostro diritto di aspettarcelo e il nostro potere di costruirlo. Dobbiamo ritrovare la forza di stare insieme, pur nelle diversità, per farci carico del bene che ci circonda, e averne cura non solo per noi, ma per chi non può farlo direttamente e per chi verrà in futuro.

Se il vicino/la vicina è il primo “Altro” al di fuori della nostra cerchia privata, non può essere anche una prima “parentela” – nel senso in cui lo intende la filosofa Donna Haraway, quando parla di “kin” generata da una scelta, compiuta per amore quanto per responsabilità?

Non è forse, il vicinato, la nostra più diretta area di influenza a livello sociale?
E che cos’è la casa? Vogliamo parlare di questo concetto, importantissimo anche in chiave ecologica ed eco-sistemica?

Ho scelto di presentare una richiesta e insieme delle domande, per proporre “l’antologia sui vicini di casa”, che di primo acchitto rischiava di suonare bizzarra e un po’ ridicola. E sono felice di poter dire che tutte le autrici e tutti gli autori che ho contattato hanno accolto la chiamata senza esitazioni, e si sono messə al lavoro con molta cura, proponendo da subito idee e spunti di grande originalità, e accettando la respons-abilità, la prerogativa di rispondere personalmente, da me sollecitata: quella di dare valore a una relazione che è a nostra portata di mano, e che ha bisogno di volontà e slancio per dare frutti in grado di addolcire la vita.

La chiave con la quale autori e autrici hanno affrontato il tema del buon vicinato è quella espressa nel sottotitolo, ovvero quella del fantastico, e più in particolare della narrativa speculativa: la fantascienza.

L’immaginario ci mette a disposizione degli strumenti molto potenti, sotto forma di metafore, di allegorie, di visioni che richiamano significati profondi e condivisi, e che possono svilupparsi ancora e ancora, dentro di noi, entrando in relazione con la nostra fantasia e con le esperienze personali, tra simboli comuni e immagini private.

La fantascienza in particolare, che è il genere qui più usato in molte sue sfaccettature, ha una prerogativa cruciale: quella di guardare al domani per parlare dell’oggi, di imparare dal futuro – più precisamente dalle nostre ipotesi metodiche su come il futuro potrebbe evolversi – lezioni preziose per vivere presenti nel presente, per capirlo, per agirlo.

Ecco quindi che, si parli di una vicinanza tra popoli di pianeti alieni o di una guerriglia di quartiere possibile domani, lo spostamento immaginario ci permette di capire meglio ciò che conta, e di immedesimarci nelle vicende senza l’ingombro di un presente che, se fosse riportato in modo pedissequo, si dimostrerebbe forse poco appassionante o non condivisibile.

L’immaginario, poi, ci permette una grande varietà di scenari e di suggestioni, perché si avventura oltre la soglia del “reale”: in questo caso, la soglia non è solo metaforica, ma anche materiale e letterale, è la nostra soglia, e varcandola possiamo attraversare mondi… per scoprire finalmente il nostro pianerottolo!

Sul pianerottolo si svolgono scene cruciali del racconto di Erica Tabacco: «Legami virtuosi», con il quale apriamo il percorso. La storia si svolge in un ambiente che ha del familiare, ed è incentrata su una nuova invenzione salvaspazio condominiale; il racconto ha la struttura e la sagacia della fantascienza classica, con il particolare inserimento di un “alieno” che pure sta sotto i nostri occhi molto spesso.

Sempre in un contesto residenziale ha luogo «Le comari» del duo scrittorio composto da Gloria Bernareggi e Sephira Riva. Il titolo contiene il nucleo della storia, nella quale due persone si trovano vicine per caso e però si scelgono anche, stringono un legame femminile di quelli che esistono ancora, magari nei paesi… solo che il “contesto residenziale” non è altrettanto usuale: le autrici dispiegano uno scenario tipicamente fantastico, tra fiaba popolare e archetipo magico, con quello che tecnicamente è detto retelling, ovvero il raccontare una storia conosciuta con uno sguardo e una voce diversi, che ne riscrivono il significato.

Torniamo a una casa “reale”, anzi, «A casa di Rita» con Romina Braggion, che mantiene la diversità dello sguardo. C’è una voce altra, qui, di un “vicino” che conosciamo bene in moltə, e che poi vive con noi, ci guarda, e in qualche modo si fa respons-abile al nostro fianco. Braggion gli dà voce, e attraverso il suo punto di vista attento anche all’invisibile tesse il racconto della sofferta evoluzione di una persona attraverso il cambiamento dei suoi legami. In questo racconto il fantastico ha un sapore quotidiano, e si sublima in un delicato realismo magico.

Sempre lo sguardo è un fulcro importante del racconto successivo, “DueLune”: con esso Silvia Treves ci porta lontano, in un mondo alieno costruito con un sapiente worldbuilding fantascientifico, nel quale mette in scena la coesistenza di popoli dotati di caratteristiche così diverse da essere incomunicabili, ma alle prese con problemi ben più definiti. La prossimità non è garanzia di conoscenza, l’intimità è il frutto di un processo che ha origine da un atto di volizione:  se cerchiamo di evitarne la fatica, smussando e alterando il contatto, la connessione rimane, oppure sopravviene qualcosa di diverso?

Connessione: è quella che nella storia successiva permette ai personaggi di organizzarsi, e di combattere (letteralmente) per la salvezza degli spazi di socialità di un quartiere minacciato dalla speculazione palazzinara. “Si fiorisce solo insieme”, ce lo racconta il Commando Jugendstil, collettiva di artistə che lavora nel e con il sociale e ben conosce il concetto di commons. Lo declina in un racconto divertente e pieno di azione, con vicende che potrebbero accadere ora o forse già accadono, e con un piglio attivista che caratterizza il solarpunk, la nuova fantascienza ecologista, anarchista e utopica che anche in Italia prende piede, influenzando il modo di pensare alle sfide che abbiamo di fronte.

Nel racconto che segue, Marco Melis attinge alle suggestioni di un altro genere tra i più contemporanei, il new weird: un’atmosfera di indeterminatezza, un mistero che non sembra potersi sciogliere, un setting nel quale la vita prolifera in forme lussureggianti e suggestive, ma anche indifferenti e spaventose. La protagonista cerca un modo (e un motivo?) per sopravvivere, aiutata da chi con lei si trova in questa avventura bizzarra, ma forse non del tutto indecifrabile. Una chiave di lettura tra le molte possibili è suggerita dal titolo: «Matsutake» è una varietà di funghi dalla quale parte l’antropologa Anna Tsing (che conosce e lavora con la già citata Donna Haraway), per una analisi della vita possibile tra “le rovine del capitalismo”; il titolo stesso del suo saggio è “Il fungo alla fine del mondo”.

Dai funghi ai fiori – quest’antologia è indubbiamente “verde” per temi e scenari, confermando il fatto che parlare di vicinato significa in fondo parlare del mondo al quale teniamo – con «Fiori di bambù» di Caterina Franciosi: l’ente scientifico Ricerca Verde ha sede in un palazzo dove ricercatori e ricercatrici convivono tra piani residenziali e laboratori; in una città che affaccia sul Mediterraneo e che, tra pareti vegetali e terrazze panoramiche, ripropone le suggestioni del solarpunk. Qui, una ricercatrice fronteggia un guaio la cui origine è da ricercare proprio nel vicinato, e che lì ha anche la sua soluzione.

Il “verde” c’è anche in «Neuroni specchio» di Sergio Beccaria, ed è un verde intrinsecamente connesso al concetto di vicinato: ma dobbiamo imparare a coltivarlo, in noi prima che nel nostro giardino. Perché a pensare solo al nostro giardino, trascurando in egual misura il mondo oltre di esso e quello invisibile dietro di noi, la china si fa pericolosa. Beccaria ce lo dimostra servendosi di una breve, intelligente distopia, il genere di fantascienza sociale più conosciuto e apprezzato oggi: con tre scene e un colpo di teatro nel mezzo, l’autore ne onora la funzione ammonitrice.

«Chi si ricorda di settembre nero» di Franco Ricciardiello chiude l’antologia, che ho voluto strutturare alternando scenari familiari ad ambientazioni distanti, per tenere tesa la “corda” tra consuetudine e meraviglia, tra riconoscimento e straniamento. Questo ultimo racconto unisce tutti gli aspetti citati, e rende manifesto il legame tra grande e piccolo, tra privato e planetario: i cambiamenti climatici sconvolgono una famiglia italiana come tante, che viene scagliata nel lutto e poi sradicata dalla migrazione climatica. Il vicinato svedese è il nuovo alveo nel quale la protagonista raccoglie i suoi pezzi, determinata a ricominciare a vivere; suo padre invece si rifiuta di farlo, e respingendo gli approcci dei vicini impedisce di “essere avvicinato”. La conclusione di questo contrasto potrebbe strapparvi una lacrima, come ha fatto con me, grazie all’immagine finale di un gesto semplice e spontaneo.

Spontaneità, semplicità, e insieme profondità: sono aspetti che coesistono nel quotidiano, e che spero possano ispirarti e portarti a riconsiderare anche ciò che ti circonda, sotto nuovi punti di vista.

Alle voci di questa raccolta, voci di autrici e autori molto diversə, che usano generi dell’immaginario ampi e vari, spero vorrà aggiungersi la tua: puoi dare vita a queste storie grazie alla tua attenzione e alla tua considerazione, e proseguirle in una conversazione interiore che si irradi poi nel comune in cui ti trovi. Che è lì, è sempre stato lì, e aspetta il tuo contributo oltre la soglia: varcarla è un gesto necessario, semplice, enorme.
E bellissimo.

Buona lettura!

 

 

Redazione
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