Università e orizzonti di guerra

Gli atenei e la ricerca nell’epoca del dual use.

di Jacopo Bonasera e Matteo Rossi (*)

Immagine ripresa da https://jacobinitalia.it/

 

Gli scioperi generali del 22 settembre e del 3 ottobre hanno aperto uno spazio politico per un’opposizione di massa alla guerra e al genocidio. Dopo quei giorni, si è aperta una fase che impone di chiederci in che modo non disperdere l’energia politica che si è espressa in tantissime piazze, in Italia e non solo, quando centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici hanno scelto di scioperare eccedendo di gran lunga strutture e realtà organizzate. Ad oggi, l’accordo tra Hamas e Israele patrocinato da Trump ha portato a un fragile cessate il fuoco, a una tregua (parziale) allo scempio quotidiano di vite palestinesi che ha prodotto l’ondata di indignazione e solidarietà manifestata in queste settimane. Ma lo scenario da Terza guerra mondiale che ha reso possibili due anni di violenza genocida da parte dello Stato di Israele è ancora attuale, così come gli effetti che esso produce ben al di là dei campi di battaglia di Gaza e dell’Ucraina. Il persistere della guerra e dei piani di riarmo richiede di riflettere sulle parole d’ordine e sui discorsi fin qui elaborati e sollecita una riflessione sulle modalità con cui si può alimentare, allargare e consolidare la forza espressa da quanti hanno scioperato e sono scesi in piazza.

Pensiamo che questa riflessione sia urgente non solo per chi in questi anni si è attivato contro guerra e genocidio dentro l’università – attraverso il movimento delle acampadas e la costituzione di diversi percorsi assembleari e di mobilitazione -, ma anche per chi nell’ultimo anno, partendo dalla questione dei tagli e dalla ormai approvata riforma del pre-ruolo, ha messo a tema nelle Assemblee precarie universitarie gli effetti della guerra e del genocidio su chi lavora nella ricerca, nella didattica e nei servizi degli atenei. Le piazze delle scorse settimane hanno costituito uno spazio inedito di presa di parola per lavoratori e lavoratrici dell’università e la portata di massa degli scioperi ha permesso a molti e molte studenti e studentesse, docenti, ricercatori e ricercatrici e tecnici di astenersi dal lavoro vincendo le difficoltà associate a forme contrattuali precarie, all’impossibilità della sindacalizzazione, alla frammentazione e alla paura di danneggiare solo se stessi.

Lungi dal risolvere il problema della sua organizzazione, questo scenario carica la sfida e il valore dello sciopero di nuova complessità. In questa nuova fase si avvertono già i segnali di una possibile dispersione dell’energia e della forza espresse nelle piazze delle settimane scorse. Nella moltiplicazione di iniziative, occupazioni, discussioni che hanno fatto seguito agli scioperi, sembrano nuovamente destinati a separarsi discorsi e pratiche contro l’università in guerra, che tendono a limitarsi alla denuncia di accordi e complicità istituzionali, e un piano rivendicativo di precari e precarie che rischia di chiudersi dentro logiche da sindacalismo corporativo. Per questo è importante capire oggi come spiazzare questa situazione per fare in modo che chi lavora, studia e fa ricerca in università possa ampliare e far risuonare nelle proprie lotte ciò che si è espresso in quegli scioperi, rifiutando la normalizzazione di una stretta continuità tra ricerca civile e militare e facendone il punto di attacco di condizioni di vita e di lavoro sempre più precarie nei luoghi di produzione del sapere.

È in questa prospettiva che discutiamo alcuni nodi e questioni – dagli accordi con le università israeliane al dual use, dal definanziamento della ricerca di base all’aumento dei fondi privati ed europei, fino all’uso della scienza per legittimare forme autoritarie di esercizio del potere politico e piani di riarmo – che hanno scandito diversi momenti dei percorsi organizzativi dentro l’università a cui abbiamo partecipato e che oggi ci pare debbano essere rimessi a fuoco.

Università e ricerca nello scenario di guerra

La guerra sta definendo priorità e condizioni della ricerca e del lavoro accademico attraverso processi che vanno ben al di là del semplice rafforzamento di una rete di legami, complicità e interessi economici tra università europee da un lato e aziende produttrici di armi o università israeliane dall’altro. Senza dubbio, i rapporti che le università intrattengono con attori di rilievo nel genocidio palestinese e nel riarmo europeo, ben documentati dal rapporto Albanese, costituiscono un tassello rilevante di una crescente normalizzazione della continuità tra ricerca militare e civile che noi rifiutiamo. Tuttavia, la partita sul nesso tra università, ricerca e guerra passa anche e principalmente per la messa a punto di strumenti normativi, di governance e di comando sul lavoro di ricerca che puntano a rendere il sapere applicabile programmaticamente in ambito bellico e a neutralizzare le opposizioni di carattere ‘etico’ o politico di ricercatori e ricercatrici.

A essere in gioco, infatti, ci sono trasformazioni strutturali delle modalità con cui è condotta la ricerca in uno scenario che impone di mettere a valore la produzione e la trasmissione del sapere a ogni livello. Queste tendenze stanno approfondendo e ri-direzionando processi già in corso da tempo, che da decenni stanno piegando la ricerca alle priorità stabilite dal mercato, alle esigenze produttive, all’industria. Nel contesto attuale, in cui gli stessi processi produttivi vengono ridefiniti a partire da nuove esigenze strategiche legate alla guerra e al riarmo degli Stati, il governo politico ed economico della ricerca e della scienza assume ancora più centralità perché si lega alla competitività imposta dal nuovo disordine transnazionale: vediamo ovunque una corsa ad avere la propria industria, a saper produrre semiconduttori, componenti tecnologiche, armi e strumenti bellici, con la pianificazione industriale e produttiva che diventa un campo di battaglia fondamentale. In questa cornice il sapere prodotto e trasmesso dalle università e da ricercatori e ricercatrici è un asset centrale.

Visto da questa prospettiva, anche l’attacco all’università condotto attraverso tagli verticali ai fondi e precarizzazione del lavoro appare come una faccia delle politiche di guerra. È innegabile che il sottofinanziamento strutturale degli atenei – così come di tutti i servizi pubblici e del welfare – sta per essere ulteriormente aggravato dalle esigenze di finanziamento della difesa e dal dirottamento di fondi dei bilanci pubblici alle armi, alla difesa, ai droni, che sarà certificato dalla legge di bilancio. Nella ricerca, il Fondo di finanziamento ordinario (FFO) vede confermati i tagli consistenti promessi dalla Bernini, e a pagarne le conseguenze sono prima di tutto lavoratori e lavoratrici della ricerca di base, per i quali la precarietà o l’espulsione in massa sembra diventare un destino ineluttabile, soprattutto dopo l’esplosione della bolla PNRR. Allo stesso modo, bilanci sempre più compromessi vorranno dire tagli verticali anche ai servizi, appaltati per esigenze di cassa a cooperative varie e inquadrati con contratti sempre più precari. Questo, tuttavia, non deve indurre a errori prospettici. Il taglio dei fondi pubblici, infatti, non vuol dire che nell’università e nella ricerca non ci siano più soldi. Al contrario, lo svuotamento del FFO vuol dire che la ricerca dovrà essere finanziata in maniera crescente attraverso fondi – privati, nazionali o europei – che non solo trasformeranno il lavoro di chi fa ricerca, ma ne orienteranno anche i contenuti.

Tutto ciò che è scientificamente utile deve essere militare

Un esempio lampante di questa tendenza sono i cambiamenti apportati dalla Commissione europea al programma Horizon Europe nel luglio 2025, validi per il ciclo 2028-2034, che contengono indicazioni concrete sulle condizioni che migliaia di precari e precarie si troveranno ad affrontare nel prossimo futuro. Da un lato, infatti, il finanziamento del programma Horizon viene quasi raddoppiato, passando da 95,5 a 175 miliardi; dall’altro, esso viene inserito nel Fondo Europeo per la Competitività, la nuova iniziativa della Commissione Von der Leyen per aumentare le capacità europee in materia di tecnologia e innovazione in settori strategici, difesa, transizione energetica e digitale, salute. L’assorbimento di Horizon nel FEC non comporta solo uno spostamento dei capitoli di spesa, ma impone un’integrazione sempre più stretta tra investimento nella ricerca e competitività europea. A questo scopo, il prossimo ciclo Horizon è stato interamente aperto a progetti dual use. Come ha dichiarato la commissaria a ricerca e innovazione Zaharieva, il programma Horizon sarà reso “dual use di default” per rispondere all’impellenza di “rendere gli europei più sicuri”.

Che la guerra costituisca il quadro politico dentro il quale ridefinire la programmazione, il finanziamento e le forme di comando sulla ricerca, d’altra parte, era stato già anticipato in primavera da un documento dell’ESIR (il gruppo di consulenti della Commissione Europea sull’Economic and Societal Impact of Research), che prescriveva la necessità di “ripensare il dual use” per “trarre più vantaggi possibili dagli investimenti in ricerca e innovazione” e che ha preparato la riforma del prossimo ciclo di Horizon. Gli esperti dell’ESIR presentano l’apertura di tutta la ricerca al dual use come una scelta inevitabile e non più rinviabile, non da ultimo per “ottimizzare” le spese: viene in altre parole richiesto di accettare che la barriera tra militare e civile cada per evitare che nei prossimi anni la ricerca per la difesa e la sicurezza dreni tutte le poche risorse disponibili a scapito di una ricerca esclusivamente civile. Il documento si spinge a definire un approccio di “dual use by design”, ampliando così la nozione di dual use fino a farne un nuovo paradigma europeo nella definizione degli investimenti. Dual use by design significa, in breve, la fine del dual use come lo avevamo conosciuto e lo svuotamento della distinzione tra civile e militare nella ricerca: ogni ricerca dovrà essere disponibile per l’uso militare, o non sarà. Questa ridefinizione, che informerà i finanziamenti europei del prossimo decennio, porta con sé una generale ridefinizione degli strumenti di governo, finanziamento e messa a lavoro nella produzione di sapere, a partire da un più stretto controllo e indirizzamento politico-economico in nome della sicurezza e della competitività.

Sul piano degli obiettivi economici, nei finanziamenti R&I a contare non sarà tanto il carattere single o dual, quanto lo use stesso: non importerà cioè il campo di applicazione, ma l’applicabilità stessa della ricerca, di cui si occuperanno attori economici e di mercato o istituzioni politiche. In altre parole, la generalizzazione del dual use dovrebbe approfondire e consolidare il processo già in atto di integrazione tra ricerca e industria, con la collaborazione di università, amministrazioni pubbliche e imprese nel definire di volta in volta la chiave applicativa. Questo varrà sia nelle discipline STEM, più direttamente coinvolte in produzione e programmazione industriale, sia nelle scienze sociali, che dovranno diffondere competenze utili a definire le policies o a promuovere un’“evoluzione culturale” nella direzione di un’integrazione tra guerra e mercato.

Sul piano del controllo politico, l’estensione del dual use a tutta la ricerca dovrà invece affrontare problemi pratici posti dall’accessibilità delle conoscenze e dalla cooperazione internazionale. Per questo si suggeriscono strumenti per controllare l’export dei risultati delle ricerche, si invita a concepire secondo logiche geopolitiche la composizione delle equipe di ricerca internazionali, si propone di combinare l’autogoverno accademico con un’appropriata supervisione governativa e di affrontare istituzionalmente, tramite la creazione di commissioni di controllo, l’ostacolo rappresentato dai “problemi etici”. Sotto questa etichetta si nasconde l’evidente preoccupazione per l’ostacolo posto dal rifiuto di ricercatrici e ricercatori di collaborare a progetti con scopo militare, un problema che diventa sempre più visibile quanto più cresce la dimensione applicativa della ricerca.

Scienza e potere politico

L’epoca del dual use generalizzato si fa avanti non soltanto attraverso le complicità degli atenei con gli attori del genocidio e del riarmo, ma implica una riarticolazione del nesso tra scienza, potere politico e interessi economici. Questa tendenza, d’altra parte, è ravvisabile ovunque la guerra si stia legittimando come orizzonte ideologico e l’autoritarismo come pratica ordinaria di governo. Lo stesso Trump, mentre si vanta di aver posto fine alla guerra in Medio Oriente, porta avanti una “guerra interna” agli Stati Uniti di cui un tassello fondamentale è la ridefinizione del governo della ricerca e del sapere accompagnato da un sistematico attacco alle università. Al massiccio de-finanziamento e taglio di fondi pubblici, di cui hanno già pagato le conseguenze migliaia di ricercatori e ricercatrici, fa infatti da contraltare il tentativo di presidiare in maniera coattiva, attraverso l’erogazione di fondi e il controllo diretto dello Stato, i confini della ricerca. Dagli studi sul cambiamento climatico e i vaccini alla Critical Race Theory e gender studies, viene attaccato il sapere considerato “sovversivo” o ideologicamente radicale, legittimando allo stesso tempo il disinvestimento statale sulle politiche climatiche e sulla sanità pubblica e imponendo una forma autoritaria, razzista e patriarcale della riproduzione sociale.

Questa ambizione non è meno forte in Europa, dove chi lavora nella conoscenza sembra destinato a muoversi in un ambito fortemente normativo, sempre più burocratizzato e direzionato dall’alto. Le modalità di finanziamento della ricerca – private e competitive – promosse dall’ESIR sono infatti strumenti burocratici di indirizzo, direzione e comando sui contenuti della ricerca, peraltro approfonditi dalle proposte di riforma della governance degli atenei. Basti guardare all’ultima proposta avanzata dalla commissione per la riforma della governance universitaria in Italia, che recepisce quasi letteralmente le indicazioni europee: spingere le università ad adottare linee guida decise dal Mur in termini di valutazione e far sedere nei CdA di tutti gli atenei esponenti scelti dal ministero stesso, nonché rappresentanti delle istituzioni politiche nazionali e territoriali.

Questo dimostra che la guerra offre l’occasione per legittimare una scienza e una cultura arruolate sotto la bandiera del militarismo. Chiunque lavori nella scuola, nell’università e nella cultura in Italia sta già facendo le spese di scelte politiche che vanno in questa direzione. Si pensi ad esempio al nuovo disegno di legge sul “contrasto all’antisemitismo”, presentato dal senatore Gasparri, che introduce corsi sulla cultura ebraica e israeliana, obblighi di segnalazione e norme penali che equiparano l’antisionismo e le critiche allo Stato di Israele all’odio razziale. O al numero crescente di progetti promossi dal Ministero dell’Istruzione per portare le forze dell’ordine e l’esercito nelle scuole a far conoscere la loro storia e i loro mezzi di equipaggiamento, o ancora alle nuove indicazioni nazionali per la scuola del ministro Valditara, un documento che ridefinisce la formazione scolastica come pura trasmissione di nozioni, intrisa di classismo, sessismo e razzismo, o, infine, al nuovo codice etico per le scuole in via di definizione, inteso a promuovere “autorevolezza e sobrietà”, con la pretesa esplicita di escludere dalle aule le opinioni politiche di docenti, studenti e studentesse contrari a esse. Nello stesso quadro si inserisce anche il tentativo di piegare, attraverso tagli mirati, il mondo dello spettacolo a logiche di mercato o a beceri contenuti nazionalisti, identitari e guerrafondai.

Dentro lo sciopero

Lo scenario attuale è attraversato da processi specifici e generali, che non ammettono soluzioni generiche né forme di sottrazione individuale. Osservando insieme il quadro europeo e quello nazionale emerge con chiarezza un disegno per spingere chi lavora nella conoscenza verso un arruolamento nelle logiche della guerra e del militarismo. Accanto agli intrecci e alle complicità istituzionali, accanto al tentativo di usare la cultura e il sapere per rimettere in circolazione idee patriottiche, nazionaliste, patriarcali e razziste, si consolida un controllo politico sempre più stringente sulla ricerca in nome del dual use generalizzato. Un controllo che mira a superare gli ostacoli posti da un lavoro intellettuale refrattario a porsi al servizio della guerra, agendo con meccanismi più sottili e pervasivi della semplice censura o repressione. A questo si accompagna un peggioramento generale delle condizioni materiali di vita e di lavoro. Nei prossimi anni, ricercatrici e ricercatori si troveranno inseriti in un campo sempre più burocratizzato, non più finanziato e regolato direttamente dallo Stato eppure fortemente normativo, dove il comando è dato dalla direzione dei finanziamenti (pubblici e privati), dalla definizione di standard (performance, produttività rendicontazione, valutazione dell’impatto), da directories e obiettivi determinati dagli indirizzi politici dominanti. La ricerca sarà sempre più frammentata in progetti a termine, portata avanti con contratti precari, logiche competitive e un’iper-specializzazione delle mansioni che impediranno di valutare la destinazione effettiva – civile o militare – del proprio lavoro. Se per molti e molte mettere il proprio lavoro al servizio della guerra risulta problematico, la scarsità di fondi pubblici e la precarietà – non a caso intensificata dalla ministra Bernini – renderanno difficile sottrarsi.

Quello a cui assistiamo non è però lo snaturamento dell’università pubblica, al quale rispondere chiedendo soltanto più fondi pubblici o restaurando una presunta funzione sociale originaria tradita dell’università. Al contrario, si tratta del mutamento di forma di un ruolo che l’università ha sempre ricoperto: assicurare la riproduzione del nesso tra sapere, lavoro e mercato, che oggi si delinea sullo sfondo di un riarmo imminente e di un militarismo diffuso. Perciò, crediamo anche che i problemi di precari e precarie non possano essere risolti su un piano meramente contrattuale: siamo nel pieno di una ricostruzione e riorganizzazione capitalistica che sta reclutando sempre più direttamente la produzione e la trasmissione del sapere intorno alle parole d’ordine della sicurezza, della difesa, della competizione e del profitto. Questi sono i processi politici e sociali che oggi determinano la condizione di lavoro di decine di migliaia di persone in università e solo attaccandoli ci sembra possibile rilanciare un percorso di mobilitazione e allargamento altrimenti destinato alla debolezza.

Lo sciopero, cioè, può diventare anche per lavoratori e lavoratrici dell’università uno strumento e un’occasione per far risuonare il rifiuto collettivo del destino che la guerra sembra imporre, fatto di condizioni di vita e di lavoro inaccettabili. La precarietà, le espulsioni, il de-finanziamento degli atenei vanno inquadrati e attaccati all’interno dello scenario dell’Europa in guerra che li legittima e ne impone l’inevitabilità. Il processo sociale che si è aperto con gli scioperi contro la guerra e il genocidio non rappresenta per i precari e le precarie della ricerca un momento separabile dalla lotta per migliorare le proprie condizioni, ma un’opportunità per accelerare e connettere rivendicazioni e pretese altrimenti frammentate, isolate e condannate all’impotenza. Questo non significa che lo spostamento di fondi pubblici verso il settore militare, l’espulsione e la pressione sulla forza lavoro precaria in università siano problemi da mettere in secondo piano di fronte all’urgenza reclamata dalla guerra. Proprio l’intreccio strutturale di università, ricerca e guerra ci indica invece l’apertura di un terreno in cui le questioni sono politicamente inscindibili.

L’energia che si è accumulata in tanti dipartimenti degli atenei italiani tramite il coinvolgimento negli scioperi di strutturati, assegnisti, dottorandi, amministrativi, bibliotecari e studenti rischia già di disperdersi in parole d’ordine e pratiche che non parlano al di fuori dei gruppi organizzati o che rispondono a logiche corporative. La sfida adesso è aprire spazi di discussione, presa di parola e organizzazione attraverso cui valorizzare la forza sociale che si è espressa negli scioperi delle scorse settimane: intercettare chi vive, studia e lavora in un’università già trasformata dalla guerra, costruire percorsi di organizzazione negli atenei attraverso cui rifiutare, insieme alla guerra, anche il diktat della precarietà, dei tagli e di un lavoro accademico costretto nelle maglie del militarismo diffusoSolo all’interno di questo processo ci pare praticabile la sfida lanciata dallo sciopero, superando gli argini angusti di categorie e vertenze prive di una forza sociale capace di imporne l’urgenza.

(*) Link all’articolo originale: https://www.connessioniprecarie.org/2025/10/24/orizzonti-di-guerra-luniversita-e-la-ricerca-nellepoca-del-dual-use/

Redazione
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