articoli, interventi e appelli di Enrico Euli, Radio Onda d’Urto, Ultima Generazione, Emergency, Manuela Foschi, Anbamed, Velia Alvich ed Enrico Semprini.
Stronzi sul mare
di Enrico Euli

Intorno alla Flotilla si sta generando una forte mobilitazione.
C’era bisogno di un simbolo identificativo, per milioni di persone, stanche di brodini riscaldati e centro-sinistri appelli, e l’autunno caldo si è aperto.
Basta così poco e già i governi si agitano.
Ed ecco che subito intervengono a cercare di sminuire, sedare, manipolare quel che sta avvenendo, senza di loro e contro di loro.
L’intervento di Mattarella di questi giorni (a cui quasi tutti i partiti si sono accodati, rispettosamente, e con cui il Vaticano collabora attivamente) ne è l’emblema: si vuole ridurre la missione ad una consegna di pacchi, limitata a un compito specifico, annullandone così l’effetto relazionale ed il significato politico.
E’ del tutto evidente che la Flotilla usa l’aiuto umanitario come chiave strumentale per rompere l’assedio ed il silenzio su Gaza, e non viceversa.
Neutralizzare il senso profondo e radicale di quell’azione è il primo obiettivo di queste prese di posizione, ammantate di paternalismo e ovviamente preoccupate per un’azione democratica diretta, estremamente politica (e non semplicemente umanitaria), che salta la mediazione dei partiti e degli stati.
Il secondo loro obiettivo, ancora più becero e vile, è quello di evitarsi gli strascichi di un eventuale e probabile, ennesimo attacco di Israele verso persone inermi: solo che, in questo caso, non sarebbero dei palestinesi (che possono per noi ‘bianchi’ anche morire a migliaia e migliaia, come già sta accadendo da anni), ma dei cittadini europei, dei nostri ‘simili’, ed anche dei deputati e delle personalità note.
Se ci fosse un attacco, dei feriti o addirittura delle vittime sulle barche (e non sui barconi), i governi europei si troverebbero tra Scilla e Cariddi (la difesa dei propri cittadini e la difesa ad oltranza di Israele) e dovrebbero gestire una bella grana.
Anche loro si trasformerebbero in agenti dell’antisemitismo agli occhi di Netanyahu?
Oppure preferiranno proseguire ad avversare la Flotilla, qualunque cosa accada?
Si barcameneranno, forse, improvvisando lamenti e minacce, come sempre, pur di restare a galla.
Ma sul mare, quel che resta a galla, sono solo i relitti e gli stronzi.
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Napoli: protesta all’aeroporto contro l’arrivo di soldati e turisti israeliani, “Zionist not welcome”
27|9 Onda d’Urto
Azione all’aeroporto internazionale di Napoli-Capodichino per denunciare l’arrivo di un nuovo volo israeliano.“Zionists not welcome” recita uno striscione piazzato proprio all’uscita dello scalo partenopeo. “Negli ultimi due anni – si legge nel comunicato diffuso – centinaia di soldati dell’Idf sono atterrati nei nostri aeroporti e arrivati in Italia per fare le loro vacanze. Oggi siamo qui per dirgli che chi commette genocidi non è il benvenuto. Negli ultimi due anni centinaia di soldati dell’IDF (esercito israeliano) sono atterrati nei nostri aeroporti e arrivati in Italia per fare le loro “vacanze”.
Nei prossimi giorni seguiremo tutti insieme il percorso delle navi della global sumud flotilla, minacciate di essere bloccate violentemente dalla marina militare israeliana entro le prossime 48 ore in acque internazionali. Siamo pronti a mobilitarci per bloccare tutto, di nuovo, a sostegno dell’equipaggio e a sostegno della popolazione palestinese, per denunciare il criminale assedio e blocco navale che Israele esercita, in maniera completamente illegittima e violando qualsiasi norma internazionale, da quasi vent’anni. Invitiamo tutte e tutti a unirsi a noi, a non restare indifferenti, a organizzare la partecipazione al corteo corteo nazionale del prossimo 4 ottobre a Roma.
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ROMA (ITALPRESS) – Alcuni attivisti di Ultima Generazione, tre dei quali al settimo giorno di sciopero della fame, stamane (venerdì mattina per chi legge, NDR), si sono recati di fronte alla Camera dei Deputati “per chiedere al governo Meloni di riconoscere il genocidio in corso a Gaza e di garantire protezione e sicurezza per le persone salpate con le Flotille”. Hanno esposto dei cartelli con scritto “settimo giorno di sciopero della fame”, la bandiera palestinese e lo striscione con scritto “Ultima Generazione”. Ma sono stati subito bloccati dalle forze dell’ordine.
“Siamo qui, al settimo giorno di sciopero della fame – spiega una delle attiviste –, qui a piazza di Montecitorio le transenne stanno diventando sempre più numerose, stanno chiudendo sempre più parti della piazza, i turisti sono passati, quindi si impedisce solo l’accesso a persone che manifestano pacificamente. Sono sette giorni che non mangiamo, mercoledì notte è stata attaccata la Flotilla, la situazione sta diventando sempre più grave, ci sono sempre più persone che vengono trucidate in Palestina, e noi vogliamo che sia posto un termine a tutto questo. Noi vogliamo che l’Italia interrompa la complicità che ha con il governo israeliano, perché siamo il terzo Paese che vende e compra armi da Israele”.
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ULTIMA GENERAZIONE: FLOTILLA ATTACCATA.
ECCO COME IL GOVERNO “PROTEGGE” I SUOI CITTADINI
È proprio prevedendo questo attacco che siamo al quinto giorno della fame, per chiedere protezione per gli italiani a bordo e riconoscimento dello genocidio da parte del Governo Meloni
Roma, 24 settembre 2025 – Alle 00:50 di questa notte è arrivata la telefonata dal giornalista e skipper di Ultima Generazione, Stefano Bertoldi, che ha denunciato l’attacco subito dalla barca su cui si trova insieme all’equipaggio.
Dal telefono Bertoldi ha riferito (qui il vocale): “I droni che ci seguono da giorni hanno fatto scoppiare un oggetto esplosivo, hanno fatto cadere il fiocco della barca, siamo a rischio della caduta dell’albero. Ho lanciato il Mayday sul canale 16 due volte. Qui si tratta di salvare vite.”
La barca ha subito danni gravi, ma l’equipaggio è salvo per miracolo e al momento di scrittura la navigazione è ancora possibile.
È in questo contesto che Beatrice, Alina e Serena sono oggi al quinto giorno di sciopero della fame davanti a Montecitorio e continuano a essere denunciate semplicemente per richiamare la complicità e il silenzio del Governo Meloni, che non solo si rifiuta di riconoscere il genocidio in corso a Gaza, ma non ha nemmeno preso le minime misure di protezione per i cittadini italiani impegnati in missioni civili e nonviolente a bordo delle Flotille. Paradossalmente, le forze dell’ordine si occupano di loro, mentre ignorano le persone realmente sotto attacco e le situazioni di pericolo che invece dovrebbero essere la loro priorità.
Le richieste dello sciopero della fame sono chiara e urgente:
- Riconoscere il genocidio in corso a Gaza e agire di conseguenza.
- Garantire protezione e sicurezza per gli italiani e per tutti i civili a bordo delle Flotille.
Il Governo Meloni porta una responsabilità diretta: l’inerzia e l’indifferenza istituzionale espongono cittadini italiani al rischio concreto di morire sotto attacchi armati. Questo è inaccettabile e vergognoso. Condanniamo con la massima fermezza l’attacco contro civili impegnati in operazioni umanitarie e denunciamo il silenzio del Governo, chiedendo l’intervento immediato delle autorità italiane, della comunità internazionale e delle istituzioni marittime per provvedere alla giusta protezione di vite umane prima che sia troppo tardi.
IL GOVERNO MELONI DEVE RICONOSCERE IL GENOCIDIO
Il genocidio in corso a Gaza è già stato riconosciuto da diversi organismi internazionali: la Commissione indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite ha pubblicato un’analisi legale di 72 pagine che definisce inequivocabilmente genocidaria la guerra condotta da Israele. Eppure il governo Meloni non ha ancora compiuto un atto formale di riconoscimento. Non è solo una mancanza di coraggio politico: è una scelta che implica complicità diretta. Perché è importante chiamarlo genocidio? Usare la parola genocidio non è retorica. È una categoria giuridica precisa che ha conseguenze enormi:
- Sul piano internazionale, la Convenzione ONU sul genocidio obbliga tutti gli Stati firmatari a prevenire il genocidio e a non esserne complici. La Corte Internazionale di Giustizia ha già riconosciuto un “rischio plausibile” di genocidio a Gaza, imponendo quindi obblighi anche all’Italia.
- Sul piano nazionale, la Legge italiana n. 962 del 1967 (“Punizione del crimine di genocidio”) recepisce questi principi nel nostro ordinamento: anche la complicità in genocidio è punita dal nostro codice penale.
LE ULTIME CONFERME DI COMPLICITÀ DI QUESTO GOVERNO
Il governo italiano non è un osservatore neutrale. La Camera ha appena rinnovato il memorandum di cooperazione militare con Israele, mentre i deputati di Fratelli d’Italia si sono astenuti e la Lega ha votato contro persino una risoluzione europea – già timidissima – di condanna. Arianna Meloni ha persino accusato la Flotilla di “strumentalizzare” il dolore di Gaza. In tutto questo, non riconoscere formalmente il genocidio equivale a mantenere e consolidare la complicità italiana: politica, economica e militare.
La Flotilla esiste proprio perché i nostri governi sono marci. Alina, Beatrice e Serena, con i loro corpi e il loro sacrificio, sono lì a ricordarcelo e non si fermeranno fino a quando il governo italiano non avrà riconosciuto il genocidio in Palestina, agendo di conseguenza, e fino a quando le persone italiane presenti sulle imbarcazioni non saranno tornate sane e salve. Ultima Generazione sosterrà tutte le persone che sceglieranno lo sciopero della fame come forma di resistenza nonviolenta e di pressione sul governo italiano.
BASTA SEPARARE IL BUSINESS DALLA POLITICA: BOICOTTIAMO
Siamo già 55.000 ad aver scelto questa forma di resistenza attiva, unendoci in una mobilitazione che va oltre gli aiuti umanitari – pur necessari – e mira a compiere un atto politico concreto contro il genocidio in corso. Il boicottaggio colpisce direttamente le aziende italiane che continuano a esportare in Israele, scegliendo il profitto invece di assumersi la responsabilità di non essere complici. Continuare a commerciare significa sostenere, anche indirettamente, un sistema di violenza e oppressione: ecco perché la complicità economica non può più essere tollerata.
L’obiettivo è duplice: incidere sugli interessi economici che alimentano l’occupazione e tentare di forzare il blocco navale imposto da Israele – dove a bordo delle barche ci sono anche persone di Ultima Generazione. Gli Stati europei restano legati a interessi militari ed energetici e non intervengono: spetta a noi cittadini agire, anche da casa propria, attraverso il boicottaggio. Come ricorda Francesca Albanese in Quando il mondo dorme: “Il sistema che reprime i Palestinesi è lo stesso a cui apparteniamo noi.” Questo passa attraverso i supermercati, che vendono prodotti coltivati su terre sottratte ai palestinesi, mentre in Italia comprimono i piccoli agricoltori, trasformando la spesa quotidiana in un lusso.
Siamo già in 55.000. Unisciti anche tu: https://vai.ug/boicottaggio?f=cs
Cartella stampa dello sciopero della fame qui
Cartella stampa su tutte le azioni organizzate da dicembre 2021 qui
I NOSTRI CANALI
Aggiornamenti in tempo reale saranno disponibili sui nostri social e nel sito web:
Ultima Generazione è una coalizione di cittadini ed è membro del network A22.
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La Life Support, la nostra nave di ricerca e soccorso, sta navigando insieme alla Global Sumud Flotilla.
Con il ruolo di nave osservatrice, la Life Support garantisce supporto medico e logistico alle imbarcazioni partecipanti.
In questi giorni abbiamo condiviso quello che il nostro staff sta vedendo durante la navigazione.
Nella notte tra il 23 e il 24 settembre siamo stati testimoni degli attacchi con droni subiti da diverse barche della Flotilla, in acque internazionali.
Il giorno dopo, mercoledì 24, abbiamo visto un aereo di grandi dimensioni sorvolare la Flotilla e la Life Support. “Abbiamo subito preso il binocolo e le macchine fotografiche, così abbiamo visto il numero identificativo dell’aereo, quindi abbiamo fatto una ricerca sul modello dell’aereo, da numero e simboli scritti sulla coda sembra che sia un aereo militare israeliano” racconta Anabel Montes Mier, Capo missione della Life Support.
La Global Sumud Flotilla è una missione umanitaria promossa dalla società civile internazionale per portare aiuti a Gaza e aprire un corridoio umanitario: un’azione che deve essere protetta.
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Ma abbiamo capito la portata del rapporto della
Relatrice Speciale ONU per i diritti umani sui territori occupati da Israele?
di Enrico Semprini
I nostri nemici a quanto pare sì, forse noi meno.
Temo sia in corso una sottovalutazione della portata storica, politica, legale del rapporto stilato dalla dott.ssa Albanese.
In apparenza sembra che tuttu si siano soffermatu sulla parte di denuncia del rapporto, pensando, come spesso accade, che la parte di “Allegato” sia secondaria rispetto al lavoro di analisi che la precede.
E’ evidente che coloro che vogliono perpetrare il genocidio, invece, hanno perfettamente capito che esiste un “prima” ed un “dopo” il rapporto.
Perché la potenza di questo rapporto è di essere rivolto a tutte le persone “che contano”, tutte le persone la cui azione è in grado di incidere sulle dinamiche sociali ed economiche.
L’esplicito richiamo alle conseguenze
“dell’eredità dei processi agli industriali di Norimberga, la responsabilità delle imprese per i crimini internazionali si fonda sul riconoscimento del ruolo centrale che l’economia svolge in tempo di guerra e di conflitto”
non parla solamente alle migliori menti di cultura ebraica che sono state investite dalla più che certa presa di coscienza che avallare il genocidio in corso significa distruggere l’eredità giuridica derivante dagli effetti della Shoa, patrimonio attualmente vigente e riconosciuto a protezione mondiale, tra le altre, anche della loro base culturale nonché umana;
parla anche alle menti dei più spregiudicati imprenditoru, che sanno molto bene che il vento può cambiare e che il guadagno di oggi può rivelarsi un disastro legale, cioè economico-finanziario, in un futuro non necessariamente lontano.
Almeno una parte della imprenditoria internazionale sa bene che un quadro giuridico internazionale è necessario per fare buoni affari e dunque non possono essere interessati alla distruzione di ogni schema giuridico cui fare riferimento. L’evoluzione del diritto internazionale c’è stata non solamente grazie alla spinta emancipatrice dei paesi che si dovevano liberare dal colonialismo, ma anche sulla base delle convenienze di settori non secondari dell’economia capitalista.
Dunque l’attacco di Stati Uniti ed Israele al giudice Khan, poi alla relatrice ed ora alla intera Corte Internazionale di Giustizia (e poi alla ONU), non è semplicemente un modo per fare fuori dei fastidiosi e tutto sommato poco potenti singoli soggetti: è una necessità volta a serrare le fila, una rassicurazione ai loro sodali, che si stanno facendo delle domande. E’ ovvio che anche tra coloro che maneggiano denaro, la percezione dei piedi d’argilla di questi giganti della guerra, è palpabile: e qualcuno ha cominciato a chiedersi se sono questi coloro con i quali vogliono legare il proprio destino.
Il fatto che sul Guardian, giornale inglese, il 25 settembre venga diffusa la notizia che Microsoft ha interrotto un contratto con l’esercito israeliano che dava accesso ai servizi in cloud di Azure, deve farci riflettere. Questa tecnologia veniva utilizzata per registrare e salvare le conversazioni telefoniche di milioni di palestinesi in Cisgiordania e a Gaza e sui dati così conservati, anche in Europa, l’Unità 8200 — l’agenzia di spionaggio in seno all’esercito di Tel Aviv — metteva in pratica strategie di sorveglianza di massa che sono state sfruttate anche per organizzare attacchi aerei sulla Striscia.
Solo gli ingenui possono pensare che la motivazione di facciata messa in piedi dalla stessa Microsoft, possa avere qualche credibilità: Brad Smith, presidente di Microsoft, ha dichiarato che la compagnia ha «interrotto e disabilitato una serie di servizi ad un’unità che fa parte del ministero della Difesa israeliano». Aggiungendo: «Non forniamo tecnologie che facilitino la sorveglianza di massa dei civili. Abbiamo applicato questo principio in tutti i Paesi del mondo e lo abbiamo ribadito con insistenza per oltre vent’anni»
La dichiarazione è veramente ridicola, se pensiamo al fatto che questo grande attore del capitalismo moderno sta sviluppando il suo business futuro proprio sul controllo dei nostri comportamenti raccolti senza il nostro assenso.
Il problema di Microsoft è un altro: la visione di questi giganti supera le barriere delle singole nazioni ed il loro potere non coincide con quello di singole entità statali, neppure se potenti come gli Stati Uniti. Al di là della tracotanza dell’attuale presidente statunitense e delle sue frasi da guitto del varietà, in Microsoft conoscono perfettamente la debolezza della struttura economica di quel paese e loro non sono interessati in particolare al mercato di quei 341,2 milioni di esseri umani, ma si rivolgono alla platea potenziale degli 8,2 miliardi di persone che popolano la terra.
Non è contraddittorio pensare che in Microsoft ci siano persone che valutano l’impatto potenziale a medio termine delle valutazioni giuridiche della dott.ssa Albanese. E che abbiano valutato conveniente rescindere un contratto di questo tipo. E’ un poco più plausibile.
Può questo fatto far pensare che la “nuova sensibilità” che in tante parti si comincia a respirare anche da parte di politici ed imprenditori sia determinata anche da considerazioni di convenienza personale?
Non c’erano forse anche prima che lo ribadisse la dott.ssa Albanese questi rischi? Certamente: il problema è che adesso anche la flebile difesa consistente nel dichiararsi all’oscuro della legislazione internazionale in merito ai contratti, non è più utilizzabile. E in aggiunta: è diventata una ingiunzione fatta con tutta l’autorevolezza di un organismo dell’ONU per tutte le figure istituzionali responsabili del rispetto delle leggi internazionali. Da possibilità adesso diventa un imperativo necessario.
E’ una ipotesi: fatto sta che il governo italiano ha subìto denuncia per corresponsabilità in genocidio.
<<Il dirigente dell’Istituto di studi giuridici internazionale del Cnr Fabio Marcelli denuncia il governo e le imprese italiane per il «genocidio» a Gaza. E lo fa davanti alla Corte Penale Internazionale. Lo ha annunciato con un post su un blog del Fatto Quotidiano ripreso oggi (16 settembre) da Il Giornale.>> si può leggere anche su Open.online .
In altri termini: la relazione della dottoressa Albanese si sta trasformando da atto di denuncia politico sociale, in percorso di attività giuridica sostanziale.
Il “dopo rapporto Albanese” è una nuova frontiera dello scontro inter-istituzionale che mette in gioco attori imprevedibili.
Con tutto questo non si vuole in nessun modo sminuire la portata e l’apporto fondamentale ed insostituibile della lotta di classe che stanno portando avanti i movimenti: la stessa scelta di Microsoft è stata anche il prodotto di un buon giornalismo di inchiesta realizzato dal Guardian, che il 6 agosto aveva pubblicato un’inchiesta sull’uso improprio della tecnologia di Microsoft. Grazie a quella inchiesta la forza dei lavoratori si è manifestata attraverso un’ondata di proteste organizzate dai dipendenti — uniti in un gruppo chiamato «No Azure for Apartheid» — che si era conclusa con un’ondata di licenziamenti e con 18 arresti ma aveva costretto l‘azienda ad assicurare che sarebbe stata avviata un’indagine per accertare la presenza o meno di comportamenti non in linea con gli standard.
Da un altro lato non si può ignorare che i politici di ogni ordine e grado stanno iniziando ad interrogarsi e domandarsi fino a che punto possono distaccarsi da movimenti come quello di cui noi, tanti, siamo protagonisti in questo momento.
Si tratta sempre di capire che le possibilità di ribaltamento delle carte che possono cominciare ad essere giocate per la salvezza dell’intero popolo palestinese, dipendono da una serie di attori sociali che agendo in modo convergente pur su piani completamente differenti, possono porsi nelle condizioni di scardinare un sistema che si rappresenta come invincibile, ma che invincibile non è.
Dunque questo articolo non è per delegare alle “alte sfere” la soluzione dei problemi, ma volto a comprendere quale sia l’apporto reale che il rapporto della Relatrice Speciale ONU per i diritti umani sui territori occupati da Israele è in grado di svolgere.
Il nostro ruolo è differente e, in fin dei conti, l’unico potenzialmente in grado di poter andare alla radice dei problemi.
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Visto che si è parlato di buon giornalismo, citiamo il prezioso lavoro del DIG Festival che si sta concludendo proprio oggi a Modena portando alla attenzione l’importante lavoro che può svolgere il giornalismo investigativo.

Microsoft chiude il contratto con Israele per l’uso di Azure: era impiegato per registrare in massa le chiamate da Gaza
di Velia Alvich
https://www.theguardian.com/world/2025/sep/25/microsoft-blocks-israels-use-of-its-technology-in-mass-surveillance-of-palestinians
https://www.corriere.it/tecnologia/25_settembre_25/microsoft-chiude-il-contratto-con-israele-per-l-uso-di-azure-era-impiegato-per-registrare-in-massa-le-chiamate-da-gaza-895fb754-4e06-4be4-9a9f-5b9c6e732xlk.shtml
La mail del presidente dell’azienda ottenuta in esclusiva dal Guardian: «Non forniamo tecnologie che facilitino la sorveglianza di massa dei civili». Oltre 8 mila terabyte di dati erano conservati in data center europei
Ad agosto le proteste dei dipendenti avevano causato un terremoto nel campus di Redmond. Oggi si è arrivati a una conclusione della vicenda. Microsoft ha interrotto un contratto con l’esercito israeliano che dava accesso ai servizi in cloud di Azure perché in violazione con i termini di servizio. La piattaforma, infatti, veniva utilizzata per registrare e salvare le conversazioni telefoniche di milioni di palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. Sui dati così conservati l’Unità 8200 — l’agenzia di spionaggio in seno all’esercito di Tel Aviv — metteva in pratiche strategie di sorveglianza di massa che sono state sfruttate anche per organizzare attacchi aerei sulla Striscia.
La fine del rapporto fra l’azienda americana e l’Idf — cominciato nel 2021 a seguito di un incontro fra il ceo Satya Nadella e l’allora comandante dell’unità, Yossi Sa — è stata raccontata in esclusiva dal Guardian, che il 6 agosto aveva pubblicato un’inchiesta sull’uso improprio della tecnologia di Microsoft. Il report aveva scatenato un’ondata di proteste organizzate dai dipendenti — uniti in un gruppo chiamato «No Azure for Apartheid» — che si era conclusa con un’ondata di licenziamenti e con 18 arresti. L’azienda aveva assicurato, tuttavia, che sarebbe stata avviata un’indagine per accertare la presenza o meno di comportamenti non in linea con gli standard.
In un’email scritta da Brad Smith, presidente di Microsoft, e ottenuta dal quotidiano britannico, si legge che la compagnia ha «interrotto e disabilitato una serie di servizi ad un’unità che fa parte del minstero della Difesa israeliano». Aggiungendo: «Non forniamo tecnologie che facilitino la sorveglianza di massa dei civili. Abbiamo applicato questo principio in tutti i Paesi del mondo e lo abbiamo ribadito con insistenza per oltre vent’anni» e che, proprio per questa violazione dei termini di servizio, è stato disattivato l’accesso ad alcuni servizi.
Grazie ad Azure, l’Unità 8200 è stata in grado di raccogliere e conservare un’enorme quantità di dati. Secondo quanto riferisce il Guardian — che ha condotto l’inchiesta insieme al sito indipendente di giornalisti israeliani e palestinesi +972 Magazine e al sito Local Call — i militari israeliani si vantavano di poter registrare «un milione di chiamate all’ora». Con queste operazioni di sorveglianza di massa — inizialmente partite in Cisgiordania e poi estese anche a Gaza — l’unità di spionaggio è riuscita a collezionare oltre ottomila terabyte di telefonate. Su questa grande mole di dati — inizialmente conservati in un data center nei Paesi Bassi e poi spostati fuori dai confini europei quando è stata pubblicata l’inchiesta — veniva infine usati sistemi di analisi con l’AI per organizzare attacchi a Gaza.
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DALLA DISTRIBUZIONE DI INFORMAZIONI VIA POSTA ELETTRONICA DI RADIO ONDA D’URTO
FLOTILL(E) – Inusuale appello oggi, 26 ottobre, del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ‘alle donne e agli uomini’ della Global Sumud Flottila affinché ‘raccolgano la disponibilità offerta dal Patriarcato Latino di Gerusalemme di svolgere il compito di consegnare in sicurezza’ gli aiuti a Gaza senza ‘porre a rischio l’incolumità’ delle persone’. Replica della Global Sumud Flotilla: ‘E’ vero che portiamo aiuti a Gaza ma non è l’obiettivo principale. Il nostro è un atto politico, vogliamo creare un corridoio umanitario stabile, rompere il blocco navale degli israeliani e vogliamo che questo genocidio cessi il prima possibile”. ‘Siamo pronti a valutare mediazioni, ma non cambiando rotta’ aggiunge la portavoce italiana, Maria Elena Delia, che sta rientrando in Italia “per – dice –aprire veri canali di dialogo con le istituzioni”.
Per ora quindi la navigazione della quarantina di navi della Global Sumud Flotilla prosegue, anche se le imbarcazioni sono a sud-est di Creta, per riparare i danni dell’attacco israeliano ed evitare di finire in mezzo a una tormenta annunciata in mare. Alle loro spalle, altre 12 imbarcazioni, da Salento e Sicilia: sono quelle lanciate da Freedom Flotilla e 1000 Madleen, sempre per rompere il blocco di Israele.
Contro le Flotille, Israele minaccia, già dalle prossime ore, nuove azioni violente. Su questo, oggi la Cgil ribadisce di essere “pronta alla sciopero generale in caso di nuovi attacchi”. Usb invece oggi, da piazza dei Cinquecento a Roma, fa partire la mobilitazione permanente “100 Piazze per Gaza” che andrà avanti fino alla manifestazione nazionale per la Palestina indetta dalle realtà della comunità palestinese in Italia sabato 4 ottobre a Roma; un corteo che sarà anticipato da un altro sciopero generale, venerdì, questa volta – per ora – dei Si Cobas.

FRANCESCA ALBANESE A RAVENNA: BLOCCO DEI CARICHI D’ARMI E COMMERCIALI VERSO ISRAELE, FACENDO RETE NEI PORTI
di Manuela Foschi
“Quello che succede nel porto di Ravenna è gravissimo”. Lo ha ripetuto Francesca Albanese, Relatrice speciale Onu per i diritti umani sui territori occupati da Israele, che è stata sanzionata pesantemente dall’amministrazione Trump per aver fatto i nomi delle multinazionali coinvolte nel genocidio di Israele nel suo rapporto “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”. Invitata il 26 settembre a Ravenna per un convegno organizzato da tante associazioni delle società civile, Francesca Albanese ha voluto prima di tutto raggiungere il Terminal Container del Porto di Ravenna (in via Classicana) dove sono passati i container che trasportano armi per Israele, per incontrare l’appena nato Cap, il Comitato autonomo portuale di Ravenna con il quale ha parlato per circa un’ora.
“Sono qui innanzitutto per ascoltarvi e capire il vostro punto di vista, ho capito qual è la situazione. Quello che succede nel porto di Ravenna è gravissimo e si sapeva: ancor più mi preoccupa quello che non si sa e se nelle istituzioni si sono convinti che le cose vanno cambiate. Non è il primo genocidio che succede sotto i nostri occhi, ma è il primo che possiamo fermare e di cui abbiamo consapevolezza. Io vi ringrazio tutte e tutti dei sacrifici che fate e dei rischi che prendete, lo so che è dura. La cosa più importante è fare rete. Perché se Trieste blocca i carichi e poi sono accettati a Ravenna, o quest’ultima rifiuta e poi li accetta Ancona non ha senso. Il traffico di armi con Israele ci rende tutte e tutti complici, quindi va fermato. Ho chiesto un incontro con il presidente dell’Autorità portuale ma non ho ricevuto risposta, mi incontrerò invece con il sindaco per esporre i miei dubbi e le mie preoccupazioni, perché devono capire che che esiste anche la responsabilità penale personale.”
Il 18 settembre grazie al Cap, che ha avvisato il sindaco e che a sua volta ha convinto Sapir (la Spa che gestisce il Terminale portuale di cui il Comune è azionista) sono stati bloccati due camion con container di munizioni da imbarcare. Ma i portuali dicono che quei container sono stati ritrovati vuoti a Praga, e il contenuto potrebbe già essere in Israele.
Axel del Cap ringrazia Albanese e dice: “C’è ancora tanto da fare e noi vorremmo aiutare i lavoratori ed essere al servizio di sindacati e istituzioni per far si ché Ravenna non prenda parte a questo massacro-genocidio. Il lavoro che abbiamo fatto è stato mettere insieme sindacato, lavoratori e istituzioni e ciò ci ha permesso di essere schierati dalla stessa parte.”
Francesca Albanese rassicura i giovani portuali dicendogli che le leggi ci sono, il quadro normativo è perfetto ma va applicato: “Ci sono i Giuristi e Avvocati per la Palestina, che ad oggi sono più di 80, e spiegano le violazioni giuridiche e offrono servizi alle istituzioni locali. Le risorse ci sono ma bisogna farle funzionare. Nel vostro caso la legge 185 del 1990 è violata se si garantisce il transito di armamenti, e c’è anche una violazione dell’accordo internazionale sulla circolazione di armi. Dal punto di vista legale è un caso già vinto ed è per questo che le autorità pubbliche non possono dire non sappiamo, abbiamo dubbi, non ci compete. Ti compete se sei un’autorità pubblica e anche se sei un’autorità privata. E’ importantissimo che la cittadinanza comprenda e vi sostenga e si schieri”. Axel del Cap: “C’è stata molta solidarietà sui social e alle manifestazioni e ci teniamo a rappresentare quei lavoratori che ci hanno informato e non si possono esporre. Loro sono i veri eroi”.
Albanese è venuta a conoscenza che quel giorno stava arrivando un carico commerciale da Haifa, così ha chiesto ai lavoratori portuali come intendevano gestire la situazione e ha chiarito il perché non va fatta differenza tra armi e altre merci: “Non deve essere un problema il traffico commerciale in entrata. Mi sembra di capire si tratti di farmaci e prodotti ortofrutticoli, ebbene l’industria israeliana si basa sullo sfruttamento delle risorse palestinesi, terra, acqua, gas e minerali ed è così dall’inizio dell’occupazione dei territori palestinesi. Non c’è distinzione tra colonie e Israele. Siamo di fronte ad uno Stato che commette crimini di guerra contro l’umanità e genocidio, documentati dai più alti organismi di giustizia internazionali. Crimini di guerra sono l’istituzione delle colonie, gli sfollamenti forzati, la tortura usata in modo sistematico e diffuso. Non si commercia con Israele. Questa cosa dobbiamo capirla. La Palestina non è in guerra ma è un popolo che resiste da decenni all’occupazione permanente, all’apartheid. La Corte di Giustizia Internazionale aveva dato un anno ad Israele per ritirarsi dai territori occupati. Questo termine scaduto il 18 di settembre non è stato rispettato e la Corte ha ordinato di interrompere ogni rapporto commerciale con Israele. E’ sbagliato non prendere posizione sulle merci commerciali. Se le democrazie bianche occidentali sostennero l’apartheid in Sudafrica abbiamo ora la possibilità di non comportarci allo stesso modo con i Palestinesi contro i quali c’è anche un razzismo di fondo che rende le loro morti invisibili. E’ terribile quello che sta succedendo a questo popolo.”
Come possiamo fare? Le chiedono i portuali. E lei risponde: “La bacchetta magica non ce l’ho, ma ho deciso di impegnarmi perché mi rattrista moltissimo che dal punto di vista istituzionale in Italia si sia raggiunto un punto così basso. Il fatto che si usi il podio delle Nazioni Unite per offendere la Global Sumud Flotilla invece di difendere i diritti umani è gravissimo. La tragedia palestinese sta portando alla luce quello di cui facciamo parte. Siamo davvero democrazie liberali che garantiscono i princìpi fondamentali? Il mio ultimo rapporto alle nazioni Unite ha dimostrato è che ci sono maglie economiche e finanziarie più importanti purtroppo dei diritti dei palestinesi e dei diritti di tutti voi. Il lavoratore che protesta può perdere il lavoro è vero ma nessuno deve pagare in prima persona e questo si può ottenere solo con la solidarietà, come fanno i palestinesi che si aiutano gli uni con gli altri. Questa è la vera umanità e si vede molto di più dove il capitalismo non ha attecchito. Questa è la grande lezione di oggi, bisogna ripensare ad una società che abbia meno privilegi per pochi e più diritti per tutti. Nessun lavoratore, studente o persona che protesta dovrebbe perdere lavoro o diritti per essere stato dalla parte giusta.”
Inoltre il porto di Ravenna ha un altro grosso problema riprende Albanese: “E’ coinvolto nel progetto Undersec del programma europeo Horizon che trasferisce fondi europei ad Israele sostenendo progetti di ricerca in apparenza neutrali ma che invece non lo sono. L’impegno di oggi è vedere quali altri porti abbiano accordi in questo senso. E’ importante chiedere aiuto ai presidenti delle Regioni e coinvolgerli.”
Il porto ravennate collabora direttamente con l’Università di Tel Aviv, il Ministero della Difesa d’Israele e la Raphael che produce armi: “Si sa pochissimo di quello che viene fatto ai palestinesi. Anche in questo momento sono uccisi con armi non convenzionali adattate da ingegneri. C’è gente che studia come diventare fornitrice dei servizi per l’industria del genocidio. Ce lo dicono direttamente gli accademici israeliani che le università sono i primi poli di concezione dell’armamentario narrativo e operativo della loro apartheid. L’impunità e l’illegalità di Israele ha raggiunto un punto di non ritorno e la chiusura nei suoi confronti deve essere totale.”
Le associazioni che con la giornalista Linda Maggiori hanno organizzato il convegno con Francesca Albanese al Manualetto presso la Darsena (sala piena con 500 persone e fuori molta gente che sperava di entrare) chiedono: divulgare le informazioni sul traffico di armi: lo stop di ogni container diretto ad Haifa; annullare tutte le rotte almeno fino a quando non cesserà il genocidio.
Il porto di Ravenna in questi anni ha firmato importanti contratti commerciali con la compagnia navale israeliana Zim e la compagnia MSC che fanno settimanalmente rotta verso Israele. Ieri attraccata al porto ravennate c’era proprio una nave MSC. Forse nei prossimi giorni si sapranno che carichi sono stati imbarcati.

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PROBLEMI DIFFICILI?
UNA RIFLESSIONE SUL 7 OTTOBRE E SULLA PROPOSTA DI MELONI PER IL RICONOSCIMENTO CONDIZIONATO DI UNO STATO PALESTINESE.
di Enrico Semprini
Potrà sembrare strano ritenere che sia opportuno discutere in questo momento di quanto è accaduto il 7 ottobre in territorio palestinese, ma la situazione che sta precipitando e tutto ciò che si sta muovendo attorno alla situazione genocidaria in atto, ritengo lo necessiti.
In questo periodo il fronte solidale con il popolo palestinese si sta ampliando ogni giorno che passa e molti di coloro che si battono per la libertà del popolo palestinese da tempi non sospetti, guardano con disprezzo a coloro che stanno montando sul carro per pura opportunità politica.
Dire con chiarezza che ci sono forze politiche che si ergono a paladine di questo grande dispiegamento di energia umana e politica solamente perché la dimensione lo rende utile alle loro compagini, non significa non riconoscere dialetticamente che anche le prese di posizione degli opportunisti sono utili per le necessità impellenti di coloro che sopravvivono ancora nell’inferno di Gaza e della Cisgiordania occupate.
E allora cerchiamo di andare in profondità nelle mille contraddizioni che caratterizzano questo movimento.
Partiamo dalla divaricazione più profonda, tra coloro che dichiarano la ribellione del 7 ottobre come il più grande atto di resistenza del popolo palestinese e coloro che condannano i fatti del 7 ottobre ma si dichiarano contrari al genocidio in atto.
1) IL PROBLEMA DI HAMAS.
Disconoscere Hamas come organizzazione politica, è un modo per non poterne parlare, una specie di tabù comunicativo che caratterizza tutti i movimenti.
Chi ne parla semplicemente lo fa accodandosi alla definizione “gruppo terrorista” e risolve così la questione.
In questo modo si esorcizza il problema e cessa ogni valutazione di carattere critico di questa struttura politica.
Partiamo con una prima questione relativa al 7 ottobre: l’atto di ribellione o resistenza che si è verificato è caratterizzato dalla consapevolezza dell’ottica sacrificale complessiva dell’operazione stessa.
Anche supponendo che per riuscire a requisire 247 ostaggi sia tornato indietro un numero di miliziani non inferiore, calcolo per ipotesi, se analizziamo il numero di vittime israeliane valutate in circa 1.200, risulta che sul fronte palestinese i caduti siano stati oltre 1.600 con almeno altre 200 persone catturate.
In questi mesi sono state fatte diverse volte della analogie tra la resistenza italiana contro l’occupazione nazista e quella palestinese contro l’occupazione israeliana.
In questo scritto si vogliono sottolineare invece le differenze tra le due condizioni.
In Italia la necessità era quella di ricostruire una legittimità politica per la costruzione di una struttura in grado di diventare l’ossatura di quella rappresentanza, che diventerà anche istituzionale, che strutturò la nascita dell’Italia repubblicana post-fascista.
In Palestina il quadro politico in cui si sviluppa la ribellione del 7 ottobre è quello di una occupazione progressiva del territorio, di un isolamento internazionale sempre più grave anche grazie alla progressione degli accordi di Abramo del 2020, promossi da Donald Trump nel suo primo mandato. Consideriamo che, nella sostanza, prevedevano la cancellazione di ogni prospettiva di indipendenza palestinese, anzi la pratica derubricazione della irrisolta questione palestinese da tutte le agende politiche. Era una soluzione negoziale che riguardava tutto il medio oriente ed in particolare tutti i paesi vicini e, potenzialmente, solidali.
Si può leggere in internet:
<<… presupposto degli Accordi … era che gli affari avrebbero soppiantato le rivendicazioni storiche dei palestinesi che, a parte qualche vaga rassicurazione su una soluzione negoziata del conflitto, vengono citati appena nel testo dei trattati. La questione principale, cioè la continua occupazione della Cisgiordania da parte di Israele e il mancato riconoscimento di uno Stato di Palestina, non viene mai affrontata.>>
In altri termini in Palestina ci si muove nella consapevolezza di dover lottare non per una prospettiva politica precisa, ma affinché continui ad esistere una prospettiva. Ricordiamo che tutto il commercio possibile per i palestinesi avveniva solo attraverso Israele e la normalizzazione dei rapporti commerciali con gli stati Arabi, comprendeva di conseguenza la accettazione dello stato di fatto, cioè l’assenza di parte palestinese di aspirare ad ogni forma di economia indipendente e la fine di ogni forma di possibile autodeterminazione.
Possiamo porre in relazione con la differenza di presupposti, le modalità di azione tra le due forme di resistenza.
Gli italiani si ribellavano contro un occupante che non era interessato a sostituire la popolazione italiana con la popolazione tedesca, ma semplicemente a determinare dall’esterno l’orizzonte politico del nostro paese all’interno del conflitto mondiale. Infatti la resistenza italiana era in relazione con i le forze armate dei paesi in guerra contro gli occupanti e la prospettiva della vittoria possibile era tangibile, a portata di mano.
I palestinesi si trovano in una condizione completamente differente: di fronte c’è un’entità politica in progressiva crescita territoriale che ha via via occupato sempre più territorio attraverso una colonizzazione ed espansione costante, che intende cancellare il “problema palestinese” anche attraverso la distruzione fisica di tutti i suoi abitanti autoctoni.
Non c’è paragone possibile tra le due situazioni.
Questo si manifesta con forza nella differenza di modalità con la quale si sviluppano le tattiche delle due resistenze: quella italiana usò la tattica della guerriglia mordi e fuggi possibilmente cercando di salvaguardare ogni singolo componente dei gruppi partigiani; in Palestina invece, si prevede la possibilità del martirio anche della maggioranza dei partecipanti alle azioni. In un contesto nel quale alla vita delle persone è stato tolto senso e speranza, una possibile modalità di trovare un senso alla propria vita è quello di difendere la propria dignità sacrificando la vita stessa.
Non dovrebbe stupire che solo una minoranza delle persone che sono disponibili a farlo resti ancorata all’idea che altre potranno beneficiare del loro sacrificio, con atteggiamento laico; la maggioranza di queste persone necessita invece di una prospettiva religiosa, che dia speranza nel fatto che nell’atto stesso della morte si trovi un nuovo approdo per la propria anima in una esistenza ultraterrena. Con questo non si intende fare sociologia d’accatto, ma semplicemente sottolineare che condizioni materiali e storiche differenti, danno vita a modalità di reazione diversa.
L’ultima differenza che si intende analizzare e mettere in luce tra la resistenza italiana e quella palestinese, è relativa alla questione degli ostaggi: usualmente in Italia non si facevano ostaggi da parte della resistenza. E anche qui riscontriamo le differenze che rendono improponibile ogni parallelo tra le due situazioni.
In Palestina era chiaro che non esisteva nessuna situazione di diritto per i palestinesi e che agli occupanti ed al resto del mondo non interessava in nessun modo il destino di quegli esseri umani. Dunque come rendere la situazione di interesse per quella parte di mondo che determina il destino possibile? La risposta è stata attraverso l’accaparrarsi di esseri viventi ritenuti degni di essere definiti umani anche per il resto del mondo.
E qui non si discuterà della legittimità dell’atto, ma della realtà di ciò di cui si è mostrato al mondo: le uniche persone che è stato scelto di definire come esseri umani sono gli ostaggi detenuti da Hamas. L’unica sofferenza mostrata al mondo, almeno qui nel cosiddetto occidente, anche se si è sempre occidente di qualche oriente, è la sofferenza delle famiglie israeliane, mai quella delle famiglie palestinesi e questo per quasi due anni di massacri.
Infine l’unica cosa di cui possono discutere nei tavoli di trattativa sono gli ostaggi: non si parla di diritti degli occupati e se se ne parla è solo relativamente alla cancellazione degli stessi.
Infatti: dal punto di vista di coloro che detengono il monopolio della forza, Israele ha diritto ad esistere e a difendersi, punto.
E i diritti dei palestinesi? Si è mai sentito parlare dei diritti dei palestinesi?
Il primo che tutti danno per scontato debba essere cancellato è il diritto alla autodeterminazione del popolo palestinese.
Non si è mai parlato del diritto dei palestinesi di poter circolare liberamente, perché uscire dalla Palestina è molto frequentemente un viaggio a senso unico senza possibilità di ritorno, perché le frontiere sono controllate dallo stato occupante, tutte; questo significa che non esiste la possibilità e non è mai esistita la possibilità di costruire una economia indipendente. Non c’è mai stata certezza del territorio che si è sempre ridotto progressivamente, nessuna certezza sulle proprie coltivazioni, che sono state sempre progressivamente annientate e devastate, nessuna certezza relativamente al diritto, che è sempre stato governato dall’esercito occupante, nessuna certezza sul ritorno alla propria casa, che poteva essere distrutta dai coloni con la complicità dall’esercito occupante. Non sono mai stati concessi diritti politici, perché praticamente tutte le organizzazioni palestinesi sono sempre state delegittimate. Non si poteva né si può manifestare su suolo palestinese, perché si può tranquillamente incocciare nella repressione dell’occupante.
Adesso anche in Italia si parla tranquillamente del fatto che i palestinesi dovranno essere amministrati da soggetti che, evidentemente, non saranno loro a decidere chi sono, non si parla di libere elezioni, ma da chi devono essere amministrati. E’ la classica logica imperiale in cui si decide degli altri come fossero oggetti e non soggetti.
L’ultima alzata di ingegno è la contestazione del simbolo della chiave indossata da un rappresentante istituzionale palestinese e bisogna ammettere che è un’altra mostruosità: Israele che ha una legge che prevede la possibilità per ogni persona di religione ebraica nata in ogni altro luogo fuori dai confini di poter prendere cittadinanza ed entrare in quel territorio, pretende che nel territorio che dovrebbe essere di pertinenza palestinese non possano rientrare le persone che sono state impropriamente cacciate. In altri termini: chi è nato lì non deve poter rientrare ma può entrare ed aver diritto ad una abitazione chiunque faccia riferimento ad una particolare religione anche se quelle terre non le ha mai viste.
Parliamo infine dell’ultima questione: il riconoscimento dello stato di Palestina.
Sarebbe un atto dovuto da anni ed “annorum”, ma il governo italiano sta utilizzando un metodo ipocrita per non farlo: un vorrei ma non posso costruito ad arte.
Infatti la presidenta del consiglio italiano ha proposto due condizioni: essendo queste condizioni al di fuori della possibilità di essere esaudite, per il semplice motivo che il soggetto della contrattazione non esiste, allora non si può proseguire.
Spieghiamo in modo semplice perché i punti sono due:
1 – Hamas deve sparire;
2 – gli ostaggi devono essere liberati.
Il problema è che il nostro governo non si trova ad un tavolo di trattativa e che questi punti non sono contrattabili. Tra l’altro il contrattarli dovrebbe passare attraverso il riconoscimento di Hamas come soggetto politico della trattativa, visto che è il soggetto che ne dispone: dunque si è dentro un controsenso logico, prima che politico.
Ma il fatto è che il cessate il fuoco dovrebbe essere la precondizione di ogni possibile tavolo di trattativa: mentre qui si uccidono persone mentre si dovrebbe trattare, comprese quelle che dovrebbero stare ai tavoli, con riferimento a quanto avvenuto in Qatar.
Il centro del problema è che il riconoscimento dello stato di Palestina non è inerente al riconoscimento di Hamas o ad un elemento tattico, ma è inerente al diritto all’esistenza di un popolo ed alla costruzione di elementi di diritto formale, non sostanziale al momento, di essere preservati dal massacro e dall’annichilimento.
Almeno da un punto di vista degli obiettivi. Il riconoscimento è quasi una dichiarazione di principio, mentre sarebbe necessario bloccare l’invio di armi e lanciare sanzioni immediate.
Tuttavia anche il riconoscimento, con tutti i limiti del gesto, è ciò che l’Italia, per bocca della presidenta, si rifiuta di fare.
E’ impossibile non provare un profondo senso di indignazione, sgomento e vergogna per tutto ciò.
Così MARINA FORTI racconta su NEW LEFT REVIEW la mobilitazione dei portuali e lo sciopero generale del 22 settembre.
https://newleftreview.org/sidecar/posts/in-genoa