Palestina: il ritorno di Erode

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Il SI Cobas sciopera venerdì 17 novembre a sostegno del popolo palestinese, per fermare il genocidio a Gaza

Intervista al compagno Aldo Milani, coordinatore nazionale del SI Cobas

L’Esecutivo nazionale del SI Cobas ha preso ieri sera una decisione della massima importanza: organizzare uno sciopero venerdì 17 novembre in solidarietà con la lotta del popolo palestinese, per contribuire a fermare immediatamente il massacro che l’esercito israeliano sta portando avanti a Gaza con l’appoggio totale degli Stati Uniti e dei paesi dell’UE, tra cui in prima fila l’Italia di Meloni e Mattarella. Ne chiediamo la ragione al compagno Aldo Milani, coordinatore nazionale del SI Cobas.

Aldo Milani – Questa nostra decisione non cade dal cielo. Da sempre il SI Cobas sente di avere obblighi di solidarietà nei confronti dei proletari di tutti i paesi del mondo. Il nostro sindacato è composto da lavoratori e lavoratrici di più di 35 diverse nazionalità. Molti di loro provengono dai paesi arabi e di tradizione islamica. Perciò posso affermare che il SI Cobas ha l’internazionalismo proletario nel suo dna.

Da più di un anno, poi, siamo impegnati, con i compagni della Tendenza internazionalista rivoluzionaria (TIR) ed altri, in una serie di iniziative contro la guerra in Ucraina che ci hanno portato il 21 ottobre ad un grosso corteo davanti alla base militare italiana di Ghedi, dove sono depositate decine di bombe atomiche della Nato. In quella manifestazione abbiamo denunciato l’azione genocida dello stato di Israele, che data da decenni ma ha raggiunto in questi giorni una violenza sanguinaria spaventosa contro la popolazione di Gaza. Abbiamo fatto comunicati, indetto assemblee, partecipato a tante manifestazioni, ma – vista l’estrema urgenza di fermare questa mattanza – è venuto il momento di far fare un salto di qualità alla nostra azione. Lo sciopero è l’arma di lotta più efficace a nostra disposizione. E abbiamo deciso di usarla venerdì 17 in tutti i magazzini della logistica, nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro in cui siamo presenti.

Siamo fieri di essere il primo sindacato a prendere questa decisione, che accoglie l’appello lanciato dal movimento sindacale palestinese. Ma ben venga chiunque vorrà scioperare il 17 insieme a noi, a sostegno della resistenza palestinese e contro lo stato di Israele. E chi vorrà unirsi a noi nella manifestazione di sabato 18 novembre a Bologna (alle ore 15) su questi stessi obiettivi.

In effetti da più parti si sente la necessità di quello che tu chiami “salto di qualità”. Il governo di Israele è sembrato, finora, incurante delle migliaia di manifestazioni, alcune gigantesche, che ci sono state in tutto il mondo. Bisogna, perciò, alzare il tiro. Bisogna prendere iniziative che danneggino il più possibile la logistica di guerra, la produzione e la circolazione delle merci che interessano Israele e i paesi suoi alleati e padrini. Lo hanno chiesto oggi anche i Giovani Palestinesi in Italia.

A.M. – Il moto internazionale di sostegno e solidarietà con la lotta degli oppressi della Palestina è impressionante. Decine di milioni di manifestanti in tutto il mondo. Il SI Cobas, e noi internazionalisti, ce ne sentiamo pienamente parte. Le piazze sono state ovunque piazze proletarie, a smentita di tutte le idiozie sul tramonto della lotta di classe e della classe lavoratrice. In questo momento Gaza, nella sua resistenza all’azione dello stato coloniale, razzista e genocida di Israele, è davvero “la patria di tutti gli oppressi del mondo”, come hanno affermato le compagne del Comitato 23 settembre. Tutto questo, però, non è bastato ancora a fermare il massacro in corso. Ci vuole qualcosa in più, e noi ci siamo. Domani (10 novembre) saremo in presidio al porto di Genova insieme all’Assemblea contro la guerra, che ha lanciato questa iniziativa, e al collettivo dei portuali, per cominciare a metterci di traverso alla logistica di guerra, in collegamento con altre iniziative simili a Barcellona, Oakland, Sidney. Il venerdì successivo (17 novembre) faremo uno sciopero che durerà da un minimo di 4 ore ad un massimo di 8 ore.

Per noi, ne siamo coscienti, è un grosso impegno. Siamo da anni sotto una serie di ininterrotti attacchi padronali e statali: al momento il conflitto più duro è quello con la multinazionale francese Leroy Merlin, che vuole attuare a Piacenza 500 licenziamenti per imporre un salto all’indietro delle condizioni di lavoro nei suoi magazzini, da noi conquistate con lotte di anni e anni. Assumiamo questo impegno con lo sguardo rivolto ai nostri fratelli e sorelle di classe della Palestina, dei paesi arabi e di tutto il mondo con la speranza che altri, molti altri, prendano la nostra stessa decisione. Lo facciamo sullo slancio della manifestazione di Ghedi che ha visto un particolare protagonismo dei nostri lavoratori, dei loro figli e delle loro figlie, una particolare spontaneità – lo ripeto: specie nelle giovani generazioni – nell’esprimere il sostegno alla lotta dei palestinesi che sentono come una loro lotta.

Puoi dirci qual è il tuo, il vostro, modo di inquadrare la “questione palestinese”?

  1. M. – Rispondo in sintesi riprendendo alcuni concetti che con altri compagni internazionalisti abbiamo esposto in tutti questi anni. La nostra posizione non esprime solo un sentimento di indignazione e di rabbia contro chi oggi opprime e massacra una popolazione per conto dei propri interessi capitalistici strettamente legati a quelli degli stati imperialisti, gli Stati Uniti in primis, ma tende anche a far emergere un punto di vista di classe contro le classi borghesi alla scala mondiale.

La stampa borghese, esprimendo con ipocrisia il punto di vista della classe dominante, mistifica la realtà dello scontro in atto. Nei pochi casi in cui non è totalmente allineata alle posizioni sioniste o ultra-sioniste, suggerisce la tesi che in Palestina si stiano confrontando due diritti uguali e contrapposti, rispetto ai quali ci sarebbe, in ogni schieramento, un’ala ragionevole disposta al compromesso e alla pace (tra i palestinesi Abu Mazen e l’ANP), e un’ala oltranzista e intollerante che punta allo scontro. Insomma, i nemici sarebbero i “falchi” di entrambi i campi, anche se finora al governo del superfalco Netanyahu è stato permesso di compiere i crimini più efferati senza conseguenze di sorta. Questo modo di inquadrare la guerra in corso appartiene purtroppo anche a settori di movimento presenti nelle manifestazioni pro-Palestina, che tendono a concentrare tutta la loro attenzione sul ruolo di Hamas, vista come espressione delle borghesie arabe, finanziata da regimi apertamente dittatoriali e reazionari sul piano politico.

Peccato, però, che in questo schieramento apertamente borghese in cui si fa risucchiare anche qualche elemento di “sinistra”, ci si dimentichi che la fondazione stessa di Israele come stato colonialista gronda sangue da tutte le parti. La nascita e la continua espansione territoriale di Israele è stata possibile grazie al massacro della popolazione araba palestinese, alla distruzione di centinaia di villaggi, alla cacciata dei loro abitanti e alla confisca delle loro terre, alla creazione di una massa enorme di profughi, alla repressione sistematica della popolazione, all’arresto e spesso all’uccisione di migliaia e migliaia di bambini, giovani, donne.

Come si può mettere sullo stesso piano il radicalismo reazionario dei coloni israeliani che pretendono dal proprio governo un uso ancor più massiccio e brutale dell’esercito per scacciare a tutti i costi i palestinesi da ogni angolo della loro terra, e la resistenza delle masse palestinesi a Gaza e nella Cisgiordania contro l’oppressione dello stato di Israele e le continue aggressioni dell’esercito e dei coloni? Come si può mettere sullo stesso piano chi opprime, tortura, uccide nel tentativo di portare a termine il proprio progetto di colonialismo di insediamento, e la parte più viva della popolazione palestinese che alla morte lenta per mano del nemico preferisce scendere in lotta per rendere evidente che la sua condizione è insopportabile? E anche se lo fa, come è stato e come è, sotto una dirigenza opportunista con interessi che sono in conflitto con le esigenze delle masse sfruttate palestinesi, non per questo può venire meno la nostra solidarietà.

Infatti! Si tratta di cogliere la sostanza di classe della guerra in corso ormai da quasi un secolo in Palestina.

  1. M. – Pur con molte contraddizioni e illusioni di vario genere, l’attuale scontro rispecchia la volontà della massa degli oppressi palestinesi di non farsi chiudere definitivamente in un ghetto-prigione a cielo aperto di miseria e disperazione, controllato dalle forze armate dello stato sionista e da quelle dell’“autorità palestinese”. Se l’attuale condizione si perpetuasse, sarebbe la liquidazione della speranza di riscatto dei poveri e degli sfruttati. Questo, anche se dovesse vedere la luce un “mini-stato” palestinese sorvegliato a vista da Israele e fatto sopravvivere con i pelosi aiuti di qualche stato arabo o addirittura con i finanziamenti statunitensi.

Dal famigerato “piano di pace” tra Israele e l’OLP sono emerse tutte le contraddizioni in essere, vedi lo scontro militare in atto su tutto il territorio. Altro che pace! E si è reso evidente il capitolazionismo dell’OLP, che tuttavia non può essere adeguatamente combattuto e sconfitto da una prospettiva nazionalista e confessionale quale è quella che caratterizza Hamas. Ma tutto ciò non deve offuscare il dovere irrinunciabile di qualunque forza comunista, realmente internazionalista, e di un sindacato di classe come il SI Cobas, di appoggiare la lotta palestinese indipendentemente dalla sua direzione politica e militare. In ogni caso anche l’allineamento di molti alle critiche alla “destra rinunciataria” dell’OLP e all’attuale direzione del movimento di resistenza da parte di Hamas, per certi tratti reazionaria, non risolve il problema perché lascia impregiudicati i fondamenti teorici e le valutazioni politiche di fondo che stanno alla base delle posizioni dei comunisti e dei militanti dell’organizzazione sindacale SI Cobas – ovvero: quando è in corso una guerra, come quella attuale, che vede scontrarsi uno stato colonialista come Israele, protetto dall’insieme dei paesi imperialisti occidentali, e una popolazione come quella palestinese che si batte per la propria liberazione nazionale, non è possibile discutere da che parte stare

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“Siamo a pochi minuti dalla morte”.

Il direttore dell’ospedale di Al-Shifa dice che il complesso medico è “completamente tagliato fuori, qualsiasi persona in movimento presa di mira” dalle forze israeliane.

Il vice ministro della Salute di Gaza, dott. Youssef Abu Alreesh, è attualmente all’interno dell’ospedale al-Shifa:

– Questo è il momento in cui abbiamo avvertito il mondo intero. Tutti i generatori sono spenti, tutte le fonti di energia sono fuori.

– Abbiamo 39 neonati nelle incubatrici, quei bambini stanno combattendo contro la morte.

– Nessuno è in grado di muoversi intorno al complesso, i cecchini sono di stanza dappertutto oltre ai droni che prendono di mira e uccidono qualsiasi persona in movimento.

– Pochi minuti fa uno del team degli ingegneri è stato colpito da un cecchino, è stato colpito al collo ed è rimasto paralizzato e ora sta per morire.

– Parte dell’ospedale è stata bombardata e parte dell’edificio ha preso fuoco, temiamo che inghiottirà l’intero complesso.

– Alcune famiglie hanno cercato di andarsene, ma sono state prese di mira; ora sono morte fuori dall’ospedale. Non possiamo arrivare a loro.

– Siamo totalmente bloccati, siamo tagliati fuori dal mondo esterno, e soprattutto, siamo lasciati senza alcuna risorsa medica. Non possiamo nemmeno seppellire i morti.

– Un feroce colpo di arma da fuoco è caduto nelle vicinanze dell’ospedale, l’unità di terapia intensiva ha ricevuto un proiettile di mortaio pochi minuti fa.

– Il sangue è ovunque, sul pavimento, non possiamo nemmeno pulirlo.

– In passato, la macchina assassina israeliana ha ucciso, e questo è stato trasmesso sugli schermi televisivi. Ora stanno perpetrando la stessa uccisione, ma nessuno sta ascoltando, nessuno sta guardando, il mondo intero è in attesa.

– Stiamo parlando con tutto ciò che resta della mia batteria del telefono, dopo di che, staremo in silenzio.

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Lettera ai bambini di Gaza – Chris Hedges

Caro bambino. È mezzanotte passata. Sto volando a centinaia di chilometri all’ora nell’oscurità, migliaia di metri sopra l’Oceano Atlantico. Mi sto recando in Egitto. Andrò al confine di Gaza a Rafah. Vengo per te.

Non sei mai stato su un aereo. Non hai mai lasciato Gaza. Conosci solo le strade e i vicoli densamente affollati. Le baracche di cemento. Conosci solo le barriere di sicurezza e le recinzioni sorvegliate dai soldati che circondano Gaza. Gli aerei, per te, sono terrificanti. Aerei da caccia. Elicotteri d’attacco. Droni. Volano sopra di te. Lanciano missili e bombe. Esplosioni assordanti. La terra trema. Gli edifici crollano. La morte. Le urla. Da sotto le macerie arrivano soffuse le richieste di aiuto. Non si ferma. Notte e giorno. Intrappolato sotto le macerie di cemento frantumato. I tuoi compagni di gioco. I tuoi compagni di scuola. I tuoi vicini. Spariti in pochi secondi. Vedi i volti pallidi e i corpi inanimati quando vengono estratti. Sono un giornalista. È il mio lavoro vederlo. Tu sei un bambino. Non dovresti vederlo mai.

Il fetore della morte. Cadaveri in decomposizione sotto le macerie. Trattieni il respiro. Ti copri la bocca con un panno. Cammini veloce. Il tuo quartiere è diventato un cimitero. Tutto ciò che era familiare è scomparso. Fissi con stupore. Ti chiedi dove sei.

Hai paura. Esplosione dopo esplosione. Piangi. Ti aggrappi a tua madre o a tuo padre. Ti copri le orecchie. Vedi la luce bianca del missile e aspetti l’esplosione. Perché uccidono i bambini? Che cosa hai fatto? Perché nessuno può proteggerti? Sarai ferito? Perderai una gamba o un braccio? Diventerai cieco o finirai su una sedia a rotelle? Perché sei nato? È stato per qualcosa di buono? O è stato per questo? Crescerai? Sarai felice? Come sarà senza i tuoi amici? Chi sarà il prossimo a morire? Tua madre? Tuo padre? I tuoi fratelli e sorelle? Presto qualcuno che conosci rimarrà ferito. Qualcuno che conosci morirà. È questione di attimi.

Di notte ti stendi al buio sul freddo pavimento di cemento. I telefoni non funzionano. Internet è spento. Non sai cosa sta succedendo. Ci sono lampi di luce. Ci sono continue deflagrazioni. Ci sono urla. Non si ferma.

Quando tuo padre o tua madre vanno alla ricerca di cibo o acqua, tu aspetti. Quella terribile sensazione allo stomaco. Torneranno? Li rivedrai? La tua piccola casa sarà la prossima? Le bombe ti troveranno? Sono questi i tuoi ultimi momenti sulla terra?

Bevi acqua salata e sporca. Ti fa stare molto male. Ti fa male lo stomaco. Hai fame. I panifici sono stati distrutti. Non c’è pane. Mangi un pasto al giorno. Pasta. Un cetriolo. Presto sembrerà una festa.

Non giochi con il tuo pallone da calcio fatto di stracci. Non fai volare il tuo aquilone fatto con vecchi giornali.

Hai visto giornalisti stranieri. Indossiamo giubbotti antiproiettile con la scritta PRESS . Abbiamo gli elmetti. Abbiamo telecamere. Guidiamo fuoristrada. Appariamo dopo un bombardamento o una sparatoria. Restiamo seduti a lungo davanti a un caffè e parliamo con gli adulti. Poi scompariamo. Di solito non intervistiamo i bambini. Ma ho fatto interviste quando gruppi di voi si affollavano intorno a noi. Ridendo. Indicandoci. Chiedendoci di farvi una foto.

Sono stato sotto i bombardamenti aerei a Gaza. Lo sono stato in altre guerre, guerre accadute prima che tu nascessi. Anch’io avevo molta, molta paura. Ho ancora gli incubi. Quando vedo le immagini di Gaza, queste guerre mi ritornano alla mente con la potenza di un tuono e di un fulmine. Penso a te.

Tutti noi che siamo stati in guerra odiamo la guerra soprattutto per gli effetti che ha sui bambini.

Ho provato a raccontare la tua storia. Ho provato a dire al mondo che quando si è crudeli con le persone, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, decennio dopo decennio, quando si nega alle persone la libertà e la dignità, quando le si umilia e intrappola in una prigione a cielo aperto, quando le si uccidono come se fossero bestie, reagiscono. Fanno agli altri ciò che è stato fatto a loro. L’ho detto più e più volte. L’ho detto per sette anni. Pochi hanno ascoltato. E ora questo è il risultato.

Ci sono giornalisti palestinesi molto coraggiosi. Trentanove di loro sono stati uccisi dall’inizio dei bombardamenti. Sono eroi. Lo stesso vale per i medici e gli infermieri negli ospedali. Lo stesso vale per il personale delle Nazioni Unite. Di questi, ottantanove sono morti. Lo stesso è per gli autisti delle ambulanze e i medici. Così come anche i soccorritori che sollevano con le mani le lastre di cemento. Così sono le madri e i padri che vi proteggono dalle bombe.

Ma non siamo lì. Non questa volta. Non possiamo entrare. Siamo chiusi fuori.

Giornalisti provenienti da tutto il mondo si recheranno al valico di frontiera di Rafah. Vi andiamo perché non possiamo assistere a questo massacro e non fare nulla. Andiamo perché ogni giorno muoiono centinaia di persone, tra cui 160 bambini. Andiamo perché questo Genocidio deve finire. Andiamo perché abbiamo figli. Come te. Prezioso. Innocente. Amato. Andremo perché vogliamo che tu viva.

Spero che un giorno ci incontreremo. Tu sarai un adulto. Io sarò un vecchio, anche se per te sono già molto vecchio. Nel mio sogno per te ti troverò libero, sicuro e felice. Nessuno tenterà di ucciderti. Volerai su aerei pieni di persone, non di bombe. Non rimarrai intrappolato in un campo di concentramento. Vedrai il mondo. Crescerai e avrai dei figli. Diventerai vecchio. Ricorderai questa sofferenza, ma saprai che significa che devi aiutare gli altri che soffrono. Questa è la mia speranza. La mia supplica.

Ti abbiamo deluso. Questo è il terribile senso di colpa che portiamo. Abbiamo provato. Ma non ci siamo impegnati abbastanza. Andremo a Rafah. Molti di noi. Giornalisti. Resteremo fuori dal confine con Gaza per protestare. Scriveremo e filmeremo. Questo è ciò che facciamo. Non è molto. Ma è qualcosa. Continueremo a raccontare la tua storia.

Forse basterà per guadagnarci il diritto di chiedere il tuo perdono.

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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La passività e ipocrisia dell’Occidente – Elena Basile

Il 2 novembre le immagini della carneficina a Gaza scompaiono dalla maggioranza dei giornali occidentali. Si piangono i morti, non quelli palestinesi. Il Paese “Indispensabile” che “tiene il mondo insieme” (come afferma il Presidente Biden, il politico che dovrebbe incarnare rispetto al suo avversario nelle elezioni del 2024, la parte più progressista degli Stati Uniti) si oppone a un cessate il fuoco e trascina con sé le democrazie occidentali, il bel giardino di Borrell. E’ incredibile! Le autocrazie come la Russia e la Cina parlano un linguaggio di pace. Certo lo faranno per assecondare i loro interessi geo-strategici. Pronunciano tuttavia parole di saggezza politica intesa a fermare l’escalation in Medio Oriente, il massacro di innocenti a Gaza, i crimini di guerra in corso. L’Occidente invece nella sua passività e ipocrisia, rimane complice di una strage che alcuni analisti giuridici non esitano a denominare genocidio. Non sono un’esperta giuridica. Mi fido delle analisi di alcuni giuristi che si riferiscono alla convenzione per la prevenzione e la repressione del reato di genocidio del 1948. Sono stabiliti all’articolo 2 i parametri in grado di individuare casi di genocidio. Almeno tre dei 5 parametri in esso delineati sono soddisfatti a Gaza.

Una professoressa di filosofia che avevo imparato a stimare per alcuni suoi ragionamenti relativi alle cause storiche del conflitto in Ucraina afferma che Israele non è una potenza occupante, e che le folle di gente ordinaria che hanno riempito le piazze sotto la forte emozione dovuta agli eventi di Gaza sarebbero antisemite.

Vorrei ricordare che l’antisemitismo ha colpito la comunità ebraica che professava in Europa la sua religione: essa era straordinariamente attiva e coesa, aveva un meritato potere economico e rappresentava una meravigliosa intellighentia. L’antisemitismo era indirizzato agli ebrei in quanto comunità religiosa e etnica. L’antisionismo, di cui sono stati interpreti tanti ebrei, si oppone invece alla concezione in base alla quale, anche con atti terroristici contro i britannici e contro gli arabi, soprattutto nella modulazione di destra del sionismo, gli ebrei hanno il diritto a occupare con la forza la terra dei palestinesi e cacciarli dalle loro case. Dopo il 1967 in una parte dell’establishment israeliano era popolare uno slogan: prendere quanta più terra possibile e non darla indietro. Ricorderei alla nostra filosofa che le manifestazioni per il cessate il fuoco e la protezione dei civili, se chiamano Israele potenza occupante, lo fanno in linea con le Risoluzioni ONU mai applicate, e la denuncia di apartheid in Cisgiordania elaborata dall’ONU e da altre organizzazioni umanitarie. Considerare antisemitismo la critica al genocidio in corso attuato da un personaggio controverso quale Netanyau è vergognoso. Considerare antisemitismo il contrasto a strategie israeliane che dalla fine del processo di Oslo in poi, con la moltiplicazione degli insediamenti, hanno opposto l’illegalità e la violenza di Stato alla politica e alla diplomazia è una atroce mistificazione. Queste posizioni non sono solo immorali, sono controproducenti. La giustificazione della violenza e dell’impunità di Israele alla lunga genera mostri.

Netanyahu con la carneficina di civili e i bombardamenti indiscriminati anche sui campi profughi si propone come salvatore della sicurezza di Israele sperando di restare in piedi come Premier. Non mi meraviglierei se nonostante l’opposizione che esiste nella dinamica società civile di Tel Aviv, le vittorie militari enfatizzate dalla propaganda nostrana come sconfitta del terrorismo non regalino al Primo Ministro israeliano ossigeno politico. La continuità in nome deIla ritrovata sicurezza sarà forse scelta dalla società israeliana che si è spostata sempre più a destra ed è ricattata dalle forze religiose e oscurantiste. I politici statunitensi hanno nel loro dna l’impossibilità di prendere le distanze da Israele. Si inimicherebbero i donatori ebrei e cristiani, i gruppi di interesse, condannerebbero automaticamente la loro carriera politica. Democratici e repubblicani senza differenze incisive assicurano l’impunità di Israele da decenni. Obama si opponeva alla politica degli insediamenti illegali ma non ha saputo opporre alcuna sanzione quando Netanyahu ha snobbato le sue esortazioni. I falchi dell’amministrazione odierna mostrano al mondo una finta cautela. Si pronunciano a favore delle “pause umanitarie” (le vittime vanno curate e nutrite, poi i bombardamenti possono riprendere) e fingono di subire le decisioni di Tel Aviv. Come accaduto con l’Ucraina, il gioco delle parti è stucchevole. Zelensky impersonava il falco rispetto a Biden divenuto colomba. Allo stesso modo si fa credere che Israele possa come l’Ucraina avere una politica estera indipendente da quella degli USA, il loro maggiore sponsor. Se Washington volesse veramente mirare a una de-escalation, non invierebbe le porta aerei nel Mediterraneo. I burattini europei sanno che se si distanziano dalle posizioni statunitensi mettono a repentaglio la loro esistenza politica. Lo spirito gregario e conformista trionfa. L’assenza di diplomazia è spiegata. A causa delle guerre in corso e in virtù di una narrativa che predica lo scontro di civiltà e inventa minacce contro la democrazia, le classi dirigenti europee hanno costruito l’alibi, di fronte all’opinione pubblica, per ricompattarsi intorno all’alleato egemone.

Non ci sono esitazioni neanche di fronte al pericolo di una “major war”. Il rischio in Europa Orientale è stato affrontato a cuor leggero. Il Direttore dello IAI, Istituto di ricerca i cui studi portano miracolosamente alle stesse soluzioni individuate dai neoconservatori statunitensi, nei suoi ripetuti interventi ripete assiomi mai dimostrati. La difesa della democrazia europea passa per la difesa dell’Ucraina libera. Come si permette la Presidente Meloni di ripetere in una telefonata truffa a due comici russi (la tragedia diviene farsa) che c’è stanchezza verso la guerra in Ucraina? I vari Tocci, Parsi, Panebianco, Molinari non sono stanchi. Una generazione di diciottenni ucraini sacrificata, un Paese distrutto li vede ancora arzilli e pronti a celebrare una narrativa senza fondamento. Descrivono in modo surrealistico l’accerchiamento da parte delle autocrazie dell’Occidente libero al fine di far continuare il massacro in Ucraina e in Medio Oriente. La Russia non vuole arrivare a Kiev e non ha nessun sogno imperialista in Europa. Una studiosa non può non saperlo. Farebbe bene altrimenti a tornare sui banchi di scuola. Mosca non ha la potenza economica e militare per opporsi alla NATO. Kiev, Mosca e l’Europa hanno un identico interesse. L’Ucraina neutrale e ricostruita. La  pacificazione della regione orientale dell’Europa.

In Medio Oriente si profila un allargamento del conflitto con conseguenze spaventose. L’Occidente, respingendo il cessate il fuoco, fomenta il rischio. I cani da guardia cercano di convincerci che non esiste alternativa diplomatica. Iran, Hezbollah, Paesi arabi hanno reazioni fino ad ora simboliche. Razzi che non fanno danni, dichiarazioni bellicose, abbaiano. Le portaerei americane sono un dato senza precedenti. I rapporti di forza sono a favore di Tel Aviv e Washington. L’Occidente è il soggetto che deve fermare l’escalation. Il leader degli Hezbollah Nashrallah, nel suo atteso discorso, non ha dato soddisfazione alla stampa occidentale che da giorni prepara l’opinione pubblica ai nuovi orrori descrivendo l’Iran e gli Hezbollah pronti a trascinate Tel Aviv e Washington nel conflitto. Il leader libanese pur scatenando la sua retorica contro Israele ha messo in chiaro che il massacro del 7 ottobre è stata opera esclusiva di Hamas e che tra Iran, Hezbollah e Hamas non vi sono legami automatici. I paesi arabi e la Turchia si limitano  a condannare l’azione barbara di Israele a Gaza. La Turchia osa chiamare Israele criminale di guerra al fine di tener buone le opinioni pubbliche. Al momento non sembra vogliano entrare in un conflitto per il popolo palestinese, per i derelitti della terra.

Nessun politico del centro-sinistra e del centro-destra, in sintesi le classi dirigenti che governano l’Europa, prende nettamente posizione contro il massacro. I difensori dei diritti umani mostrano il loro vero volto.

Ho rivolto sui social un appello al Presidente Mattarella. Possibile che alla sua veneranda età, dopo avere avuto tutto dalla carriera politica e essere appartenuto, a prescindere dal sottogoverno e sottobosco democristiano, a una tradizione importante cattolica e sociale, che ha espresso statisti come Aldo Moro, possibile che il nostro Presidente della Repubblica, garante dei valori costituzionali, fino all’ultimo giorno opterà per la convenienza politica senza in alcun modo abbracciare l’etica della convinzione?

Un cattolico dovrebbe avere empatia per la sofferenza umana. I bambini tremanti e mutilati che arrivano in ospedali senza medicine e antidolorifici, senza acqua, elettricità, meritano compassione e difesa.

Il Presidente Mattarella potrebbe essere una voce morale, chiedere il cessate il fuoco, opporsi alla barbarie.

Leggo invece esterrefatta le sue dichiarazioni sulla democrazia di cui sarebbero strumenti la NATO e l’Europa, gli appelli a inviare nuove armi all’Ucraina, una strabiliante frase in cui menziona i crimini di Hamas ma non quelli israeliani.

Presidente, i bambini la guardano, le vittime la guardano, la Storia potrebbe non perdonarla.

da qui

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=6PKMm8_fmoM

 

 

Daniele Luttazzi – Provare a manganellare la relatrice Onu Albanese e far la figura degli asini

Caro Daniele, prima del massacro terrorista di Hamas Israele non era una potenza occupante. Gaza non era occupata dal 2005! (Pietro G.)

Non è esatto. L’altra sera lo ha spiegato Francesca Albanese, relatrice speciale onoraria dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, all’incompetente Pigi Battista che usava quell’argomento per la sua solita propaganda sionista: “Israele occupa militarmente la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est dal 1967. L’occupazione militare c’è ai sensi della Convenzione dell’Aia, articolo 42, quando c’è controllo effettivo del territorio. Quello che Israele ha fatto venire meno dal 2005 è la presenza delle colonie, la colonizzazione, che non è criterio determinante per l’esistenza di un’occupazione militare. Israele ha mantenuto nel frattempo il controllo via terra, il controllo via aria, il controllo dello spazio elettromagnetico, il controllo del mare, il controllo delle risorse: giacimenti petroliferi fuori dalla costa di Gaza, acqua, elettricità. Anche i morti e le nascite devono essere confermate dall’esercito israeliano. C’è anche la moneta. Tutto quello che entra ed esce da Gaza è controllato da Israele. Israele decide anche l’apporto calorico che è concesso agli abitanti di Gaza. Gaza è occupata ai sensi delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”.

 


Replica schiacciante di Pigi: “Sì, vabbè” (Pigi è quello che giustificò preventivamente il bombardamento di Gaza evocando un altro crimine di guerra, il bombardamento americano di Dresda. Vuoi ridere, Pietro? È lo stesso Pigi che all’epoca di 
Satyricon mi dava del “manganellatore mediatico”.) En passant: Albanese, con la sua preparazione e la sua pazienza encomiabili, ha fatto fare ai presenti (Pigi, Sallusti e Porro, che conduceva il programma su Rete 4) la figura degli asini. Poiché, ovunque la invitino, è la figura che fa fare a tutti i propagandisti in servizio permanente effettivo, che non possono contestarla nel merito, ieri è partita la rappresaglia: se n’è incaricato su X Antonino Monteleone, che viene dalla cricca delle Iene, secondo il quale Francesca Albanese “avrebbe omesso di segnalare, nel modulo sui conflitti di interessi a corredo della sua candidatura, che suo marito, Massimiliano Calì, ha lavorato per il ministero dell’Economia dell’Autorità Nazionale Palestinese”. Falso: Calì, un economista della Banca Mondiale (t.ly/Ttoq), nel 2011 fece una consulenza per l’Onu; non é mai stato assunto o pagato dall’Autorità palestinese. Monteleone ha preso l’informazione da un rapporto (29 marzo 2022) di Un Watch, una Ong che l’agenzia France-Press ha definito “un gruppo di pressione con forti legami con Israele” (tinyurl.com/5empa9f3) e l’Economist “un monitor pro-Israele” (tinyurl.com/4jspmr46). Un Watch non voleva che quel posto di relatore all’Onu fosse assegnato a candidati che considerano “apartheid” quello di Israele e che documentano i suoi crimini di guerra. E siccome nulla di tutto questo smentisce i fatti e i precedenti storici che Albanese ricorda nei suoi interventi tv, Monteleone di suo ci aggiunge lo sfottò: definisce “affollata” la saletta in cui Albanese sta facendo una conferenza stampa all’Onu, di cui posta delle foto per mostrare che ad ascoltarla ci sono tre giornalisti. Il tentativo di character assassination è stato prontamente rilanciato dal Giornale. D’ora in avanti, qualunque Pigi Battista, messo all’angolo dalla competenza di Francesca Albanese, invece di replicare nel merito potrà fare ammuina contestandole il suo presunto conflitto di interessi (talmente inesistente che, un mese dopo, l’Onu le conferì l’incarico nonostante la denuncia interessata di Un Watch). Funziona così. Qui la replica di Albanese: t.ly/8mka1.

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“Il conflitto il più mortale di sempre per gli operatori delle Nazioni Unite” – Davide Malacaria

“La morte di decine di operatori umanitari negli attacchi aerei su Gaza nell’ultimo mese ha reso il conflitto il più mortale di sempre per gli operatori delle Nazioni Unite”.

“Almeno 88 persone che lavoravano per l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, l’UNRWA, sono state uccise dal 7 ottobre. Quarantasette dei suoi edifici sono stati danneggiati”.

“Inoltre, secondo le Nazioni Unite, a Gaza sono stati uccisi almeno 150 operatori sanitari – 16 mentre prestavano servizio – e 18 operatori dei servizi di emergenza per la protezione civile di Gaza. Più di 100 strutture sanitarie sono state danneggiate”. Tanto riportava il Guardian il 6 novembre.

Inoltre, “un terzo di tutti gli edifici nel nord di Gaza sono stati danneggiati o distrutti, secondo un’analisi delle immagini satellitari New York Times, ma le bombe non hanno ovviamente risparmiato il Sud, come rilevano i satelliti suddetti.

Al 9 novembre le vittime della mattanza dii Gaza sono oltre 10mila (197 delle quali in Cisgiordania), di cui oltre 4mila bambini – “ogni 10 minuti viene ucciso un bambino palestinese”, ha twittato Ghassan Abu Sitta, chirurgo di Gaza (ancora vivo), aggiungendo che è una “guerra contro i bambini” (un po’ forte, ma la situazione in cui vive non aiuta a stemperare). Inoltre proseguono le durissime restrizioni di acqua, cibo ed elettricità…

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ISRAELE. Ondata di arresti tra i leader politici arabi – Eliana Riva

L’ex parlamentare della Knesset, il politico arabo israeliano Mohammad Barakeh, presidente dell’Alto comitato di controllo per i cittadini arabi di Israele, è stato arrestato da agenti di polizia israeliani mentre era a bordo della sua automobile.

Insieme a lui tra ieri e oggi, sono stati arrestati 4 importanti membri del partito arabo Balad/Tajammo,  tra cui il  leader Sami Abu Shehadehl’ex leader Mtanes Shehadehe, il vicesegretario generale, Yousef Tartour e l’ex parlamentare Haneen Zoabi. Anche un altro membro del Comitato di controllo, Mahmoud Mawasi, è stato trattenuto dalla polizia.

In un comunicato le forze armate israeliane hanno affermato che Mohammad Barakeh è stato arrestato per aver sfidato l’ordine della polizia tentando di organizzare una manifestazione illegale che avrebbe potuto “incitare disordini e danneggiare l’ordine pubblico”.

Barakeh, intendeva organizzare, ieri a Nazareth, un sit-it contro la guerra a Gaza. L’ex leader del partito Hadash, parlamentare israeliano dal 1999 al 2015, ha informato ieri il comandante della polizia di Nazareth che l’Alto Comitato di Controllo intendeva organizzare un piccolo raduno che non prevedeva più di 50 partecipanti. Nella sua comunicazione Barakeh ha sottolineato che, proprio secondo la legge israeliana, una manifestazione con meno di 50 partecipanti non necessita di permessi.

Hassan Jabareen, che si occupa dell’assistenza legale per Barakeh e per gli altri leader politici arrestati ha dichiarato: “Assistiamo all’attuazione sul campo di un divieto draconiano da parte della polizia, con l’intento di mettere a tacere ogni forma di critica e sopprimere la libertà di espressione e di riunione dei cittadini palestinesi e dei loro leader. Queste detenzioni sono palesemente illegali e mirano chiaramente a ostacolare l’attività politica palestinese che rientra nei limiti della legge”.

Circa 1,2 milioni di palestinesi detengono la cittadinanza israeliana e costituiscono circa il 20 per cento della popolazione del Paese.

da qui

 

CHIEDERE SCUSA – Ugo Giannangeli

Nei giorni scorsi Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della sera si è posto una domanda: che cosa doveva e deve fare Israele, qual è la risposta ragionevole all’azione del 7 ottobre? Della Loggia si risponde ovviamente giustificando Israele che con tonnellate di bombe sta radendo al suolo Gaza uccidendo indiscriminatamente combattenti, donne, vecchi e bambini. Poi Della loggia si allarga giungendo a criticare il diffuso pacifismo e il rifiuto del ricorso alle armi da parte di larghi settori della società civile; secondo Della Loggia il ricorso alle armi ormai è diventato un tabù.

Eppure la risposta, la sola possibile, nell’interesse dello stesso Israele, era lì a portata di mano: Israele, dopo un attacco così eclatante, avrebbe dovuto prendere atto che oltre 75 anni di occupazione, massacri, prigionia, espropri, esili non avevano piegato il popolo palestinese, arrendersi all’evidenza, rinunciare al proprio antico progetto e… chiedere scusa.

Chiedere scusa ai palestinesi ammazzati prima ancora della nascita dello Stato dalle bande terroristiche Stern e Irgun. A quelli ammazzati ed espulsi nel ‘48  e nel ‘67. Ai vecchi, alle donne e ai bambini massacrati a Sabra e Chatila. Ai milioni di prigionieri transitati per le carceri israeliane. Ai gazawi periodicamente bombardati nel 2008/ 2009, nel 2012, nel 2014, nel 2021 ed ora. Alle donne, ai vecchi e bambini che nel 2018 hanno partecipato alla Grande marcia del ritorno e sono stati uccisi o invalidati dai cecchini israeliani che si esercitavano al tirassegno come in un luna park. Ai palestinesi della West Bank costretti quotidianamente all’umiliazione dei check points, a vedere la propria casa demolita, i propri terreni espropriati, i propri olivi sradicati dai bulldozer.

Dopo le scuse, il risarcimento, laddove possibile. Come?

Aprire le frontiere al ritorno dei profughi come ordinato sin dal 1948 dalla risoluzione Onu 194. Chi vuole torna, chi ha ancora la chiave può provare ad aprire la porta ma la serratura sarà stata cambiata. Pazienza: l’inquilino abusivo fornirà la chiave e pagherà anni di affitto arretrato. Chi non può o non vuole tornare avrà diritto a un equo indennizzo.

Ordinare ai 700.000 coloni della West Bank, di Gerusalemme est e del Golan di tornare a loro scelta nelle loro case in Israele o nel Paese di origine da cui si sono mossi per andare a colonizzare un territorio non loro.

Abbattere 720 km di muro per permettere ai palestinesi di percorrere 100 m camminando per 100 m e non per 5 km.

Liberare tutti i prigionieri, risarcendoli per gli anni di vita rubati. Indennizzare le famiglie dei prigionieri uccisi sotto tortura o a seguito di sciopero della fame.

Ricostruire tutta Gaza, le sue moschee, i suoi ospedali, le sue scuole. Consegnare barche nuove ai pescatori.

Ripiantare 2 milioni di olivi e risarcire gli agricoltori per i mancati raccolti.

Richiamare Ilan Pappé chiedendogli scusa e assegnargli una cattedra universitaria dalla quale poter spiegare la vera storia di Israele. Mettere in Tribunale una targa in ricordo dell’avv. Felicia Langer che ha speso la vita a difendere palestinesi avanti alle Corti militari.

Tutto ciò ha costi anche economici enormi. Ma la collettività ebraica della diaspora saprà sostenerli e lo farà anche nell’interesse di Israele perché possa diventare uno Stato normale, con una popolazione non militarizzata nel fisico e nella mente che esprime governi fascisti e razzisti. Israele potrà darsi dei confini, una Costituzione che riproduca i buoni propositi solo enunciati nella Dichiarazione di indipendenza, potrà annullare l’oltraggiosa legge del 2018 sulla supremazia ebraica, potrà distribuire nelle scuole libri che non inneggiano all’odio e al disprezzo verso i palestinesi, potrà avere un esercito che sarà veramente un IDF, esercito difensivo, e non IOF, esercito di aggressione e di occupazione. Avrà severe leggi sulle armi che non consentano a civili di terrorizzare persone inoffensive con armi da guerra.

C’è molto da fare ma si inizi ad interrompere la vendetta e la rappresaglia. Venga il cessate il fuoco, venga la liberazione degli ostaggi insieme alla liberazione di tutti gli ostaggi palestinesi altrimenti detti prigionieri. La storia dirà se sarà necessario convivere vicini ma separati, forse con reciproca diffidenza, o se i palestinesi saranno capaci di perdonare tutto il male subito e riusciranno a convivere in un unico Stato con i loro ex carcerieri con parità di diritti.

Nel mondo scomparirà l’antisionismo e resterà forse solo un po’ di antisemitismo relegato negli ambiti fascisti e razzisti, attuali sostenitori di Israele. Tornerà ad avere un ruolo il diritto internazionale e l’ONU con vantaggio universale. Mentre scrivo giunge la notizia della richiesta di dimissioni di Guterres, segretario dell’ONU, per avere detto due ovvietà: Israele deve rispettare il diritto umanitario e Hamas è frutto dell’occupazione asfissiante. Segue subito la notizia del diniego di visto di ingresso in Israele ai funzionari ONU. Del resto ricordo che a suo tempo Yair Lapid andò a Ginevra sotto la sede del Consiglio dei diritti umani dell’ONU a gridare che quello era il Consiglio dei diritti dei terroristi.

Israele deve essere recuperato da questa deriva e dalla sua assoluta incapacità di riconoscere le proprie responsabilità. Chi vuole aiutarlo non deve assecondarlo ma metterlo all’angolo e fermarlo. Lettere come quella che sta circolando a firma anche di Walzer e Grossmann contro la sinistra internazionale che sarebbe incapace di empatia per gli israeliani innocenti uccisi non aiutano perché non individuano il nocciolo del problema: come ci si può dolere della mancanza di empatia per le vittime civili israeliane mentre si bombardano civili palestinesi fin dentro le autombulanze e la conta provvisoria ad oggi è di quasi 10.000 uccisi di cui oltre 3500 bambini?

Nonostante la forsennata campagna mediatica in corso la cosiddetta società civile ha capacità critica e di discernimento. Lo dimostrano le oceaniche manifestazioni nel mondo a favore delle ragioni del popolo palestinese. E chi partecipa a queste manifestazioni ha empatia per tutte le vittime ma è capace di individuare le responsabilità.

 

 

I crimini di guerra di Israele a Gaza sono intenzionali, non collaterali – Marwan Bishara

Le raccapriccianti scene di morte e distruzione a Gaza ci ricordano che per Israele la violenza non è incidentale, imprevista o casuale. Fa parte integrante del suo DNA coloniale.

Come i francesi in Algeria, gli olandesi in Indonesia e in Sud Africa, i belgi in Congo, gli spagnoli in Sud America e gli europei in Nord America, anche i sionisti hanno disumanizzato i nativi del Paese come precursore o giustificazione per la repressione e la violenza gratuita. Ma il colonialismo non deve essere confuso con l’ebraismo. Semmai, gli ebrei sono storicamente vittime del razzismo da secoli, il che rende molti di loro anticolonialisti.

Nel 1948, Israele fu fondato sulle rovine della Patria di un altro popolo, quello palestinese. È diventato uno Stato a maggioranza ebraica attraverso la deliberata Pulizia Etnica dei 750.000 abitanti palestinesi del territorio. Da allora, Israele ha mantenuto la sicurezza attraverso la repressione statale, l’Occupazione militare, guerre sanguinose e innumerevoli massacri contro i civili.

Nazareth, la mia città natale, fu una delle poche ad essere risparmiata dalla Pulizia Etnica ma solo perché un comandante militare di nome Benjamin Dunkelman, ebreo canadese a capo della 7ª Brigata dell’esercito israeliano, si rifiutò di eseguire l’ordine di epurazione dei suoi superiori per questa città a maggioranza cristiana, come scrisse più tardi, soprattutto per paura delle ripercussioni internazionali.

Circa altre 400 città e villaggi palestinesi non furono così fortunati. Sono stati tutti spopolati e la maggioranza è stata interamente decimata. I loro abitanti furono uccisi o cacciati. Le loro proprietà furono demolite o confiscate. Furono dati loro nuovi nomi ebraici. Quei palestinesi che tentarono di tornare alle loro case furono uccisi o mandati con la forza nei Paesi vicini.

Nel suo libro, Sacred Landscape: The Buried History of the Holy Land Since 1948 (Visione Sacra: La Storia Nascosta Della Terra Santa dal 1948), Meron Benvenisti, un politologo israeliano, scrive: “Non era dalla fine del Medioevo che il mondo civilizzato aveva assistito dell’appropriazione su larga scala dei luoghi sacri di un comunità religiosa sconfitta dai membri di quella vittoriosa”.

Da allora, Israele si è concentrato sul popolo in sé, indipendentemente dalla sua dirigenza o dalla loro. I palestinesi sono visti da Israele o come un nemico interno che deve essere sradicato o come una minaccia demografica che deve essere rimossa. Non è un caso che fin dalla sua nascita Israele abbia instaurato un Regime Oppressivo di “Superiorità Ebraica”. Questo Regime fu esteso dopo la guerra e l’Occupazione del 1967 all’intera Palestina storica, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Da qui il motto palestinese: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”.

Per decenni Israele ha utilizzato una forza sproporzionata e ha compiuto innumerevoli massacri contro i civili palestinesi come forma di vendetta, punizione e deterrenza. Il mese scorso, i palestinesi hanno commemorato il 70° anniversario del massacro di Qibya, dove, in rappresaglia per un attacco palestinese contro un insediamento israeliano che uccise tre persone, tra cui due bambini, le forze israeliane guidate da Ariel Sharon attaccarono il villaggio della Cisgiordania di circa 2.000 abitanti, uccidendo 69 palestinesi, per lo più donne e bambini.

La stessa mentalità vendicativa è stata applicata 70 anni dopo a Gaza. Si tratta di una strategia di deterrenza, deliberatamente mirata a danneggiare i civili per allontanarli dai loro leader e dai gruppi che combattono in loro nome. Oggi, la macchina della propaganda israeliana è impegnata a raccogliere gli appelli disperati e rabbiosi, reali e non, dei residenti di Gaza che scaricano la colpa su Hamas per aver attirato su di loro l’ira di Israele.

Israele non accetta mai il principio di “occhio per occhio” nei suoi confronti con i palestinesi. Insiste su un rapporto di 1 a 10 o 20 quando si tratta di suoi civili e vittime civili palestinesi. Pertanto, i civili palestinesi devono pagare un prezzo elevato in ogni singolo scontro, indipendentemente da qualsiasi considerazione morale o giuridica.

In nessun luogo la sproporzione è più pervasiva che nei 56 anni di Occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gaza, che per sua stessa natura è un sistema perpetuo di violenza contro i civili. Generazioni dopo generazioni di palestinesi hanno dovuto sopportare un’Occupazione militare razzista, raccapricciante e illegale che ha incluso umiliazioni quotidiane, punizioni collettive, confische di terre e la distruzione di vite umane e mezzi di sussistenza. Per Gaza, ciò ha significato un assedio della Striscia durato 17 anni attraverso un blocco militare terribile e disumano, incursioni militari, bombardamenti di infrastrutture civili e altro ancora.

Sebbene Israele affermi di “non avere scelta”, la sua Occupazione è in realtà guidata dalla strategia, non dalla necessità. Nel corso degli ultimi sessant’anni, Israele ha controllato i Territori Palestinesi in parte per colonizzarli attraverso centinaia di insediamenti illegali su terre palestinesi rubate, in parte per tenerne in ostaggio la popolazione finché i loro leader non accettassero i suoi dettami politici, che sono per definizione una forma di terrorismo di Stato, il che significa usare la violenza contro i civili per fini politici.

Un altro fattore importante dietro la violenza di Israele contro i civili palestinesi, come ho spiegato qui, è l’odio, odio alimentato dalla paura, dall’invidia e dalla rabbia.

Israele teme tutto ciò che è Fermezza Palestinese, Unità Palestinese, Resistenza Palestinese, Poesia Palestinese e tutti i simboli nazionali palestinesi. Tale paura genera odio perché uno Stato che ha sempre paura non può essere libero. Israele è arrabbiato con i palestinesi perché si rifiutano di desistere o di arrendersi, per non essere andati via, lontano. Si rifiutano di cedere i loro diritti fondamentali e tanto meno di ammettere la sconfitta. Israele è anche invidioso della tenacia e dell’orgoglio dimostrato dai palestinesi. È invidioso delle loro forti convinzioni e della disponibilità al sacrificio.

In breve, Israele odia il popolo palestinese per aver impedito la realizzazione dell’utopia sionista su tutta la Palestina storica. E odia soprattutto coloro che vivono a Gaza, come ho scritto l’anno scorso, per aver trasformato il sogno in un incubo.

Ma la risposta a Gaza e nel resto della Palestina non può essere più uccisioni e più Occupazione. Infatti, il continuo massacro su scala industriale da parte di Israele e la repressione nazionale dei palestinesi, in rappresaglia ai raccapriccianti attacchi di Hamas del 7 ottobre nel Sud di Israele, sono allo stesso tempo assolutamente criminali e terribilmente insensati. Israele ha cercato di vivere con la spada (dominando) negli ultimi 75 anni, ma ha seminato sempre la stessa insicurezza, infamia e rabbia. Ripetere più e più volte la stessa strategia e aspettarsi risultati diversi è davvero stupido. Se continua a negare ai palestinesi una vita e un futuro, anche Israele finirà per non avere una vita o un futuro degno di essere vissuto in questa regione araba.

Marwan Bishara è un autore che scrive ampiamente sulla politica globale ed è largamente considerato un’autorità in materia di politica estera degli Stati Uniti, Medio Oriente e affari strategici internazionali. In precedenza è stato professore di Relazioni Internazionali presso l’Università Americana di Parigi.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

da qui

 

 

QUI  un video di Manlio Dinucci

 

 

Noy Katsman : Mio fratello è stato massacrato il 7 ottobre. So che avrebbe chiesto il cessate il fuoco.

Ho tradotto questo articolo da The Nation Magazine e vi invito a leggerlo:Maurizio Acerbo

Se l’unica giustificazione per la guerra di Israele contro Gaza fosse quella di vendicare morti come la sua, per lui sarebbe impossibile digerire la macchia morale.

Mio fratello, Hayim Katsman, è stato uno dei 31 massacrati americani in Israele il 7 ottobre. Avendo la doppia cittadinanza, Hayim si è trasferito a Holit dopo aver conseguito il dottorato a Seattle, continuando la sua ricerca sul sionismo religioso mentre serviva il kibbutz in difficoltà che amava. Il giorno degli attacchi, mio fratello ha usato il suo corpo per proteggere il suo vicino, Avital, dai proiettili in arrivo. Le ha salvato la vita.

Si potrebbe dire che Hayim è morto nello stesso modo in cui ha vissuto: sacrificando se stesso per proteggere gli altri. Insegnante, sostenitore e amico fidato delle comunità agricole palestinesi delle colline a sud di Hebron, mio ​​fratello spesso interveniva per disinnescare le tensioni con i coloni ebrei prima che degenerassero in violenza. Hayim ha prestato servizio volontario nei giardini di Rahat, una città beduina, e presso l’Academia for Equality, un’organizzazione che sostiene gli accademici palestinesi in Israele. Era anche un DJ di musica araba, sempre alla ricerca di connessioni interculturali. Mio fratello ha trascorso i suoi 32 anni radicato nella convinzione che tutta la vita – israeliana e palestinese, araba ed ebraica – è ugualmente preziosa. E non ha mai rinunciato alla speranza che un futuro più luminoso e pacifico fosse possibile per tutti.

Ho pensato molto a cosa direbbe Hayim in questo momento. Con il bilancio delle vittime a Gaza che ora supera le 10.000, so cosa si chiederebbe: tutte queste vite preziose perdute, a quale scopo? Perché se l’unica giustificazione fosse quella di vendicare morti come la sua, la macchia morale sarebbe impossibile da sopportare per mio fratello. Vorrebbe che i suoi due governi, Stati Uniti e Israele, negoziassero e attuassero un cessate il fuoco umanitario immediato – e perseguissero un percorso verso la libertà e la sicurezza per tutti – prima che sia troppo tardi.

Si suppone che il governo israeliano abbia a cuore la restituzione dei nostri circa 240 ostaggi, cosa che solo un cessate il fuoco renderebbe possibile. Ma ha smesso di ascoltare le famiglie delle vittime, come la mia. Il 28 ottobre, le famiglie dei rapiti hanno chiesto al primo ministro Benjamin Netanyahu di mediare uno scambio totale dei palestinesi incarcerati in Israele con i loro cari: “Tutti per tutti”, hanno implorato . Ma a quanto pare, il gabinetto di Netanyahu considera gli ostaggi poco più che un danno collaterale, pezzi degli scacchi nei “ giochi psicologici ” di Hamas, come ha detto il ministro della Difesa Yoav Gallant. Negoziare oltre la barriera Gaza-Israele semplicemente non è la loro priorità, anche se sono in gioco vite israeliane innocenti.

Per quanto riguarda le vite innocenti dei palestinesi, il disprezzo è ancora più sfacciato. Tra i decessi registrati finora, oltre 4.000 sono bambini di Gaza, un numero di vittime infantile in quattro settimane superiore a quello registrato in tutte le zone di conflitto del mondo in qualsiasi degli ultimi quattro anni. Gallant ha definito senza mezzi termini i suoi obiettivi militari a Gaza: “Stiamo combattendo gli animali umani… Elimineremo tutto”. A giudicare dagli sviluppi sul campo da allora – dai ripetuti attacchi aerei sui rifugiati nel campo di Jabalia a Gaza, all’uso indiscriminato e illegale del fosforo bianco nelle città densamente popolate di Gaza – la comunità internazionale deve prenderlo in parola.

L’obiettivo ufficiale di tutto ciò è distruggere Hamas con ogni mezzo necessario, per rendere Israele di nuovo sicuro. Ma questo ci rende davvero più sicuri? Per i milioni di palestinesi, circa 240 ostaggi israeliani e innumerevoli altri americani e cittadini stranieri ancora intrappolati da qualche parte tra i valichi di Erez e Rafah – circondati su tutti i lati da fuoco, macerie e cadaveri insanguinati – l’incubo è continuo ed inimmaginabile. Con ogni nuovo giorno di guerra, migliaia di vite di soldati israeliani – e, sempre più, la sicurezza dell’intera regione – sono in pericolo. Eppure, il governo israeliano deve ancora darci un’idea chiara di quale obiettivo politico spera di raggiungere.

Per la morte di Hayim e quella di altre 1.400 persone, ha detto il presidente israeliano Isaac Herzog , non è solo Hamas ma “un’intera nazione là fuori ad essere responsabile”. Mio fratello troverebbe spregevole questa logica morale. Hayim non vorrebbe mai che i palestinesi di Gaza pagassero con la propria vita per la sua vita. Sarebbe nauseato al pensiero che gli ostaggi israeliani subissero la stessa sorte che è toccata a lui. La cosa più urgente è che mio fratello avrebbe il cuore spezzato nel sapere che la sua morte ha ispirato la stessa violenza vendicativa a cui si è opposto per tutta la vita.

Hayim chiederebbe il cessate il fuoco, per riportare indietro gli ostaggi, per salvare quante più vite possibili e per avviare un nuovo processo diplomatico, con una nuova leadership da entrambe le parti, in modo che tutti, palestinesi e israeliani, possano godere di pace, sicurezza e libertà.

Che la sua memoria sia una benedizione e uno standard morale per noi da vivere e seguire.

da qui

 

 

noi, cannibali – Enrico Euli

Ho visto ieri ‘I cannibali’ di Liliana Cavani, un film del 1970.

Una spettrale Milano, corredata da migliaia di cadaveri -ex ribelli uccisi- sulle strade e da camionette della Sicurezza di Stato che impediscono ai cittadini di toccarli e seppellirli, pena la morte.

Quasi tutti obbediscono, impauriti ed impotenti, e fanno la spia alle autorità quando qualcuno -disobbedendo come Antigone a Creonte- ci prova.

Coscienza morale contro legge dello stato, tipico dilemma della nonviolenza.

 

Vedendolo, impossibile non ritrovarsi a Gaza.

Quelle migliaia di morti dissepolti tra le strade, coperti dalle macerie, pietosamente avvolti da poveri sudari.

Persone assassinate per ragioni di stato, per una legittimità presunta di difesa, che ammantano (malamente) la rabbia, il calcolo e la vendetta di qualcuno contro altri.

Persone assassinate dal silenzio omertoso e colluso di un popolo, quello israeliano, e di tutti noi.

Noi, che camminiamo tra i cadaveri, fingendo indifferenza (o provandola davvero, ormai).

Quando noi stessi ci ritroveremo a vivere nel disastro, a mendicare ‘pause umanitarie’ gentilmente concesse dai signori della guerra, solo per poter fuggire non si sa bene dove, per tentare soltanto di sopravvivere, sarà troppo tardi.

 

A far da contraltare alle stragi di bambini e ragazzini, ci riempiamo la bocca di buoni sentimenti per riuscire a portare in Italia Indy, la bambina inglese.

Una povera malatina incurabile viene utilizzata a fini di propaganda, per tentare un assurdo e ridicolo contrappeso con i morticini di Gaza.

Non vogliamo mai smettere di voler apparire buoni, soprattutto se vogliamo continuare ad essere cattivi.

Ma anche quel Bambin Gesù -a cui si intitola il nostro caritatevole ospedale- è già così morto da tempo.

Perchè accanirsi? Perchè insistere ancora?

da qui

 

 

QUI un video di Massimo Mazzucco

 

 

Guerra e media: la narrazione dei conflitti in assenza di argomenti e di conoscenza storica – Francesco Sylos Labini

Nella discussione pubblica il filo che lega guerra in Ucraina a quella in Israele è quello di cancellare il contesto: tutto è iniziato ieri, con i buoni e i cattivi e tutto quello che è avvenuto prima fa parte di un tempo storico lontano che non vale la pena considerare e che comunque non incide sul presente. La guerra in un Ucraina è cominciata il 20 febbraio del 2022; quella in Palestina il 7 ottobre 2023. Chiunque provi a contestualizzare gli avvenimenti storici diventa subito un filo Putin, filo Hamas, antisemita, ecc., insomma una “quinta colonna” traditore della patria. Un modo primitivo di porre la discussione ma in assenza di argomenti e di conoscenza storica non ci sono alternative per poter mantenere una tesi insostenibile.

Nel caso dell’Ucraina l’aggressione russa è stata definita sempre “non provocata” e chi prova spiegare causa ed effetto viene condannato come colui che “giustifica” e “legittima”. Nel caso della guerra in Palestina la dinamica nei media è simile e non appena il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, mentre ha condannato inequivocabilmente gli atti di terrore compiuti da Hamas in Israele, ha fatto un accenno al fatto al contesto sottolineando che “gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto, il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”, è stato additato di essere filo-Hamas. Lo stesso trattamento era stato riservato a Papa Francesco quando, condannando l’aggressione della Russia, aveva aggiunto che “l’abbaiare della Nato alla porta della Russia” ha indotto il capo del Cremlino a scatenare il conflitto “Un’ira che non so dire se sia stata provocata ma facilitata forse sì”. Il Papa è diventato immediatamente filo-Putin, e la sua presenza nei mass media è stata visibilmente emarginata.

La rimozione del contesto storico è necessaria a far affermare una narrativa semplice e confortante in cui ci sono i buoni e i cattivi, dove i cattivi sono come Hitler e dunque ogni mezzo è giustificato: il bombardamento di Gaza diventa necessario come quello di Dresda durante la Seconda guerra mondiale, doloroso ma imprescindibile per estirpare i cattivi. Il linguista Noam Chomsky, riferendosi al caso della Russia, in una intervista ha spiegato le ragioni di questa narrativa.

“Il termine “aggressione non provocata” è piuttosto interessante. Non è mai stato usato in passato ma ogni riferimento all’invasione russa deve essere chiamato “invasione russa non provocata”. Fai una ricerca su Google per “invasione non provocata” e otterrai un paio di milioni di risultati per l’invasione non provocata dell’Ucraina. Cerca invece “invasione non provocata dell’Iraq” e troverai forse dieci persone che hanno scritto una lettera al Washington Post. In realtà, qualsiasi psicologo può spiegare esattamente cosa sta succedendo. La ragione per insistere nel chiamarla “invasione non provocata” è che si sa perfettamente bene che è stata provocata. Infatti, ci sono state provocazioni estese risalenti agli anni ’90. Questa non è solo la mia opinione, ma è l’opinione di quasi tutti i vertici dell’alto livello diplomatico degli Stati Uniti e di chiunque abbia gli occhi aperti può vederlo, siano essi falchi o colombe, chiunque sappia qualcosa a riguardo. Ovviamente il fatto che sia stata provocata non implica che sia giustificata, sono due cose separate. D’altro canto, l’invasione degli Stati Uniti in Iraq, che è stata molto peggiore dell’invasione russa dell’Ucraina, si può dire che sia stata completamente non provocata. In entrambi i casi si tratta di aggressione criminale, indipendentemente dalla provocazione, ma è molto interessante vedere come la frase “invasione non provocata” sia diventata essenziale negli ultimi uno o due anni. Devi chiamarla così, anche se tutti sanno che è una sciocchezza totale, è un modo per cercare di sottolineare e far sì che le persone non prestino attenzione a ciò che è ovvio. In realtà, la propaganda su questo argomento è piuttosto sofisticata.”

Contrastare questa narrativa è difficile non tanto per mancanza di argomenti, che sono accessibili a chiunque decida di dedicare un po’ di tempo a studiare e a leggersi qualche buon libro di storia, ma per la virulenza con cui un esercito di urlatori ripete lo stesso argomento in ogni trasmissione, editoriale e social media. Questo rumore assordante è strumentale ad intimidire chi potrebbe dare un contributo ragionato al dibattito pubblico e a rivolgersi alla pancia delle persone con meno strumenti, che tra un percorso complesso di approfondimento e una dicotomia tra il bene e il male fanno la scelta più semplice. Il problema non è solo italiano: ad esempio l’economista Jeffrey Sachs recentemente faceva notare l’involuzione del New York Times un tempo riferimento di un’area “liberal”, famoso per la pubblicazione del “Pentagon papers” diventato il caso simbolo della libertà di stampa, mentre oggi riporta le veline di “anonimi funzionari del dipartimento di Stato”. In Italia, nella provincia sempre più allineata alla peggior destra in circolazione e sempre meno autonoma nelle sue scelte politiche, le cose vanno peggio, a parte poche e meritorie eccezioni.

da qui

 

 

Genova: In centinaia bloccano il porto contro l’invio di armi a Israele

E’ iniziato all’alba, presso il porto di Genova, il presidio per impedire il passaggio della nave della ZIM, carica di armamenti e diretta a Israele.

Dal varco San Benigno già centinaia le persone solidali con il popolo palestinese, tra lavoratori del porto, studenti, cittadini e realtà che vanno dal sindacalismo di base alle associazioni pacifiste e che si sono ritrovati questa mattina uniti sotto gli slogan “la guerra comincia da qui” “fermiamo le navi della morte”. Oltre al varco della ZIM bloccato anche il varco dei traghetti.

Oltre al varco della ZIM, la principale compagnia logistica di Israele, è stato bloccato anche il varco dei traghetti.

Il cielo di Genova si è anche illuminato di rosso (clicca qui per il video) con una serie di torce, a simulare quello che, tutti i giorni, accade a Gaza con l’occupazione militare israeliana: “i popoli in rivolta – dicono camalli e solidali – scrivono la storia”.

«Sono cinque anni che facciano una serie di blocchi, scioperi, presidi, azioni anche con la comunità europea per contrastare i traffici. Principalmente contro la compagnia Bahri. Nel 2019 siamo riusciti a evitare che una nave dell’azienda saudita caricasse dal porto di Genova armi che sarebbero state utilizzate in Yemen», spiega Josè Nivoi, sindacalista dell’Usb dopo essere stato per 16 anni un lavoratore del porto: «Nella nostra chat abbiamo condiviso anche un piccolo manuale, scritto insieme all’osservatorio Weapon Watch, su come identificare i container che contengono armi. Perché ci sono degli obblighi internazionali, ad esempio, che costringono le compagnie ad applicare una serie di adesivi utili per quando i vigili del fuoco devono intervenire in caso di incendio. Che rendono riconoscibili i carichi. Mentre in altre navi le armi sono facilmente individuabili, visibili ad occhio nudo».

Nel 2021 il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, insieme quelli di Napoli e Livorno ha anche cercato di bloccare una nave israeliana che stava trasportando missili italiani a Tel Aviv: «Non siamo riusciti a fermarla perché abbiamo saputo troppo tardi, dalle carte d’imbarco, che cosa trasportava. Ma da quel momento sono iniziate le nostre operazioni in solidarietà con il popolo palestinese. E abbiamo deciso di accogliere l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. Rifiutando di gestire l’imbarco di carichi di armi. Non vogliamo essere complici della guerra».

A convocare l’iniziativa l’Assemblea contro la guerra e la repressione. Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invitava alla partecipazione.

L’iniziativa di oggi raccoglie l’invito dei sindacati palestinesi, che nei giorni scorsi avevano diffuso un appello nel quale chiedono ai lavoratori delle industrie coinvolte di rifiutarsi di costruire armi destinate ad Israele, di rifiutarsi di trasportare armi ad Israele, di passare mozioni e risoluzioni al proprio interno volte a questi obiettivi, di agire contro le aziende complicitamente coinvolte nell’implementare il brutale ed illegale assedio messo in atto da Israele, in particolare se hanno contratti con la vostra istituzione, di mettere pressione sui governi per fermare tutti i commerci militari ed in armi con Israele, e nel caso degli Stati Uniti, per interrompere il proprio sostegno economico diretto.a lottare e a opporci con tutta la nostra forza a questa guerra, boicottandola praticamente con i mezzi che abbiamo a disposizione e quindi chiediamo a tutte e tutti di partecipare al presidio.

Il collegamento dal porto di Genova con Rosangela della redazione di Radio Onda d’Urto e le interviste ai manifestanti Ascolta o scarica

Le interviste ai partecipanti Ascolta o scarica 

Il blocco del molo è poi diventato corteo fino alla sede della compagnia israeliana ZIM dove si è verificato un fitto lancio di uova piene di vernice rossa. La cronaca di Rosangela della Redazione di Radio Onda d’Urto  Ascolta o scarica

Ancora interviste ai partecipanti Ascolta o scarica 

Corrispondenza conclusiva con un bilancio dell’iniziativa di Riccardo del Collettivo autonomo lavoratori portuali Ascolta o scarica

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Gaza: la bomba atomica a rate – Pino Cabras

In Israele abbiamo un problema: al comando c’è un gruppo di suprematisti razzisti e genocidi, imbevuti di nazionalismo del XIX secolo ma dotati di un apparato di pubbliche relazioni del XXI secolo con complicità altolocate in tutto l’Occidente

Non so cosa debba accadere ancora per dare la sveglia definitiva alle tante belle addormentate dell’informazione e della politica in Occidente, per accorgersi che in Israele abbiamo un grosso problema: lì al comando c’è un gruppo di suprematisti razzisti e genocidi, imbevuti di nazionalismo del XIX secolo ma dotati di un apparato di pubbliche relazioni del XXI secolo con complicità altolocate in tutto l’Occidente nonché di un esercito dalla forza super-ridondante, che scatena un programma intensivo di stragi e di distruzione di massa su una popolazione civile già prostrata da decenni di assedio illimitato.

Le immagini della nuova carneficina (che va avanti già da un mese) arrivano con il contagocce alle masse occidentali, specie a quelle italiane. Eppure, hanno un’autoevidenza in grado di bucare la vergognosa cortina di menzogne delle redazioni.

Nessuno che veda per un solo minuto lo strazio dell’infanzia di Gaza può dare più alcun credito a quella cricca di guerrafondai iper-protetti (dall’Occidente) che ha impresso una svolta estrema al Sionismo Reale.

Ieri si sono accorti tutti di un personaggio che per parte mia avevo descritto qualche giorno fa in un post che aveva suscitato incredulità e sgomento persino fra alcuni sostenitori inflessibili di Israele. Parlo del ministro Amihai Eliyahu, quello che diceva: «Il nord di Gaza è più bello che mai. Far esplodere e lisciare tutto è una delizia per gli occhi. Dovremmo pensare a dopodomani e distribuire lotti edificabili a tutti coloro che hanno combattuto per Gaza.»

Fin qui erano le frasi che avrebbe potuto pronunciare un gerarca nazista. Ma i nazisti non avevano l’atomica. Lui tiene a far sapere una cosa che di solito si dice solo sottovoce: Israele l’atomica ce l’ha eccome, e lui la propone come un’opzione per sterminare gli abitanti di Gaza. È troppo anche per l’apparato di pubbliche relazioni che sostiene Netanyahu. Il premier lo smentisce e anche il ministro della difesa (che pure aveva definito i palestinesi come bestie parlanti che non meritavano pietà) sconfessa Eliyahu.

Tutto bene, dunque? Neanche per sogno. L’alibi del gerarca più ottuso va a coprire le nefandezze dei gerarchi non meno fanatici ma più avveduti rispetto alle reazioni del mondo, in una sorta di scala dell’irragionevolezza che li colloca dal lato meno irrazionale. Che bisogno c’è di una bomba atomica? In questa fase implicherebbe troppe esternalità radioattive incontrollabili e permanenti nonché la rottura di un tabù per il quale non hai mai le spalle abbastanza larghe. No. Ora no. Ora basta usare l’unità di misura meccanica della Bomba. Come misuriamo la potenza di un’atomica? Con il “kilotone”, ossia un multiplo dell’unità di misura “ton”, usata per convenzione per formulare la quantità di energia che viene liberata da un esplosivo: un kilotone corrisponde a 1000 ton, quindi all’energia liberata dall’esplosione di mille tonnellate di tritolo. Little Boy, l’ordigno statunitense che nel 1945 distrusse Hiroshima e i suoi abitanti, fu di 16 kilotoni.

Perché liberarli tutti in una volta? Non conviene. Puoi farlo a rate. Si calcola che fin qui i kilotoni scaricati sulle teste degli innocenti di Gaza siano già arrivati a 25. Molto più di Hiroshima, sebbene diluiti in trenta giorni e trenta notti di puro inferno. E mentre le redazioni italiche con mille facce di bronzo danno ogni spazio agli ultras di Netanyahu che minimizzano il numero dei morti, sono addirittura gli stessi giornali israeliani a dire invece che i 10mila morti conteggiati dall’Autorità Nazionale Palestinese sono sottostimati e che sono almeno il doppio.

Mentre scrivo, faccio zapping fra i canali visti da due miliardi di mussulmani e da altri popoli ancora. Hanno telecamere fisse puntate sull’orizzonte di Gaza. Non passa un solo minuto in cui il cielo non sia solcato da traccianti e da una colonna di fumo che si solleva su nuova palazzina che collassa all’istante. Miliardi di persone sono testimoni del tiro al bersaglio sugli innocenti. Più di noi che vediamo molto meno.

Come pensate che queste moltitudini possano dare ancora un grammo di credito a una sciagurata come la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock, quella che dice che «Israele ha a cuore la gente di Gaza, i palestinesi»? Come pensate che miliardi di persone possano valutare le parole di Meloni, Macron, Sunak, Biden, Scholz, e di tutti gli altri baciapantofole occidentali che vanno a solidarizzare con un governo che bombarda a tappeto un popolo minacciando di cacciare via nel deserto chi sopravvive? Pensate davvero di darla a bere in questo modo a miliardi di nativi digitali che hanno infiniti canali per mettere a nudo l’ipocrisia occidentale? I “leader” occidentali (poco leader e molto maggiordomi), sembrano il gatto del meme che si nasconde dietro un palo molto sottile e pensa di non essere visto. La loro ipocrisia, smisurata e goffa, deborda da ogni direzione: li vedono tutti. Non saranno mai più creduti. Mai più.

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Guerra senza testimoni e giornalisti ammazzati – Antonio Cipriani

La guerra è insensata. E insensato è tutto l’apparato filosofico che la sostiene, che la diffonde come necessità storica tra cittadini spettatori comodamente seduti sul divano, in ciabatte. Chiacchiere su chiacchiere, posizioni pretestuose e ipocrisia a pacchi. Mentre la povera gente muore. Mentre cannoneggiano i palazzi, le scuole, gli ospedali radendo al suolo una città alla ricerca dei terroristi.

Palestina

Guerra tra Israele e Hamas titolano i giornali con una certa ignoranza. Perché dire Palestina rende la questione più scivolosa. Muoiono bimbi, donne, famiglie palestinesi, medici sulle ambulanze, giornalisti che fanno testimonianza. Tutti di Hamas? Una tv per la manifestazione del Pd di ieri titolava: no alle bandiere di Hamas. Insinuando sottilmente quello che cercano di far passare da settimane: Israele ha diritto di massacrare Gaza perché non c’è differenza tra palestinesi e membri di Hamas.

Abbiamo parlato di giornalisti, quindi di testimoni sul campo. Il numero di giornalisti ammazzati in questi giorni è enorme. Secondo Reporter senza frontiere le vittime sono 41. E Israele non permette agli inviati dei giornali internazionali e delle tv di entrare nella Striscia. Così la mattina, dopo aver letto Remocontro, Michele Giorgio e Internazionale, vado a vedere se il fotografo Motaz Azaiza, la giovane reporter Plestia Alaqad, 22 anni, e la filmaker Wizard Bisan, aka Bisan Owda di 25 anni, sono ancora vivi. Se possono ancora testimoniare quello che accade nella Striscia di Gaza.

Ascoltare le loro voci, vedere le loro immagini, ci farà soffrire, perché a ogni video, a ogni immagine salirà la rabbia, la guerra scatenata in questo modo sembrerà ancora più insensata. Ed è anche un modo per sostenere la resistenza civile di chi lotta per dare voce al silenzio degli innocenti, di chi cerca di sottrarsi dalla sordina messa in opera per disumanizzare le vittime, per non farci vedere che i danni collaterali campavano, avevano speranze e sogni, case e fotografie, ricordi e giocattoli.

Negli ultimi trenta anni l’obiettivo è una guerra senza testimoni, senza giornalisti, senza fotografi e cineoperatori, senza organizzazioni internazionali umanitarie. Una guerra silenziata, in cui a parlare possano essere solo le armi dei vincitori. Una guerra giusta, umanitaria, chirurgica, per esportare democrazia, o esprimere un diritto all’autodifesa senza vincoli, senza inciampi narrativi. Una guerra che rappresenti uno spot per la guerra, che aiuti il mondo a considerarla un male necessario per alcuni, neanche per tutti alla fine dei conti. D’altra parte il complesso militare-industriale fa affari come mai nella storia. Più bombe, più missili, più armi di ultima generazione, più droni killer, più sofisticati sistemi per uccidere. Come se i civili in guerra si potessero tranquillamente sterminare, ma senza dar troppo nell’occhio.

E se invece appare la guerra per quello che è, con l’orrore che contiene e la morte efferata degli inermi, ogni cosa cambia. Le coscienze si attivano. Il sangue degli innocenti macchia le camicie stirate di fresco dei teorici dello sterminio. L’insensatezza della guerra appare con più chiarezza…

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Il senso della «vittoria» per Israele – Neve Gordon

In tutta Israele, enormi cartelloni torreggiano sulle superstrade, mentre grandi manifesti sono stati affissi davanti a scuole, supermercati ed edifici governativi. Tutti espongono un nuovo slogan: «Insieme vinceremo». Lo slogan è breve e incisivo (in ebraico è composto da due parole, «beyahad nenatzeach») ed è stato adottato da ampi segmenti della popolazione ebraica. Parte della sua attrattiva è probabilmente dovuta alla sua ambiguità
Un’ambiguità che consente a ciascuno di interpretare la parola «vittoria» in modo diverso.
Tuttavia, nonostante le diverse interpretazioni della forma che la vittoria dovrebbe assumere, sembra esserci un ampio consenso fra gli israeliani sul fatto che una vittoria di qualsiasi genere possa essere ottenuta solo scatenando una violenza letale su Gaza.
COME SI PUÒ spiegare, altrimenti, che quando i residenti della Striscia in fuga verso sud su una strada identificata come «sicura» da Israele vengono colpiti da un attacco aereo, non una sola voce si levi a criticare l’attacco sui media mainstream? Né si percepisce alcun oltraggio quando le bombe vengono sganciate su uno dei quartieri più affollati del campo profughi di Jabaliya, o quando dei missili colpiscono un convoglio di ambulanze. Per la maggioranza degli israeliani, «vincere» sembra attualmente giustificare quasi ogni violenza.
Come dimostra il mese appena trascorso, la maggioranza degli israeliani non sembra aver avuto alcuna remora per il fatto che i militari abbiano sganciato 30mila tonnellate di esplosivo su Gaza, danneggiando circa il 50% di tutte le unità abitative della Striscia, e rendendone inagibili almeno il 10%. Quasi il 70% dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza sono stati forzatamente cacciati dalle proprie case dalle bombe e i raid.
Metà degli ospedali e il 62% dei centri di prima assistenza sono fuori servizio, e un terzo di tutte le scuole sono state danneggiate, mentre circa il 9% è ora fuori servizio.
Questo, credono molti ebrei israeliani, è parte di ciò che è necessario per «vincere» e, di conseguenza, che i palestinesi debbano patire migliaia di vittime civili, inclusa la morte, sinora, di oltre 4mila bambini. Sembrano accettare che «vincere» comporti uccidere in media sei bambini ogni ora dal 7 ottobre, e trasformare Gaza in un «cimitero per bambini», con le parole del segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres.
IL GENERE di bombardamenti indiscriminati che abbiamo visto nell’ultimo mese è indubbiamente parte del tentativo di Israele di esercitare una deterrenza nei confronti di Hamas, così come di Hezbollah. Il messaggio è chiaro: guardate la distruzione a Gaza e state attenti.
Eppure, anche il bombardamento su vasta scala di Gaza necessario a questo tipo di deterrenza non è davvero lo l’obiettivo definitivo. Ciò che «vincere» significa per la maggioranza degli ebrei israeliani è il completo annientamento di Hamas e del Jihad Islami palestinese.
CONSIDERANDO che Hamas è un’ideologia, un movimento sociale e un apparato di governo che include un braccio militare, la vastità e la fattibilità di questo obiettivo non sono chiare, ma senza dubbio comporterà l’uccisione di migliaia di combattenti, compresi i loro leader politici e militari, la demolizione del sistema di tunnel che Hamas ha creato e la distruzione delle armi che il gruppo ha accumulato. E l’uccisione di migliaia di civili, lo spostamento forzato su vasta scala della popolazione e l’ampia distruzione di siti civili vengono considerati «danni collaterali» legittimi.
Ma se la distruzione di Hamas è l’obiettivo, allora «vincere» significa anche un cambio di regime a Gaza, così come la creazione di una nuova realtà sul campo in cui Israele non solo controlla i confini della Striscia di Gaza, ma anche ciò che succede al loro interno.
È soltanto a questo punto, tuttavia, che l’attuale consenso diffuso in Israele sulla necessità di annientare Hamas si frammenta e la «vittoria» viene interpretata diversamente a seconda dei gruppi politici di appartenenza.
Per la destra religiosa, l’odioso massacro di Hamas è considerato un’opportunità per reinsediare i coloni nella Striscia di Gaza.
I BOMBARDAMENTI a tappeto e lo spostamento forzato di un milione di palestinesi rendono possibile il sezionamento della Striscia in parti diverse, e la creazioni di zone senza palestinesi dove i coloni possano impossessarsi della terra e ricostruire gli insediamenti.
Il reinsediamento nella Striscia, tuttavia, è parte di un piano più vasto per «ebraicizzare» l’intera regione – dal fiume al mare. In questo momento – sotto la copertura della violenza di Israele su Gaza – in Cisgiordania i coloni appartenenti a questo gruppo politico stanno espellendo le comunità palestinesi dalle colline a est di Ramallah, dalla Valle del Giordano e dalle colline a sud di Hebron.
«Vincere per loro significa portare a termine la Nakba una volta per tutte, rimpiazzando la popolazione indigena con ebrei in tutta terra biblica di Israele.
Per la destra politica israeliana e molti centristi, «vincere» significa trasformare parti del nord di Gaza e un largo perimetro intorno ai confini settentrionali, meridionali e orientali della Striscia in una terra di nessuno. Significa spostare permanentemente la popolazione del nord al sud di Gaza, e dai confini verso l’interno, e confinare i palestinesi in una prigione ancora più piccola di quella nella quale hanno vissuto negli ultimi 16 anni. Questo comporta la creazione di un governo fantoccio responsabile dei compiti dell’amministrazione municipale, non dissimile dall’Autorità palestinese in Cisgiordania, e significa che i soldati israeliani entreranno periodicamente nella Striscia di Gaza per «mietere il prato», in modo analogo a ciò che i militari fanno a Jenin.
I centristi rimanenti e molti liberal israeliani non hanno idea di cosa «vincere» significhi oltre all’esercizio di un’orribile violenza per «distruggere Hamas».
INTRAPPOLATI in un paradigma militarista e ora vendicativo, sembrano pensare che gli israeliani e i palestinesi siano intrappolati in un gioco a somma zero in cui solo l’applicazione della violenza sui palestinesi garantirà in qualche modo che gli ebrei siano al sicuro. Incerti su cosa la vittoria significhi, ma ciononostante desiderosi di questo risultato, anche loro sostengono questa violenza.
Di conseguenza, che la maggioranza degli ebrei israeliani lo ammetta o no, «vincere» implica una spinta eliminazionista su vasta scala, diretta contro il popolo palestinese e non solo Hamas.
Solo un piccolo segmento della popolazione ebraica israeliana rifiuta queste forme di «vittoria» e si appella a un cessate il fuoco immediato.
Per loro, dunque, vincere vuol dire un completo e totale cambio di paradigma, che trasformi Israele in un unico stato democratico fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo dove ebrei e palestinesi possano vivere insieme da uguali.
PER QUESTO GRUPPO, la parola “insieme” nello slogan «insieme vinceremo» non è l’eccezionalismo ebraico che regna in Israele (e da molte altre parti del mondo) ma un’alleanza ebraico-palestinese, qualcosa che oggi appare come un sogno improbabile. Questa visione profetica, tuttavia, è l’unica accezione di vittoria per cui valga la pena combattere. E la nostra unica speranza di un futuro di pace in questa storica terra.

(articolo pubblicato originariamente su Al Jazeera)

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Porti bloccati contro l’invio di armi a Israele

Genova, Barcellona, Oackland, Tacoma, Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

L’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele” è stato raccolto dai sindacati in diversi paesi.

Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di GazaVenerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo).

Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invita alla partecipazione.

Anche i lavoratori del porto australiano di Sidney, stanno protestando contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana Zim. All’appello dei sindacati palestinesi. E’ di ieri la dichiarazione della Organización de Estibadores Portuarios di Barcellona (OEPB) i cui aderenti si rifiuteranno di caricare armi destinate al conflitto israelo-palestinese dal porto catalano. E’ la risposta all’appello lanciato dai sindacati palestinesi per fermare «i crimini di guerra di Israele» sin dall’inizio dell’invasione di Gaza

In Belgio già da alcune settimane a rifiutarsi di caricare armi sono i lavoratori aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così dal sindacato greco Pame che il 2 novembre ha bloccato l’aeroporto di Atene per protesta contro i bombardamenti israeliani.

Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di Tacoma, mossi dal sospetto che la Cape Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis.

Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana Elbit Systems.

Di fronte al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza, in tutto il mondo sta montando un’ondata di indignazione che chiede il boicottaggio degli apparati militari ed economici di Israele, con un movimento che somiglia molto a quello che portò alla fine del regime di apartheid in Sudafrica.

A livello internazionale da anni è attiva in tal senso la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) verso Israele che le autorità di Tel Aviv temono moltissimo e contro cui hanno creato un apposito dipartimento, lanciando una contro campagna di criminalizzazione del Bds in vari paesi europei e negli USA. Un tentativo evidentemente destinato a fallire.

Ai  microfoni di Radio Onda d’Urto Carlo Tombola di “The Weapon WATCH – Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei ” Ascolta o scarica

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Animalwashing israeliano, strumentalizzare i diritti animali per disumanizzare i palestinesi. – Grazia Parolari

Intervista di Lorenzo Poli.

In un momento storico in cui il panorama politico è fortemente dettato dall’omogeneità, dalla banalizzazione degli argomenti e dall’assimilazione di contenuti che hanno una connotazione fortemente diversificata al loro interno, parliamo oggi di un argomento di “nicchia” di cui moltissimi non conoscono l’esistenza e di cui molti non ne capiscono il senso. Il significato dell’antispecismo e l’importanza politica delle sue lotte sono molto difficili da spiegare in un contesto come quello palestinese che è attraversato da repressione militare, violenza, segregazione razziale, oppressione delle minoranze da parte del regime sionista di Israele, il quale nel frattempo si preoccupa di dare un’immagine modernizzata e progressista di sé attraverso una forte propaganda internazionale per oscurare l’occupazione feroce dei territori palestinesi. Oggi, con l’Operazione “Spade di ferro” dell’esercito israeliano, sotto le macerie di Gaza si trovano umani palestinesi e gli animali della Palestina vittime dello stesso oppressore. Di questo abbiamo parlato con Grazia Parolari, attivista antispecista molto presente nelle lotte ambientaliste locali sui territori bresciano e bergamasco, vegana, responsabile Area Fauna Selvatica di LAV Bergamo, nonché attivista filopalestinese ed ex-rappresentante nazionale dell’organizzazione antispecista decoloniale Palestinian Animal League Solidariety Italy (PAL).

Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato, qualche giorno fa: “Niente elettricità, niente cibo, niente benzina, niente acqua. Tutto chiuso. Combattiamo degli animali umani e agiamo di conseguenza”. Come attivista antispecista decoloniale, come interpreti l’espressione “animali umani” usata dal Ministro?

Il termine è stato ovviamente utilizzato nella sua accezione negativa, espressione dell’ancor viva tradizione antropocentrica che colloca gli animali (non umani) in categorie inferiori alla nostra, e come tali legittimamente sfruttabili e macellabili. Lo scopo è disumanizzare i Palestinesi, giustificando ulteriormente la vendetta in corso, una vendetta che, colpendo coloro che sono “solo animali”, può più facilmente esulare da giudizi etici e morali, perché trattare gli “animali” in modo violento e crudele è quello che avviene quotidianamente negli innumerevoli ambiti in cui essi vengono usati e uccisi senza che la maggioranza delle persone lo trovi condannabile e riprovevole, bensì “normale”.

Il ministro della Difesa nell’utilizzare l’accezione negativa del termine, e smentendo quindi apertamente che si possa guardare agli animali non umani con occhi diversi da quelli dell’antropocentrismo più radicato conferma, allo stesso tempo, come l’etica vegana dei suoi soldati, celebrati come l’esercito “più vegano del mondo”, sia solo l’ennesimo strumento di propaganda ingannevole, volto tra l’altro a creare una falsa distinzione tra i “barbari” palestinesi e gli “illuminati e civili “israeliani. Ho scritto un approfondimento facendo notare al ministero della Difesa israeliano che, se usciamo dall’accezione negativa che lui dà, tutti noi siamo “animali”, compreso lui.

Spesso Israele, per dare un’immagine esemplarizzata di sé al mondo, si auto-investe del primato di Paese più “animal-friendly” usando spesso come mezzo di paragone la condizione degli animali nei Paesi arabi. Vi è davvero una situazione migliore per animali in Israele, o si tratta di animal-washing?

Israele ha sempre cercato di dipingere i Palestinesi come “barbari e incivili”, immagine che viene veicolata anche attraverso i libri di testo scolastici, dove i Palestinesi vengono delegittimati attraverso la disumanizzazione, l’emarginazione, la caratterizzazione tramite aspetti negativi, le etichettature politiche e le comparazioni tra gruppi. Anche visivamente, i Palestinesi sono sempre raffigurati mediante simboli razzisti o immagini che li classificano come “terroristi”, “profughi”, “contadini primitivi”, ovvero i tre “problemi” che costituiscono per Israele. All’interno di questa operazione di delegittimizzazione rientra anche la descrizione dei Palestinesi, o degli Arabi in generale, come popolo “notoriamente” crudele e insensibile verso gli animali, creando quindi una contrapposizione tra i maltrattamenti dei Palestinesi verso gli animali e la cura ad essi riservata da parte degli Israeliani. Questo tipo di contrapposizione viene applicata da Israele anche riguardo le donne, le persone LGBTQ+ e la cura per l’ambiente in modo del tutto strumentale.

In realtà, la definizione di “animal-friendly” associato ad Israele si scontra con la realtà dei fatti:

Israele non ha alcuna legge nazionale contro l’utilizzo degli animali nei circhi, non è contraria agli zoo e agli acquari, non è contraria alla sperimentazione animale. Secondo quanto riferito dall’ONG “Let the Animals Live”, nel giugno del 2020 l’IDF ha condotto esperimenti su circa 1.000 animali, causando spesso gravi danni ai soggetti. Inoltre Israele è il sesto maggior consumatore pro-capite di carne al mondo, il più alto nel Medioriente e il primo consumatore pro-capite di pollame (e qui si potrebbe aprire un’ampia parentesi sul veganwashing). La proposta di legge per vietare il trasporto di animali vivi, che avviene in condizioni terribili più volte segnalate, e presentata per la prima volta nel 2018, in Israele non è mai stata approvata. L’IDF inoltre sfrutta centinaia di cani, addestrandoli per intimidire, minacciare e attaccare i Palestinesi, non facendosi scrupolo di sparare ai cani dei Palestinesi che trovano sulla propria strada quando attaccano i villaggi.

Lo scorso aprile, un articolo di Tom Levinson sul quotidiano israeliano Haaretz parlava di 2.000 cani randagi uccisi da Israele nel 2022 con il solo intento di ridurne il numero. La notizia non ha ovviamente avuto lo stesso risalto di quella riguardante il sindaco di Hebron, Tayseer Abu Sneineh, che nel novembre del 2022 aveva fissato una ricompensa di 20 shekel per ogni cane randagio ucciso. Decisione ritirata dopo un solo giorno grazie alle proteste degli animalisti palestinesi.

Parimenti, sono ormai moltissimi gli attacchi documentati dei coloni verso greggi e mandrie dei pastori palestinesi, con l’uccisione di decine di capi.

Se poi passiamo alla fauna selvatica e alla biodiversità, gli impatti dell’occupazione su di essa sono devastanti, con la barriera di separazione ostacola il movimento naturale di animali selvatici e rettili, minando l’equilibrio ecologico e biologico e la diversità animale nella Striscia e nei Territori senza che questo susciti alcuna preoccupazione da parte di Israele, se non quando deve puntare il dito contro la caccia illegale di ungulati da parte dei Palestinesi.

Israele è talmente “animal-friendly” che non ha vietato ancora le pellicce.

Nel 2021 ebbe grande risonanza la notizia dell’approvazione, da parte di Israele, della legge che vietava il commercio e l’utilizzo di pellicce animali. Tale notizia venne utilizzata per ribadire lo status speciale di Israele come paese illuminato e progressista, esempio a cui gli altri Paesi dovevano guardare, così come Shalo Simhon, allora ministro dell’Agricoltura, ebbe a dire: “Noi (Israele) dovremmo dare l’esempio al resto del mondo sulla questione”, riecheggiando con queste parole la rappresentazione dell’identità nazionale di Israele come eccezionale e come “faro per le nazioni”, idea già radicata nei primi miti sionisti come la “dottrina della scelta divina” che conferisce agli ebrei una “missione morale unica”.

In realtà la legge presentava un’importante eccezione, consentendo il rilascio di permessi se le pelli devono essere utilizzate per “religione, tradizione religiosa, ricerca scientifica, educazione o insegnamento”. Questa scappatoia esenta quindi dal divieto innanzitutto gli ebrei ultra-ortodossi, che spesso indossano cappelli di zibellino, noti come shtreimels, durante lo shabbat e nei giorni festivi. L’impatto di questa legge sul commercio e sull’utilizzo di pellicce è stato quindi minimo, e non ha certamente costituito quella svolta epocale, quel “faro di civiltà”, così ampiamente propagandati. Ha costituito, bensì, l’ennesima operazione di “washing”, di cui l’hasbara israeliana si nutre…

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Francesca Albanese, ONU: “Non ci sarà alcuna possibilità di tornare indietro dopo quello che Israele sta facendo alla Striscia di Gaza”

Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite: “Quattro ore di cessate il fuoco prima di bombardare nuovamente è molto cinico e crudele.

“Non ci sarà alcuna possibilità di tornare indietro dopo quello che Israele sta facendo alla Striscia di Gaza”.

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Pepe Escobar – La Russia e la fine della neutralità sul conflitto palestinese

 [Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

La complessa e sfumata questione della neutralità geopolitica della Russia nella tragedia israelo-palestinese è stata finalmente chiarita la scorsa settimana, senza mezzi termini.

Reperto A è il discorso che il Presidente russo Vladimir Putin ha fatto – di persona, il 30 ottobre – al Consiglio di sicurezza del suo Paese, agli alti funzionari governativi e ai capi delle agenzie di sicurezza.

Tra altri personaggi di rilievo, erano presenti il Primo Ministro Mikhail Mishustin, il Presidente della Duma Vyacheslav Volodin, il Segretario del Consiglio di Sicurezza Nikolai Patrushev, il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov, il Direttore dell’FSB Alexander Bortnikov e il Direttore dell’SVR (l’intelligence estera) Sergei Narishkin.

Putin non ha tardato a precisare la posizione ufficiale della Federazione Russa nell’attuale incandescenza geopolitica di due guerre intrecciate, Ucraina e Israele-Palestina. Il discorso era rivolto tanto al suo pubblico di alto profilo quanto alla leadership politica dell’Egemone occidentale”.

“Non c’è alcuna giustificazione per i terribili eventi che si stanno verificando a Gaza, dove centinaia di migliaia di persone innocenti vengono uccise indiscriminatamente, senza avere un posto dove fuggire o nascondersi dai bombardamenti. Quando si vedono i bambini sporchi di sangue, i bambini morti, la sofferenza delle donne e degli anziani, quando si vedono i medici uccisi, ovviamente, si stringono i pugni mentre le lacrime salgono agli occhi.”

La coalizione del caos guidata dagli Stati Uniti

Poi è arrivata un’anticipazione del contesto: “Dobbiamo capire chiaramente chi c’è in realtà dietro la tragedia dei popoli in Medio Oriente e in altre regioni del mondo, chi ha organizzato questo caos letale e chi ne trae vantaggio.”

Senza mezzi termini, Putin ha descritto “le attuali élite al potere negli Stati Uniti e nei loro satelliti” come “i principali beneficiari dell’instabilità globale che usano per estrarre la loro sanguinosa rendita. Anche la loro strategia è chiara. Gli Stati Uniti come superpotenza globale si stanno indebolendo e stanno perdendo la loro posizione, e tutti lo vedono e lo capiscono, anche a giudicare dalle tendenze dell’economia mondiale.”

Il presidente russo ha fatto un collegamento diretto tra la spinta americana ad estendere “la sua dittatura globale” e l’ossessione politica di promuovere il caos senza sosta: “Questo caos la aiuterà a contenere e destabilizzare i suoi rivali o, come dicono loro, i loro avversari geopolitici, tra i quali annoverano anche il nostro Paese, che in realtà sono nuovi centri di crescita globale e Paesi sovrani indipendenti che non sono disposti a inchinarsi e a svolgere il ruolo di servi.”

In particolare, Putin ha voluto “ripetere ancora una volta” al suo pubblico interno e a quello del Sud Globale che “le élite al potere degli Stati Uniti e dei loro satelliti sono dietro la tragedia dei palestinesi, il massacro in Medio Oriente in generale, il conflitto in Ucraina e molti altri conflitti nel mondo – in Afghanistan, Iraq, Siria e così via”.

È un punto di vitale importanza. Confrontando i responsabili del conflitto in Ucraina e della guerra a Gaza – “gli Stati Uniti e i loro satelliti” – il presidente russo ha di fatto accomunato Israele all’Egemone occidentale e alla sua agenda di “caos”.
Mosca si allinea con la vera “comunità internazionale”

In sostanza, ciò che ci dice è che la Federazione Russa si allinea inequivocabilmente con la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica del Sud Globale/Maggioranza Globale – dal mondo arabo a tutte le terre dell’Islam e oltre, in Africa, Asia e America Latina.

È interessante notare che Mosca si allinea alle analisi del leader iraniano Ayatollah Khamenei – un partner strategico della Russia – e del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, nel suo discorso infuocato, sofisticato e dai toni Sun-Tzu di venerdì scorso, sul “ragno che sta cercando di impigliare l’intero pianeta e il mondo intero nella sua ragnatela”.

Reperto B della posizione ufficiale della Russia, in particolare su Israele-Palestina, è arrivata dal rappresentante permanente della Russia presso le Nazioni Unite, Vasily Nebenzya, in occasione di una sessione speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla Palestina, due giorni dopo il discorso di Putin.

Nebenzya ha chiarito in modo inequivocabile che Israele, in quanto potenza occupante, non ha “il diritto all’autodifesa” – un fatto supportato da una sentenza consultiva della Corte internazionale delle Nazioni Unite del 2004.

All’epoca, la Corte aveva anche stabilito, con un voto giudiziario di 14 su 15, che la costruzione da parte di Israele di un massiccio muro nella Palestina occupata, compresa Gerusalemme Est, era contraria al diritto internazionale.

La Nebenzya, in termini giuridici, ha annullato l’argomento del “diritto all’autodifesa”, sempre evocato, brandito da Tel Aviv e dall’intera galassia NATO. L’Egemone, protettore di Tel Aviv, ha recentemente posto il veto alla bozza umanitaria del Brasile per il Consiglio di Sicurezza dell’ONU solo perché non menzionava il “diritto all’autodifesa” di Israele.

Pur sottolineando che Mosca riconosce il diritto di Israele a garantire la propria sicurezza, Nebenzya ha sottolineato che questo diritto “potrebbe essere pienamente garantito solo in caso di una risoluzione equa del problema palestinese basata su risoluzioni riconosciute del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.

I dati dimostrano che Israele non rispetta alcuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla Palestina…

continua qui

 

 

Alessandro Orsini – Potenze coloniali e “valori occidentali”

L’esercito israeliano bombarda Gaza non per difendere Israele. Non date ascolto alle stupidaggini di certi conduttori televisivi italiani.

L’esercito israeliano bombarda Gaza per poter continuare a occupare i territori palestinesi. Bombarda Gaza per continuare a rubare la terra, il cibo e l’acqua dei palestinesi. L’esercito israeliano bombarda Gaza per impedire che nasca uno Stato palestinese che si riprenda il maltolto. Israele in Palestina è come la Francia in Algeria negli anni Cinquanta.

E’ soltanto una potenza coloniale brutale senza consensi e, dunque, con una popolazione dominata e disumanizzata in rivolta permanente. Certe chiacchiere ridicole sui valori occidentali di certi ridicoli conduttori televisivi servono soltanto a nascondere questo fatto autoevidente. Essere un soldato israeliano oggi è la più grande vergogna del mondo perché l’esercito israeliano è al servizio di una causa vergognosa.

da qui

 

 

Ministro israeliano: è in corso la “Nakba di Gaza”, i palestinesi saranno sfollati

In un’intervista con il canale israeliano N12, a Dichter è stato chiesto se le immagini dei residenti nel nord di Gaza che evacuano il sud sotto gli ordini dell’esercito israeliano fossero paragonabili alle immagini della Nakba. Ha detto: “Stiamo ora lanciando la Nakba di Gaza. Da un punto di vista operativo, non c’è modo di intraprendere una guerra – come l’IDF cerca di fare a Gaza – con masse  di persone tra carri armati e soldati”.

Durante la Nakba, che in arabo significa “catastrofe”, centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati via dalla loro terra ed espropriati nella guerra arabo-israeliana del 1948. Quei profughi, assieme ai loro discendenti, oggi sono oltre 5 milioni, sparsi in campi profughi in Libano, Giordania e Siria e nei Territori palestinesi occupati nel 1967 da Israele (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est).

Quando in seguito è stato chiesto a Dichter se alla popolazione di Gaza sarà permesso di tornare alle proprie case, ha risposto: “Non so come andrà a finire, dato che Gaza City costituisce un terzo della Striscia, metà della popolazione del territorio”.

Venerdì, in una conferenza stampa, al premier Netanyahu è stato chiesto se sostiene il reinsediamento israeliano a Gaza dopo la guerra. “No, non credo. Ho detto che voglio il pieno controllo di sicurezza”, ha detto. “Gaza deve essere smilitarizzata. Non penso che [il reinsediamento] sia un obiettivo realistico, lo dico chiaramente”.

Oggi, durante un’apparizione al programma Meet the Press della NBC News, Netanyahu ha dichiarato “Gaza deve essere smilitarizzata e deradicalizzata. E penso che finora non abbiamo visto alcuna forza palestinese, compresa la Palestina Autorità che è in grado di farlo.” Ha aggiunto: “Insegnano ai loro figli a odiare Israele. Non combattono i terroristi. Stanno pagando per gli omicidi. Ciò significa che più terroristi palestinesi uccidono ebrei, più vengono pagati e ad oggi, 36 giorni dopo la peggiore ferocia perpetrata sul popolo ebraico dopo l’Olocausto, il presidente dell’Autorità Palestinese si rifiuta di condannare questa ferocia”.

“Abbiamo bisogno di un’autorità diversa. Abbiamo bisogno di un’amministrazione diversa”, ha detto Netanyahu, senza però specificare chi sarebbe.

Nel frattempo, negli Stati Uniti, politici e attivisti progressisti hanno chiesto al presidente Joe Biden di sostenere un cessate il fuoco a Gaza nel tentativo di salvare vite civili. Tuttavia, Biden e Netanyahu hanno entrambi mantenuto la loro posizione secondo cui un cessate il fuoco non sarebbe stato preso in considerazione fino a quando Hamas non avesse restituito oltre 200 ostaggi che avevano preso nel loro attacco a sorpresa. Biden ha anche richiesto 14,3 miliardi di dollari di finanziamenti per Israele in un pacchetto di aiuti di quasi 106 miliardi di dollari, che include, tra le altre cose, finanziamenti per la guerra dell’Ucraina con la Russia.

da qui

 

 

Gli incendi causati dal fosforo bianco stanno distruggendo le foreste e gli uliveti al confine con il Libano, con conseguenze drammatiche a breve e lungo termine – Suzanne Baaklini

In appena un mese, circa 462 ettari (4,6 milioni di m²) di terreno boschivo, “tra cui pini e querce, nonché circa 20 ettari di uliveti secolari” sono andati letteralmente in fumo al confine meridionale del Paese a causa dei bombardamenti israeliani, ha detto lunedì a OLJ Georges Mitri, direttore del programma per il territorio e le risorse naturali presso l’Università di Balamand. Dopo la ripresa delle tensioni tra Hezbollah e l’esercito israeliano, quest’ultimo non ha esitato a utilizzare il fosforo bianco per bruciare foreste e campi nelle zone di confine. Una sostanza il cui utilizzo contro civili e aree civili è vietato nel panorama internazionale dalla Convenzione di Ginevra del 1980 – non firmata da Tel Aviv – per i suoi effetti devastanti sull’uomo (ustioni intense), come sugli altri esseri viventi e sull’ambiente.

“Per quanto riguarda le foreste, non abbiamo perso solo querce e pini, ma anche altri alberi caratteristici della regione, come i terebinti”, afferma Hicham Younès, presidente di Green Southerners, un’organizzazione molto attiva nel sud del Paese, ma senza affiliazione politica. E aggiunge che anche le specie animali hanno sofferto: “Le foreste di questa regione sono un habitat per molte specie come lo sciacallo dorato, molto attivo intorno a Rmeich. Avevamo anche avvistato in questa regione numerose colonie di iraci delle rocce, piccoli roditori che potrebbero essere stati decimati dal fosforo anche nelle loro tane. Anche i tassi devono essere stati colpiti.» Inoltre, il fosforo bianco rimane nell’aria per un certo tempo e rappresenta quindi un pericolo per gli uccelli migratori, che attraversano il cielo libanese in questo periodo, per non parlare degli insetti, le cui varietà sono molto ricche in queste regioni.

Rigenerazione più lenta

Gli incendi provocati dalle bombe al fosforo sono molto intensi e rallentano la rigenerazione delle zone bruciate, sottolinea Georges Mitri. “Si tratta di incendi molto difficili da spegnere, perché si accendono in più punti contemporaneamente”, spiega l’esperto. “Ciò che aggrava il fenomeno è che dopo lunghi mesi di siccità siamo ancora nel pieno della stagione degli incendi,con le prime piogge che non sono bastate a inumidire la terra”, aggiunge…

continua qui

 

 

scrive Farah Nabulsi

Ciao INVICTAPALESTINA,

Alla luce degli eventi devastanti attualmente in corso a Gaza,

mi sento obbligato a condividere un lavoro che, nonostante sia stato creato anni fa,

risuona in modo inquietante con la situazione attuale.

Realizzato nel 2014 e pubblicato nel 2017, questo cortometraggio di 13 minuti

è stata la mia risposta personale a un passato assalto israeliano a Gaza.

 

Oggi offre una prospettiva accessibile, umanizzante e profondamente emotiva

sull’esperienza palestinese a Gaza, catturando l’essenza di un incubo ricorrente.

 

Perché condividere adesso?

 

L’immediatezza della situazione attuale e la chiara disumanizzazione dei palestinesi

a cui stiamo assistendo richiedono la nostra attenzione e azione.

Mentre il mio lungometraggio “The Teacher” deve ancora essere distribuito al pubblico,

“The Nightmare of Gaza” è un toccante promemoria dell’urgenza odierna.

 

Il cortometraggio è un mezzo per aiutare le persone di tutto il mondo a comprendere

e connettersi, ma trovano troppo travolgenti le dure immagini dell’attuale assalto e

non hanno potuto vederle affatto.

 

Offre una finestra astratta ma profondamente emotiva sull’esperienza palestinese.

 

Unisciti a me Ho appena ripubblicato questo film, gratuitamente, e ti invito a guardarlo,

condividerlo ampiamente e utilizzarlo come strumento di difesa e consapevolezza.

 

Che si tratti di ospitare una proiezione online o offline con la tua community,

di condividerla sui social media, di inviarla a rappresentanti o

di utilizzarla per iniziative/eventi di raccolta fondi, i tuoi sforzi possono fare la differenza.

 

In tempi come questi, ogni voce, ogni condivisione e ogni proiezione possono

far luce sul realtà devastante affrontata dai palestinesi.

 

Grazie per il vostro incrollabile sostegno e impegno.

 

Farah Nabulsi Regista nominata all’Oscar e vincitrice del premio BAFTA

Farah Nabulsi è nata e cresciuta a Londra da madre palestinese e padre palestinese-egiziano.

Nel 2013, a seguito di un lungo viaggio in Palestina, decide di rivoluzionare completamente la sua vita

e di iniziare a raccontare le storie del suo popolo attraverso progetti cinematografici

grazie anche alla casa di produzione non profit, Native Liberty.

Nello stesso anno lancia il sito Ocean of Injustice, una piattaforma educativa

in lingua inglese con notizie provenienti dai territori occupati.

Nel 2021 il cortometraggio “The Present” riceve il Premio BAFTA

per il Miglior Cortometraggio e la candidatura agli oscar.

 

 

un corto di Nora Alsharif:

 

 

Les horreurs du Hamas: qui a ouvert la boîte de Pandore? – Alain Alain

En occultant sa responsabilité, la communauté internationale incapable de régler le conflit israélo-palestinien qu’elle a provoqué il y a 70 ans, s’offusque des horreurs atteintes aujourd’hui.

 

Samedi 7 octobre 2023, le Hamas attaque la population civile Israélienne. Même en temps de guerre les pires belligérants se doivent d’épargner les civils. C’est du terrorisme. Et du pire.
Le terrorisme broie des personnes innocentes, inoffensives et désarmées. C’est un des actes les plus horribles, ignominieux, atroces et pour cela il est injustifiable, irrémissible.
Au demeurant, la guerre, même si elle ne tuait que des militaires, est aussi monstrueuse et indigne de l’humanité.

Tous nos justes et courageux journalistes outrés, politiciens presque unanimement révoltés, dirigeants du monde libre indignés, intellectuels offusqués, religieux choqués, font bien de condamner, de vilipender ces odieux terroristes qui prétendent agir au nom d’un peuple…
Mais, qu’est-ce qu’ils ont fait tous ceux là depuis 70 ans pour que ça n’arrive pas, ça n’arrive plus ?
Albert Einstein nous avait prévenus : « Le monde est dangereux à vivre ! Non pas tant à cause de ceux qui font le mal, mais à cause de ceux qui regardent et laissent faire. »
Ils ont laissés faire.

Voilà la réalité historique, voilà leur culpabilité.

“ Le Sionisme : la dé-classification progressive des archives change le regard des historiens sur les Processus associés à sa mise en œuvre. ”
J.P. Ciron, Agoravox, Novembre 2018.

« Theodor Herzl a été reçu, début 1903, par le British Colonial Secretary Joseph Chamberlain, peu après les pogroms de Kishinev, en Russie. L’objectif était de trouver d’urgence un refuge pour les Juifs d’Europe qui se trouvaient en danger imminent face à l’antisémitisme violent.
Joseph Chamberlain proposa un territoire de quelques 15 000 km2 au climat tempéré situé dans l’actuel Kenya. C’était le ‘Plan Ouganda’ Uasin Gishu.
Au septième Congrès Sioniste (1905), le ‘Plan Ouganda’ fut définitivement rejeté. Le Foyer National Juif ne pouvait donc être que la ‘Terre d’Israël’. Cependant, une partie des participants n’ont pas accepté la décision du Congrès, et ont quitté le mouvement sioniste. Zangwill en faisait partie.
Plus tard, Theodor Herzl écrira dans sa correspondance : ” Mon cœur est pour Sion, ma raison pour l’Ouganda. ” »

Comment les Britanniques et les sionistes ont provoqué l’exode de 120 000 Juifs d’Iraq après 1948.
Écrit par Naeim Giladi. (1926 – 2010), écrivain né en Irak, 
dans The Link, 1998.
« Vingtième Congrès Sioniste, Zurich, 3-16 août 1937, déclaration de Rabbi Meir Berlin (Meir Bar-Ilan, 1880-1949) :
“ Nous devrions être prêts à accepter des conditions difficiles et même la guerre si c’est ce qui est nécessaire pour hériter de l’intégralité de la Biblique Eretz Israël (La Terre d’Israël en hébreu). (…) Nous pensons que Eretz Israël nous appartient, dans sa totalité. ”
Et celle de David Ben Gourion, leader sioniste, lors de ce congrès :
“ Tout État juif proposé serait obligé de déplacer la population arabe hors de la zone, si possible de son libre arbitre, ou sinon sous la contrainte. ” »
Ben Gourion était laïc. Il est étonnant qu’il parle d’un État juif.

Journal de David Ben Gourion, 1947-1948, Les Secrets de la Création de l’État d’Israël.
Allan Kaval – Les Clés du Moyen Orient, article 13 décembre 2012.

« Ben Gourion comprend (…) que “ la défaite allemande et la découverte par l’opinion publique internationale des horreurs de la Shoah donnent au mouvement sioniste une occasion historique d’atteindre son objectif ultime : la fondation d’un État juif en Palestine. ”
Il mène alors une triple action, à la fois diplomatique (assistance de l’Union Soviétique à l’ONU), politique (unification des mouvements sionistes) et militaire (livraison de matériel militaire de Tchécoslovaquie) dont les archives présentées témoignent. »
En réalité la création d’un État Israélien mais pas d’un État juif ! Un État pour les israéliens pas pour les religieux seulement.

HISTOIRE DU MONDE
J.M. Roberts ; O.A. Westad.
Éditions Perrin, 2013.

« Dès cette époque (1946), la question du futur des terres arabes est brouillée par la décision des Juifs d’établir un État national en Palestine, par la force. (…)
En 1949, le gouvernement israélien déplace son siège à Jérusalem, capitale du nouvel État Juif. La moitié de la ville est aux mains des troupes jordaniennes, mais c’est là un moindre problème. Grâce au soutien des Américains et des Soviétiques et de l’argent privé, les Juifs sont parvenus à établir un État-nation dont rien ne pouvait laisser présager l’apparition vingt-cinq ans auparavant. (…)
En 1948-1949, les actions des sionistes extrémistes et des soldats israéliens provoquent l’exode de nombreux Arabes. Ils sont bientôt 750 000 réfugiés dans des camps en Jordanie et en Égypte, problème social et économique, fardeau pesant sur la conscience du monde et potentielle arme militaire et diplomatique pour les nationalistes arabes. »

“ Comment Israël expulsa les Palestiniens (1947 – 1949) ”,
Alternatives International – 2007 – Edition de l’Atelier,
Dominique Vidal journaliste, diplômé de philosophie et d’histoire ;
Sébastien Boussois, docteur en sciences politiques.

« Ces Palestiniens qu’on expulse, on fait en même temps main basse sur leurs biens. (…) La loi de décembre 1948 sur les ” propriétés abandonnées “, destinée à rendre possible la saisie des biens de toute personne ” absente “, en légalise la confiscation. »

Article : “ Not Again ”,
The Guardian 30 Sept 2002,
Arundhati ROY.

« En 1969, la première ministre Golda Meir disait ” Les Palestiniens n’existent pas. ”
Son successeur Levi Eshkol disait : ” Les Palestiniens c’est quoi ? Quand je suis venu ici [en Palestine] il y avait 250 000 non-Juifs, principalement Arabes et Bédouins. C’était le désert, moins que sous-développé. Rien.”
Le premier ministre Menahem Begin appelait les Palestiniens ” bêtes à deux pattes. ”
Le premier ministre Yizhak Shamir disait d’eux qu’ils étaient des ” sauterelles ” qui pouvaient être écrasées. »

Article dans Confluences Méditerranée, 2005.
Sébastien Boussois, docteur en sciences politiques.

« Benny Morris, (historien Israélien, professeur d’histoire de l’université de Bersheva) donnait le 9 janvier 2004, cette interview recueillie par Ari Shavit journaliste au quotidien Haaretz :
” Ben Gourion avait raison (…) Sans le déracinement des Palestiniens, un État juif ne serait pas né ici. (…)
Je pense qu’il a commis une grave erreur historique en 1948 (…).
Puisqu’il avait commencé à les expulser, il aurait peut-être dû finir le travail. (…) S’il avait expulsé tout le monde (…), il aurait assuré la stabilité de l’État d’Israël pour des générations. (…)
Si l’histoire se termine mal pour les Juifs, ce sera parce que Ben Gourion n’a pas fait un transfert complet en 1948. (…)
Si vous me demandez si je soutiens le transfert et l’expulsion des Arabes de la Cisjordanie, de Gaza et peut-être même de Galilée et du Triangle, je dis : pas en ce moment. (…)
Dans des circonstances apocalyptiques, qui pourraient se présenter dans cinq ou dix ans, je pourrais accepter des causes d’expulsion. Elles seraient même indispensables “. »

Par Ben Sales
28 mars 2019, 19:43.
The times of Israël.

« En 2015, Netanyahu s’est de nouveau prononcé contre un État palestinien.
“ Quiconque veut aujourd’hui créer un État palestinien et se retirer des territoires donne la possibilité à l’islam radical d’attaquer l’État d’Israël ”, avait-il alors déclaré au site d’information israélien NRG. Quand on lui a demandé si cela signifiait qu’un État palestinien ne serait pas créé sous sa direction, il a répondu : “ En effet”. »

Par AFP et Times of Israel Staff
7 avril 2019, 19:34.

« Netanyahu a déclaré samedi soir vouloir annexer des implantations israéliennes en Cisjordanie en cas de réélection. “ J’appliquerai la souveraineté (israélienne) sans faire de distinction entre les (plus grands) blocs d’implantations et les implantations isolées ”, a-t-il affirmé sur la Douzième chaîne de télévision israélienne. »

Justes et courageux journalistes outrés, politiciens presque unanimement révoltés, dirigeants du monde libre indignés, intellectuels offusqués, religieux choqués, vous n’avez jamais rien dit, rien fait pour empêcher sinon arrêter les déportations, les spoliations, les annexions qu’annonçaient tous ces dirigeants israéliens depuis le début ?
Les annexions israéliennes sont-elles plus tolérables que celle de la Russie en Ukraine, l’Azerbaïdjan dans le Haut Karabakh, les nazis en Autriche.
Aujourd’hui infâmes, vous vous scandalisez de l’horrible catastrophe que toutes ces forfaitures, votre silence et votre inaction ont laissé advenir une fois de plus.

 

Sans avoir sollicité l’avis et encore moins l’accord des arabes qui y vivaient, les Nations Unies, par la résolution 181 (II) du 29 novembre 1947 dans sa Partie 2, procède à la partition de la Palestine en deux États et en définit les frontières.
C’étaient deux États sans moyens, sans ressources, ayant besoin pour se construire d’infrastructure, d’investissement, de technologie, etc. Les grandes puissances qui ont voulu cette implantation, avaient le pouvoir d’empêcher le conflit en partageant avec la Palestine l’aide apportée qu’à Israël.
Ils ne l’ont pas fait. L’issue était inéluctable.

Pour finir.
Écœurant la récupération politicienne empressée, ignoble de la première ministre française, par exemple !
« “ L’antisionisme ” de La France insoumise est “ parfois aussi une façon de masquer une forme d’antisémitisme ”, a lâché Elisabeth Borne, au micro de BFMTV. »
Les martyrs israéliens la remercient pour cette urgente mise au point qui leur fait tellement chaud au cœur.

Madame Borne ne sait même pas ce qu’est l’antisionisme.
Anti sionistes : des ultra-orthodoxes juifs, les Satmar, les Toldot Aharon et plus particulièrement les Neturei Karta, des organisations sociale-démocrates, socialistes et communistes du Yiddishland, le Bund (Union générale des travailleurs juifs), le Parti social-démocrate juif de Galicie, le Folksgrupe de Russie, en Pologne, le Folkspartei (en yiddish : Yidishe folkspartay), l’Alliance israélite universelle, organisation française, républicaine et patriote.
Ces antisionistes juifs et israéliens sont antisémites, alors ! Selon l’expertise de madame Borne.
Elle ne sait pas non plus ce qu’est le sionisme : « La Résolution 3379 de l’Assemblée générale des Nations unies en 1974 considère que “ le sionisme est une forme de racisme et de discrimination raciale ”. »
Madame Borne répète doctement mais niaisement ce qu’elle a entendu dire ou ce qu’on lui a dit de dire.

Et tous les autres se précipitent dans tous les média à longueur de temps.
Pour tenter de ramener la paix sans doute.

da qui

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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