Pallavolo e rivoluzione

Un gruppo di donne straordinarie da cui dobbiamo saper imparare. Quelle del volley ma anche un’altra italiana, una certa Francesca…

di Red Driver


E’ lecito in un blog come questo intrecciare teoria politica e sport? Anche se possiamo definirla una modalità “eretica” ve la propongo, perché ci sono lezioni straordinarie che si possono trarre dalle donne che sono appena state protagoniste dei mondiali di pallavolo.

Sono uscite vincitrici: erano le più forti?

Difficile dirlo, ma certamente possiamo affermare che si sono rivelate “la squadra” più forte, la squadra che non si riesce a battere.

Le ultime due partite dei campionati mondiali possono essere considerate una vera lezione di vita per chi lotta: loro sono state un gruppo in grado di trascendere la somma degli individui, un gruppo che è molto più della somma delle loro caratteristiche individuali.

Ciò che caratterizza molti atteggiamenti tipici dei gruppi “rivoluzionari” è l’estremo individualismo. Quasi sempre, i peggiori nemici sono considerati i gruppi che si ritrovano a lottare dalla stessa parte con caratteristiche apparentemente similari: anche di fronte allo stesso nemico, gioiamo spesso quando un altro collettivo sbaglia, viene sconfitto, incappa nelle maglie della repressione e viene spontaneo dire “che ti potevi aspettare”. Non partiamo mai dalla idea che la sconfitta di altre persone che sono dalla stessa parte del campo di lotta, ci rende più deboli nei confronti degli avversari e dei nemici.

Ciò che emergeva dai volti, dalle espressioni di tutte era la sensazione che si sentivano tutte in campo, anche quando erano in panchina. Sapevano che il risultato dipendeva dall’impegno di tutte, dal contributo di tutte e non si sentivano sminuite quando erano chiamate a tornare in panchina, perché, certamente, sono abituate a sapere che anche l’allenatore con il suo sguardo esterno, può aiutare nello sforzo, aiutare a distribuire lo sforzo, conoscendo in modo evidentemente impeccabile il momento in cui ognuna poteva contribuire a produrre un’altra prodezza, poteva dare un altro piccolo contributo utile a raggiungere l’obiettivo.

Una cosa è certa: i cambi erano vissuti come necessari per tutto il gruppo delle giocatrici e qualche volta forse seguivano una logica destinata a dare un momento di fiato alle giocatrici più sotto pressione e chi entrava non faceva mai sentire un vuoto.

La pallavolo è un gioco a somma zero in cui o si vince o si perde: dall’altro lato del campo c’erano donne con una voglia di vincere non inferiore e nell’ultimo set è sembrato sempre che fossimo sul punto di non farcela: ma non si è mai smesso di lottare, i volti erano distesi e sempre pieni della gioia di lottare insieme e anche nei momenti più duri c’erano sempre dei sorrisi e la convinzione che al prossimo punto si sarebbe fatto meglio.

In semifinale ad un certo punto Fahr si rivolge con rabbia ad una compagna che non le permette di recuperare il pallone, ma è chiaro che non c’è animosità e che la ragione è quella di far funzionare meglio la squadra, di essere più efficaci. Sanno, dentro sé stesse, che stanno lottando per lo stesso obiettivo.

Danesi, la capitana, non è la donna più intervistata e neppure Andropova e Fahr sono le donne più “visibili” sui media anche se sono loro nella fase decisiva della finale a rendere impossibile superare i loro muri anche per le avversarie più forti. Neppure la Giovannini che non sbaglia nessuna delle battute che portano la squadra alla vittoria è sotto i riflettori. Eppure loro non sono preoccupate e quando, il giorno prima, vengono tutte intervistate dopo la semifinale, mostrano una gioia che non viene scalfita dalla preferenze che tributano i mass-media sempre in modo non equanime.

E’ come se ognuna fosse parte di una consapevolezza che non viene scalfita dalla ignoranza che le circonda: sanno chi sono, ognuna di loro lo sa, al di là di ogni apparenza e di ogni mancanza di tatto.

Qui non vengono citate le donne più blasonate, perché chi scrive sa che non ce n’è necessità, che le parole di queste righe sono un tributo ad ognuna di loro.

Loro sanno fare e pensare nel modo che noi dovremmo imparare e che non sappiamo fare.

Per fare capire cosa intendo dal punto di vista politico, faccio un esempio che riguarda un’altra donna.

Voglio parlare di Francesca Albanese.

Ben prima dell’analisi delle conseguenze drammatiche che sta subendo per aver svolto un lavoro prezioso per l’intera umanità, mi era capitato di leggere critiche inutili ed immotivate in cui persone di sinistra criticavano l’insufficienza di quanto faceva e fa quotidianamente a tutela della vita umana e della dignità e sono quelle cose che non è possibile capire.

Invece di comprendere ed essere felici che anche nelle stanze dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ci siano persone degne, che cercano di difendere il valore della vita degli esseri umani, si voleva dare un voto insufficiente, secondo una misteriosa scala di valutazione, che il lavoro da lei svolto non era né sovversivo, né rivoluzionario. Non si capisce, talvolta, che non a tutte le persone è richiesto di essere sovversive o rivoluzionarie, ma che ci sono persone che, per il ruolo che hanno, possono svolgere un lavoro utile per la causa della giustizia sociale, contro il colonialismo ed il razzismo che sono alla base del genocidio di un popolo.

La sinistra dovrebbe imparare da queste donne che si sono battute sapendo perfettamente che ognuna ha un ruolo diverso, ma che tutte, anche quelle che non sono salite in barricata durante le partite neppure per un minuto, sono importanti ed essenziali per la forza del collettivo.

Mi viene spontaneo dire grazie per averle potute ammirare e per le riflessioni che mi sono state suscitate.

LA VIGNETTA è di Mauro Biani.

Enrico Semprini

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