Più che danza (Lavori in corso)

di Susanna Sinigaglia

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La rassegna di danza e arti performative «Più che danza» che si è svolta dal 28 ottobre al 3 novembre negli spazi della Triennale di Milano con il patrocinio della Cariplo, ideata e diretta da Franca Ferrari e organizzata dal Crt, è stata una piacevole sorpresa. Arrivata alla terza edizione, devo confessare che non l’avevo ancora frequentata, distratta da festival più noti e prestigiosi; invece la rassegna ha peculiarità proprie: innanzitutto rivolge un’attenzione specifica agli artisti che lavorano in Lombardia, inoltre mostra una sensibilità lodevole verso la ricerca, verso opere ancora in evoluzione ma per cui gli artisti, arrivati a un certo punto del loro percorso, sentono la necessità di un primo confronto con il pubblico per proseguire nella loro elaborazione. Questo approccio mi sembra l’elemento più qualificante della rassegna. Degli spettacoli in programma ho potuto vederne solo alcuni: «Studio per un’amante precaria» di e con Raffaella Agate; «Hide & Seek» di Eleonora Soricaro, con Valeria Dalle Mese ed Eleonora Soricaro; «DEM/ONE» di Marina Burdinskaya, con Marina Burdinskaya e Angela Di Meo; «Why Are We So F***ing Dramatic?» di e con Francesca Penzo & Tamar Grosz; «Light Prospectus» di  Res Extensa, con Elisa Barucchieri; «Intimacy» di e con Marcella Fanzaga; «Tu, Mio» della Compagnia TeatRing, con Ettore Distasio e Marianna Esposito. Altra particolarità della rassegna, l’uso degli spazi: infatti oltre che al teatro della Triennale, gli artisti disponevano della Mini Creative Area, una sala in cui ci si poteva ritagliare uno spazio a mo’ di palcoscenico ma a struttura variabile, e il pubblico disporsi su sedie davanti alla scena o in circolo o anche in ordine sparso, secondo le esigenze e la struttura della performance. Infine in una sala ancora diversa, in cui – oltretutto – si offriva un piccolo rinfresco fra uno spettacolo e l’altro, veniva proiettato in loop un video bello e interessante, una rassegna di videodanza itinerante che Coorpi e Cro.me curano nell’ambito del progetto R.I.Si.Co. (Rete interattiva per sistemi coreografici in partnership con Perypezye Urbane). Per maggiori informazioni, vedi al link http://www.coorpi.org/article.php/20161019111906848.

 

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«Studio per un’amante precaria». Conosco già da qualche tempo il lavoro di Raffaella Agate, caratterizzato da una forte vena ironica, con sfumature a volte grottesche, unita alla ricerca sull’integrazione della danza con la parola, un testo. In questo lavoro, comunque in fase di costruzione, forse Raffaella si è fatta prendere un po’ troppo la mano dal testo a discapito del linguaggio del corpo soprattutto in certi passaggi e perciò dove la parola prevale il gesto è impacciato. Della performance – che vuole interpretare una delle tante follie del nostro tempo, l’alienazione che rischia di travolgere l’individuo aggrappato ai Social network – si coglie tuttavia l’originalità; in particolare, è una sua invenzione l’uso come coprotagonista dell’Inflatable man, il pupazzo di plastica gonfiabile con cui “l’amante precaria” intreccia il proprio corpo in un appassionato tango. Simile immagine e l’affabulazione della donna con “l’uomo dei suoi sogni”, simbolo dell’incapacità di relazionarsi degli esseri umani nella nostra contemporaneità, lasciano intravede la direzione che potrebbe imboccare la ricerca del lavoro performativo, qui ancora solo accennata, sulla disarticolazione del gesto e la disgregazione della parola.

 

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«Hide & Seek» (ovvero più prosaicamente, “nascondino”) è un lavoro sul gioco: le due giovani interpreti iniziano la performance, una di fronte all’altra, con gesti lenti e studiati del braccio e della mano che riconosciamo a un certo punto – un po’ sorpresi – essere i segni della morra cinese. La performance sembrerebbe rimandare un’immagine di gaiezza e spensieratezza, in cui si alternano momenti di concordia e bisticcio mentre la lunga treccia di entrambe le interpreti saltella al ritmo dei loro volteggi. L’interrogativo, tuttavia, su quale sia il gioco ci viene suscitato dalla scelta felice, ma un po’ inquietante, dei brani musicali: da «Les enfants s’ennuient le dimanche» di Charles Trenet, si passa al ritmo incalzante di «Duel» di Marcel Dettmann, di «Tiny Sticks» degli Esg e infine a quello piuttosto angoscioso di «O Willow Waly» nella versione di Jasmine Sanders-Socratous. Perciò sulla spinta del dubbio sul risvolto di questo lavoro, dopo una breve indagine si scopre che «Hide and Seek» è una canzone sempre interpretata da Jasmine Sanders-Socratous e altrettanto sconcertante di «O Willow Waly». A questo punto, il giudizio sul lavoro di Eleonora Soricaro cambia decisamente. Non è la performance carina e fresca sulla spensieratezza del gioco e nello stesso tempo sulla sua prerogativa d’essere «una forma attiva di apprendimento, per lo più attraverso combinazioni di movimenti che simulano situazioni, che permetterà all’individuo di comprendere la società e partecipare attivamente ai suoi meccanismi» come recita la sua presentazione alla rassegna. Sembra mostrare piuttosto, sotto la superficie, lo smarrimento di chi nel gioco così come viene rappresentato non trova più il bandolo della matassa, la strada per la ricerca della felicità. Se questa chiave di lettura fosse corretta, si può prevedere che ci sarà ancora un lungo lavoro da sviluppare intorno a questa performance.

 

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«DEM/ONE» ha riferimenti dichiaratamente più ambiziosi, s’ispira al quadro del pittore russo Vrubel1 intitolato «Demone caduto». I corpi avviluppati delle due danzatrici disegnano strane forme fra il mondo animale e vegetale (attraverso la tecnica della contact dance) che rimandano, nelle posture e nei colori del costume da loro indossato, alle immagini del quadro2. Il lavoro – a terra – si svolge sul proscenio del teatro della Triennale, scelta che di primo acchito appare non pienamente adatta visto che la performance s’ispira a un quadro e forse sarebbe stato meglio vederla nella Mini Creative Area, spazio più flessibile e più somigliante a quello di una galleria. Invece ripensandoci, la visione della performance sul proscenio ha un effetto più straniante, stabilisce una distanza con gli spettatori che non ci sarebbe stata nello spazio più raccolto della MCA. Infatti l’immagine dipinta dalle interpreti esige la distanza per essere vista nella sua mutevolezza che ricorda la muta della pelle del serpente, e non deve in nessun caso rimandare a qualcosa di familiare. Il viso delle due performer è sempre coperto o semicoperto, quando assumono una posizione più eretta sono sempre di spalle e in particolare una delle due mostra una schiena talmente plasmata dal lavoro sul corpo che non si riesce a distinguerne il genere, viene il dubbio che la massa muscolare di quella schiena appartenga a un tipo più maschile che femminile; sfida i nostri stereotipi.

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«Why Are We So F***ing Dramatic?» è un lavoro divertente e ironico sull’evoluzione della donna, fra cicli imposti dalla sua natura corporea e quelli dettati dal mondo circostante. In questo caso, il linguaggio della danza è accompagnato da una voce fuori campo che prima definisce “l’esemplare” di donna rappresentato da ognuna delle performer e poi scandisce descrivendoli i vari momenti più o meno tragicomici che si avvicendano nella quotidianità della “donna moderna”.

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«Why Are We So F***ing Dramatic?» è un lavoro divertente e ironico sull’evoluzione della donna, fra cicli imposti dalla sua natura corporea e quelli dettati dal mondo circostante. In questo caso, il linguaggio della danza è accompagnato da una voce fuori campo che prima definisce “l’esemplare” di donna rappresentato da ognuna delle performer e poi scandisce descrivendoli i vari momenti più o meno tragicomici che si avvicendano nella quotidianità della “donna moderna”.

 

«Light Prospectus», un assolo di 40 minuti, mi è sembrato avere troppe pretese. Se l’immagine della donna dalle forme scultoree – fasciata da una lunga guaina di materiale luccicante e con strisce dello stesso materiale sparse qua e là sul busto – che esprime tormento nel suo gesto ripetitivo, ossessivo, di stropicciarsi l’abito e ondeggiare da destra a sinistra e viceversa, ha sullo spettatore un effetto fascinatorio alla lunga la ripetitività del gesto perde la funzione di accumulo di senso e diventa ahimè un accumulo di noia per il pubblico. La rottura dell’incanto si ha quando l’interprete ha un’improvvisa caduta della tensione forse inevitabile se lo stesso gesto dura per troppo tempo. La performance alterna 4 momenti in cui l’interprete cambia d’abito e in cui si potrebbe leggere una modifica, anche interessante, di stato alla ricerca di un sollievo che non viene. Ma ogni quadro non ha la forza di aggiungere qualcosa di nuovo al precedente proprio perché, credo, ogni volta troppo insistito è il gesto che lo vuole rappresentare. Peccato, sembra un’occasione sprecata.

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Tutt’altra atmosfera si respira invece in «Intimacy», con Marcella Fanzaga che si muove in un cerchio delimitato da vecchie foto – antiche memorie – seguendo la sollecitazione di motivi musicali incisi su 45 giri che il pubblico è invitato a scegliere. L’idea, singolare, come nei casi già citati sopra ha però bisogno di un’ulteriore messa a punto. Per esempio, a mio parere, all’inizio il pubblico, per trarre spunto e indicazioni su quale disco mettere sul grammofono, dovrebbe avere il tempo di guardare le foto e i titoli dei pezzi musicali a sua disposizione. In questo modo, si potrebbe realizzare con la performer un’interazione creativa e stimolante in grado di portare lontano.

Su «Tu, Mio», uno spettacolo teatrale vero e proprio tratto dal romanzo omonimo di Erri De Luca, non vorrei soffermarmi troppo. Non mi è piaciuto e, all’interno di questa rassegna, mi è sembrato davvero fuori luogo e fuori tema. E anche un po’ grottesca la scelta, nell’ambito dell’ennesimo dramma che parla di Shoà, di attori che dovrebbero interpretare un ragazzo di 16 anni e una ragazza di 19 mentre hanno palesemente superato quest’età da parecchio tempo… Se i due interpreti fossero stati senza età, la loro storia avrebbe forse potuto assumere un carattere simbolico di tutt’altra portata.

In ogni modo, malgrado questa che per me è stata una caduta, il giudizio complessivo sulla rassegna resta positivo e ci si augura che prosegua sulla strada dell’apertura alla ricerca e alla sperimentazione.

 

1 Su Vrubel, vedi al link https://it.wikipedia.org/wiki/Michail_Aleksandrovi%C4%8D_Vrubel‘.

Susanna Sinigaglia
Non mi piace molto parlare in prima persona; dire “io sono”, “io faccio” questo e quello ecc. ma per accontentare gli amici-compagni della Bottega, mi piego.
Quindi , sono nata ad Ancona e amo il mare ma sto a Milano da tutta una vita e non so se abiterei da qualsiasi altra parte. M’impegno su vari fronti (la questione Israele-Palestina con tutte le sue ricadute, ma anche per la difesa dell’ambiente); lavoro da anni a un progetto di scrittura e a uno artistico con successi alterni. È la passione per la ricerca che ha nutrito i miei progetti.

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