Quale Europa?

                   Emozioni e riflessioni attorno a «La civiltà della Dea», due volumi di Marija Gimbutas

di Sergio Mambrini

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Ci sono voluti più di vent’anni perché una casa editrice virtuosa e attenta rendesse disponibile in lingua italiana l’ultima opera di Marija Gimbutas: una specie di testamento per l’umanità intera.

Ho letto questi due volumi con avidità. Li ho studiati con disciplina. Mi sono immerso nel mondo fantastico delle sue ricerche scientifiche. Uso la parola “fantastico” come iperbole di meraviglioso, incantevole, stupefacente.

Marija deve essere stata una donna molto curiosa e intelligente per riuscire a indagare con tanta pignoleria e precisione il nostro comune antico passato europeo. Ce lo descrive perfettamente nei due volumi dal titolo esplicito: Marija Gimbutas – «La civiltà della Dea – il mondo dell’antica Europa»: volume 1 maggio 2012 / volume 2 giugno 2013, Stampa alternativa/Nuovi Equilibri.

Lo so, sono in ritardo. Avrei dovuto parlarvene già da tanto tempo. Però la mia intenzione non è mai stata quella di farvi una recensione di quest’opera (magari pedante) piuttosto di raccontarvi quali emozioni mi ha provocato, quali pensieri ha fatto affiorare nella mia mente, ravvivando la speranza di un mondo più giusto, libero e solidale, che si era affievolita.

Ma come? direte voi. Uno studio scientifico-archeologico, ricco di grafici, fotografie, disegni, date, tabelle e riferimenti cronologici può provocare ciò che solo un racconto o un romanzo riescono produrre? Ebbene sì! Perché Marija ci conduce per mano nel mondo simbolico dell’inconscio collettivo della nostra comune storia antica.

E che storia! Ci descrive il mondo dell’antica Europa con il suo vero volto pacifico, di popoli talmente intelligenti da inventare la scrittura ben ottomila anni fa, cioè circa duemila anni prima delle famose tavolette cuneiformi d’argilla dei Sumeri. I segni grafici simbolici usati dagli antichi europei furono in relazione esclusiva con l’apparato spirituale del culto complesso e sempre più sublimato della Dea Madre e mai per disciplinare i commerci o per amministrare la cosa comune e il Diritto.

E qui arriviamo al cuore dei ragionamenti della famosa mito-archeologa. La civiltà che lei descrive ha la Grande Madre che guida il popolo a convivere pacificamente in modo egualitario, con una importante spiritualità sempre riferita alla terra e ai sui cicli di vita e di morte e rigenerazione. Una specie d’età dell’oro.

Oltre alla scrittura quelle genti coltivarono diversi grani di cereali, alcune specie di legumi (come lenticchie e ceci), allevarono pecore, capre e bovini. Svilupparono le metodologie tecniche della ceramica e della tessitura. Costruirono città e templi dedicati al culto della Dea Madre, all’interno dei quali compivano il rito della cottura del pane. I loro centri abitati furono totalmente privi di strutture difensive, in quanto superflue, non essendo popoli armati. L’uguaglianza sociale fu espressione della loro irrinunciabile libertà. Il loro governo fu una prerogativa femminile, senza che ci fossero accumuli di ricchezze nelle mani di poche persone e senza necessità di alcun esercito. Quelle antiche persone cooperarono per un interesse comune di condivisione solidaristica, con fiducia reciproca e amore nelle energie dei cicli naturali. In definitiva, il culto della Dea Madre rappresentò la scoperta e lo studio della vita, della morte e della rinascita, che la donna concentrava in se stessa.

Infatti l’agricoltura fu un’invenzione femminile.

Tuttavia, queste società non manifestarono «un sistema autocratico delle donne, magari accompagnato dalla repressione degli uomini. I sessi furono in mutua cooperazione piuttosto che gerarchicamente classificati».

Marija Gimbutas usa il termine “matristica” che include il concetto di “matrilinearità”. Queste società furono poliandriche e i figli che nascevano non conoscevano i rispettivi padri. La donna sposava quanti uomini desiderava e manteneva il controllo dei figli, senza considerare chi fosse il padre. In definitiva la paternità era priva d’importanza. La donna era capostipite della famiglia. Era un punto di riferimento sociale e perciò venerata come Dea. Forse, proprio da quei matrimoni multipli nacque il bisogno della proprietà comune.

In definitiva, questi antichi popoli europei furono molto più di agricoltori che producevano cibo, ma anche commercianti che viaggiavano lontano dalle loro abitazioni. Sapevano costruire edifici, intagliavano la pietra, l’osso, il legno ed erano ceramisti raffinati. Seppero esprimere la loro spiritualità in edifici di culto dove, attraverso la pittura e la scultura, manifestarono artisticamente un simbolismo complesso che mostrava una profonda conoscenza anche della psiche umana. Proprio su queste rappresentazioni innate indagarono Carl Gustav Jung e alcuni altri suoi colleghi.

Può darsi che questi elementi caratteristici abbiano colpito proprio il mio inconscio, o forse siano stati riconosciuti dal mio Sé profondo. In ogni modo hanno messo in moto un meccanismo d’indagine a ritroso nella mia memoria e non ho identificato nessuna epoca storica con tali caratteristiche socio-culturali. Nella mia mente ho visto solo il dominio attribuito al maschio (al re, all’imperatore, al papa….) e la guerra divenire un modo d’agire spontaneo.

Proprio circa seimila anni fa si affermarono la proprietà individuale e quei modelli abitativi che prevedevano i centri abitati in altura, circondati da mura difensive. Quando i pastori patriarcali delle steppe disintegrarono l’antica cultura europea, restammo più soli, meno liberi, addirittura schiavi. Sono convinto che queste profonde trasformazioni lasciarono nelle generazioni successive un sedimento di ribellione, una traccia indelebile nelle coscienze di molti individui, fino al giorni nostri.

E’ vero! Dentro al cuore di centinaia di generazioni è sicuramente sopravvissuta la scintilla di quell’età dell’oro, alla quale molti fecero tributo della propria vita.

«Il mondo è cambiato, ma il tempo delle rivolte non è sopito: rinasce ogni giorno sotto nuove forme. Decidi tu quanto lasciarti interrogare dalle rivolte e dalle passioni del mio tempo, quanto vorrai accantonare, quanto portare con te nel futuro». ( www.pietroingrao.it )

La speranza a cui accennavo all’inizio tuttavia mi sboccia dal pensiero di Primo Levi. Chiosando una sua famosa frase («I sommersi e i salvati»: nell’edizione Einaudi del 2003 è a pag 164) con uno sguardo positivo verso il futuro, anche noi possiamo affermare: «è avvenuto in Europa………. E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire». Con l’augurio che l’antica Europa ritorni a vivere tra noi.

 

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