Roberto, detto Tunana

di Sergio Mambrini

Le cose vanno così. La violenza ti si ritorce contro, nelle forme che non ti aspetti. Ti si appiccica addosso sotto mentite spoglie. Roberto, detto Tunana, l’aveva sperimentato.

Lo conoscevo

dagli anni in cui assassinarono Kennedy, il fratello più vecchio. Fu ammazzato da un fucile italiano. Chissà chi fu quell’operaio che lo assemblò. Sapeva che avrebbe ucciso? Sì, questo lo sapeva, ma sarebbe stato molto tempo dopo e molto lontano. E poi non sarebbe stato proprio lui a sparare.
Roberto, detto Tunana, a quei tempi era un ragazzino sveglio, con una certa propensione alla recitazione. Ricordo quando giocava alle espressioni. Cercate di capire, non a quel complesso di numeri e lettere uniti dai simboli delle operazioni matematiche, ma alle mimiche visive che manifestano esteriormente uno stato d’animo o un sentimento, usando l’espressività degli atteggiamenti e anche per mezzo di smorfie dolorose, boccacce di scherno, occhiacci minacciosi, moine svenevoli, imitazioni degli animali, non con la voce ma proprio con la faccia. Scoppiava sempre a ridere di se stesso. Diventava irresistibile e i suoi sghignazzi ci contagiavano. Tunana era nato per ridere, ne era predisposto come Mozart lo era stato per la musica o Bolt per la corsa. Quando suo padre fu trasferito a Milano, anche lui lo seguì. Il genitore era ferroviere, una sorta di viaggiatore perenne.

Roberto, detto Tunana, scomparve dalla mia vita. Mi capitava di pensare a lui quando vedevo certi personaggi al cinema, come Alberto Sordi. Gli assomigliava soprattutto mentre rideva. Ci fu anche un periodo della mia vita che lo ricordai facendo le sue imitazioni davanti allo specchio. Mi sentivo meno solo, in compagnia dei suoi personaggi. E’ stato così che ho imparato a usare lo specchio per guardare nel passato, come fosse una magica sfera.

Come potete immaginare ho viaggiato e lavorato per costruire il mio futuro. Nel tempo ho conosciuto le violenze, con le quali i governi, per mezzo della forza bruta, hanno gestito il potere e altri soprusi invisibili, impalpabili, che sono, da sempre, distribuiti con i comportamenti, le parole e le scelte produttive. Da queste violenze ho sempre cercato di sottrarmi, senza considerare che fosse una condotta vigliacca, anzi l’ho ritenuta un modo di comportarmi simile alla passione che manifestano certi pesci nuotando controcorrente. Con il passare del tempo cominciai a dimenticare perfino il volto di Tunana, anche se mi restava impresso il suono delle sue risate senza più faccia, ormai. Passarono gli anni, un mucchio di anni. Alcuni amici d’allora ebbero figli, altri morirono. Quando passavo per Milano camminavo guardando in ogni direzione per vedere se riuscivo a ritrovare l’amico di gioventù. Una pia illusione che mi faceva sembrare più in fuga anziché in cerca di qualcuno.

Pochi anni fa, forse cinque o forse sei, non ricordo bene, camminavo lungo le sponde del lago superiore per spaziare con lo sguardo e muovere le gambe, quando arrivai alla Banchina di Belfiore, dove prendeva forma il parco omonimo. Era pomeriggio avanzato e ormai non c’era quasi nessuno in giro. Seduto su una panchina, c’era Tunana. Non seppi che era lui finché non mi parlò. Mi salutò con il mio nome e mi chiese come stavo. Lo guardai meravigliato senza riuscire a capire chi fosse quel donnone grasso e un po’ volgare nel vestire. Mi avvicinai e chiesi chi fosse. «Sono io, Tunana».

«Chi, Roberto?» dissi.

Lei fece una smorfia d’assenso e rise. Allora capii l’errore percettivo. Era Tunana, anche se vestiva come una donna ambigua. Mi sedetti accanto e ci guardammo con le nostre vecchie espressioni mimiche. In pochi secondi scoppiammo a ridere, ma subito dopo calò il silenzio. Fu Roberto, detto Tunana, il primo a parlare.

«Vivo qui da tre mesi ormai. Nessuno si ricorda più di me, così mi trovo bene». «Perché sei vestito da donna?» chiesi.

«Non sono vestito da donna. Sono una donna». Mentre rispondeva, capii la trasformazione, senza sapere come.

«Quando mi trasferii a Milano – mi spiegò – avevo quattordici anni. Abitavo in un quartiere che si stava formando, metà campagna e l’altra metà non era città. Le strade erano tracciate ammucchiando la terra portata da diversi scavi e quasi tutto il resto era un enorme cantiere. Studiavo poco e scorrazzavo con i ragazzi del mio gruppo su quel pietrisco. Facevamo la guerra a sassate con quegli altri che abitavano più in là. C’inventavamo nemici anche tra noi. Ci prendevamo a cazzotti fino a sanguinare. Ma non durò. Chiedevamo di più».

Tunana abbassò il capo, poi lo alzò per guardare oltre gli alberi, dove l’acqua fluiva lenta. I lineamenti del volto erano diventati duri. Mi accorsi che evitava i miei occhi. Affondava lo sguardo fra l’erba intorno, come se cercasse le parole da dirmi. Poi continuò.

«Avevo più o meno sedici anni quando scegliemmo il nostro bersaglio». Fece una pausa e riprese a parlare. «Una sera andammo ai giardini del quartiere vicino al nostro. Erano simili a questi dove stiamo noi adesso. A quell’ora erano frequentati da persone che oggi voi chiamate gay e noi, allora, culattoni. Io mi vestivo con una maglietta alla marinara a righe rosse e cominciavo a passeggiare da solo nel parco. Lo sai che mi è sempre piaciuto recitare. Ancheggiavo lentamente finché venivo avvicinato da uno sconosciuto. Gli mettevo un braccio attorno alle spalle e conquistavo facilmente la sua fiducia. Lentamente, camminando e ridendo, lo portavo in un punto convenuto in precedenza, nascosto da sterpi e lontano dalle abitazioni. Poi lo spingevo all’inferno. Era questa la parte della commedia che mi faceva sentire onnipotente. Il poveraccio, spesso padre di famiglia, subiva l’affronto del gruppo. Era pestato scientificamente con pugni, calci e bastoni. Brutalmente. Urlava, gemeva, implorava pietà con suppliche che descrivevano la propria famiglia. Allora la ferocia aumentava. Loro lo insultavano, lo umiliavano e menavano fendenti atroci, finché la vittima giaceva inerte e sanguinante con molte ossa rotte. Poi ognuno scappava in direzione diversa. Anch’io fuggivo ansimante fino a raggiungerli».

Roberto, detto Tunana, adesso stava piangendo piano. Osservavo il suo volto infelice di donna. Mi sembrava che stesse espiando una pena ma ormai non ero più sicuro di niente.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *