Scor-data: 29 maggio 2010

Agro pontino: quel giorno gli indiani divennero visibili
di Stefania Ragusa (*)
Gli indiani che lavorano la terra nell’agro pontino, alle spalle della mondana Sabaudia e di San Felice Circeo, anche se di regola indossano vistosi turbanti, sono invisibili, in senso figurato e letterale. Figurato perché anche loro, come buona parte della manodopera straniera reclutata in agricoltura, non riescono ad avere un regolare contratto di lavoro, anche quando sono in possesso di un permesso di soggiorno. Letterale perché, quando prima dell’alba, in bicicletta o a piedi, percorrono la statale pontina per raggiungere i campi troppo spesso finiscono travolti perché non vengono visti dai conducenti dei camion e delle auto. Da queste parti, per loro, sembra essere il modo più comune di morire. […]
Gli indiani che lavorano la terra nell’agro pontino e fanno nascere meloni e cocomeri, zucchine e rape o accudiscono le bufale sono quasi tutti di religione sikh. Avvolgono i lunghi capelli (che sono il loro simbolo religioso) nei turbanti, portano barbe altrettanto lunghe e lavorano senza sosta per paghe simboliche: due euro e cinquanta l’ora, quando va bene. Ufficialmente sono circa settemila gli indiani residenti in provincia di Latina. La Flai-Cgil ritiene però che a lavorare nei campi siano molti di più, almeno il doppio. Gli irregolari in genere occupano i casolari abbandonati sparsi nella campagna che da Fondi va verso Sabaudia e Terracina. Cercano di schivare i controlli delle forze dell’ordine, di sottrarsi alle prepotenze e agli attacchi razzisti e di sopravvivere. Ai danni degli immigrati indiani, negli anni, sono state compiute molte violenze e vere e proprie spedizioni punitive. La più clamorosa è probabilmente quella che ha avuto come protagonista il 35enne Sing Navte, che dormiva su una panchina a Nettuno ed è stato cosparso di benzina e bruciato da tre minorenni.
Il 29 maggio del 2010 un gruppo di questi lavoratori (circa settecento persone) ha attraversato il centro di Latina per protestare contro lo sfruttamento e rivendicare diritti e legalità. Lo striscione che apriva il corteo riportava la scritta: stesso sangue, stessi diritti. Gli indiani si sono poi alternati al microfono per raccontare le loro storie: tutte drammatiche, tutte simili. La città ha fatto di tutto per impedire la manifestazione. Le forze dell’ordine hanno moltiplicato i loro controlli nei giorni che l’hanno preceduta. Il quotidiano cittadino «Latina Oggi» ha martellato sulla sua inutilità e nessuno tra i politici locali si è sentito in dovere di portare un saluto. Anche il fronte sindacale non è riuscito a essere unitario. E’ stata la Flai Cgil a prendere l’iniziativa. Cisl e Uil sono rimaste silenti.
I primi sikh sono arrivati da queste parti negli anni ’90, in modo casuale. «L’Italia era per loro una terra di transito, un luogo in cui fermarsi a lavorare per un po’ in modo da raccogliere il denaro necessario a raggiungere paesi più ambiti e culturalmente più legati all’India, come il Canada e il regno Unito, ma in cui non era facile entrare per via di norme sempre più restrittive», spiega Marco Omizzolo. «Ma per molti di loro la permanenza temporanea è diventata definitiva e la loro presenza qui ha richiamato quella di altri connazionali. C’è una rete di collaborazione e solidarietà molto stretta tra i sikh, che in parte permette di contenere il disagio e ovviare all’assenza totale di servizi e assistenza». Omizzolo è un sociologo e per la sua tesi di dottorato ha scelto di fare una particolare esperienza sul campo. Per due mesi ha lavorato fianco a fianco ai sikh, come bracciante. Ha condiviso i loro ritmi di lavoro e la paga da fame, le pause risicate e i rari momenti di distensione. Ha conosciuto la loro realtà da una prospettiva veramente inedita. «L’inferno di Rosarno può sembrare lontano dalla situazione dell’agro pontino. Ma lo sfruttamento di questi lavoratori è comunque di tipo schiavistico». La giornata lavorativa comincia alle cinque del mattino e finisce alle sette di sera. Tredici ore, se si esclude quella di pausa, intorno a mezzogiorno, con la schiena chinata e le gambe piegate. Le paga media è di due euro e mezzo l’ora, ma può ridursi in presenza di caporali, che non sono pervasivi e onnipresenti come in altre campagne ma anche qui fanno il loro bel business. Tra i datori di lavoro, che ci tengono a farsi chiamare “padroni” è diffusa l’abitudine di pagare una sola settimana di contributi al mese e di dare punizioni corporali. «Il rapporto di subordinazione è totale» dice Omizzolo. La deferenza verso il padrone è assoluta. C’è anche un elemento culturale forte che concorre in questa direzione. E tenendo conto di questo la manifestazione di maggio, nonostante la scarsa eco avuta a livello nazionale, appare ancora più significativa. Nei due mesi trascorsi a fare il bracciante a Omizzolo non è mai capitato di incontrare un ispettore del lavoro o qualcuno che venisse ad accertarsi delle condizioni di vita di questi migranti. Quello che accade, invece, con una certa frequenza è che le forze dell’ordine organizzino vere e proprie retate alla ricerca di clandestini.
(*) Questo brano è tratto da «Le Rosarno d’Italia», ovvero – come Stefania Ragusa precisa nel sottotitolo – «storie di ordinaria ingiustizia» precisa il sottotitolo. E’ uscito da Vallecchi (196 pagine, 14 euri) ed è un libro da non perdere; io l’ho recensito in blog il 9 maggio 2011. (db)

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