Se parliamo la lingua materna

di Maria G. Di Rienzo

C’erano una volta le babaylan (“donne mistiche”), le specialiste della comunità filippina nei campi della cultura,della religione, della medicina e della conoscenza dei fenomeni naturali, chiamate ad istruirsi per rivestire questo ruolo onorato da un sogno, da un’esperienza traumatica o da una babaylan più anziana. Prima dell’invasione degli spagnoli nel sedicesimo secolo, queste donne erano il perno sociale e spirituale dei loro gruppi… Ma no, non vi sto raccontando una fiaba. Le babaylan, anche se in minor numero di un tempo, ci sono ancora. E il cuore del loro insegnamento, il centro di una visione olistica che non crea immagini del divino poiché “siamo tutti un unico respiro, e dio è in ciascuno di noi”, è la risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Aperte a tutto ciò che è buono e che aiuta la vita, hanno incorporato il messaggio di pace cristiano nei loro canti di preghiera: traducendolo nei linguaggi nativi, perché “dio ci capisce se parliamo la lingua materna”. L’educazione alla pace fornita dalle babaylan comincia molto presto, diretta ai bambini. Ciascuna bimba o bimbo apprende a maneggiare il conflitto in modi appropriati a seconda che esso si dia tra i suoi pari, con le persone adulte e le babaylan stesse; violenza e guerra sono ovviamente escluse da questa visione, perché distruggono e non gettano ponti. Il concetto di base è che non potremo andare con grazia e gentilezza sul ponte che attraverseremo dopo la morte (“tumatawid”), ne’ trovare guida durante il passaggio, se non abbiamo amato e curato in questa vita, che è sacra.

E poiché tutta la vita è sacra proteggere gli animali, l’acqua, la terra, l’aria sono compiti irrinunciabili: le babaylan odierne sono ecologiste che hanno dato più di un filo da torcere a chi voleva e vuole deforestare o devastare i loro ambienti naturali. “Non può essere altrimenti.”, dicono, “Quando ci tolgono la foresta, strappano dio via da noi. Poiché tutto è interconnesso, la pace e la giustizia sono ingredienti indispensabili per la vita sulla terra.” Forse state immaginando un mucchietto di donne prive di vero potere, illetterate e confinate in remoti villaggi, ma le babaylan valutano l’istruzione quanto il bilanciamento, ed il mantenimento delle loro tradizioni non confligge con l’apprendere cose nuove. Una babaylan odierna è per esempio l’ecologista Kunthala Lahiri-Dutt, attivista di punta delle lotte ambientaliste delle comunità locali, esperta delle istanze relative all’acqua ed al mantenimento degli ecosistemi. Kunthala lavora per diverse università locali ed estere, ed è presente come specialista nel “Programma per il maneggio delle risorse naturali nell’Asia del Pacifico”.

La preparazione per diventare una babaylan è lunga, poiché abbraccia diversi campi, ed incorpora in una sola figura i ruoli di sacerdotessa, guaritrice, saggia e profetessa. I sette valori che un’aspirante babaylan deve conoscere e maneggiare, però, credo possano essere d’ispirazione anche a noi.

1) “Kalooban at patotoo”: imparare ad essere umani, a definire se stessi come umani. La manifestazione della verità e dell’integrità del sé, il piantare i semi della coscienza. Quando questo attributo spirituale è presente, le persone si muovono verso “ginhawa” (il benessere, l’essere a proprio agio), i cui significati operativi concreti si traducono nel lavorare ed apprendere assieme agli altri, amandoli della loro umanità, che noi condividiamo.

2) “Kabuhayan at kaalwanan”: imparare a fare, a nutrire l’intelligenza che in noi sostiene la vita. Il capire che il godere di salute e cose buone avviene per condivisione e inclusione e che un’esistenza umana “sostenibile” per il pianeta basa sulla reciprocità.

3) “Karunungan at kaalmang-bayan”: imparare ad imparare! Il nutrire insieme la nostra conoscenza collettiva. La vita ci insegna come si fa, sostengono le babaylan, e ripete le sue lezioni sino a che non le comprendiamo. Perciò noi impareremo dalle esperienze che facciamo con i nostri cari, nelle nostre famiglie e nelle nostre città; impareremo dalla storia, dalle radici e dai significati che erano esplicita conoscenza tanto tempo fa; impareremo dai nuovi modelli che emergono, dalle reti locali, nazionali, e globali. La dott. Maria Luisa Canieso Doronila, che ha compiuto studi antropologici sulle comunità indigene, parla di come le babaylan incoraggino in esse una sorta di “intelligenza multipla” che sviluppa alti livelli di conoscenza (linguistica-verbale, corporea, logica-matematica, intrapersonale, artistica, ecc.) anche in persone che vivono in condizioni di povertà.

4) “Kapwa at kapatiran”: imparare a vivere e lavorare insieme come un popolo compassionevole. E’ il riconoscimento delle differenze e del loro valore, il vederle all’interno del proprio gruppo. Poiché i termini dell’interazione (“kapwa”) sono non sessisti e non gerarchici, le babaylan ad esempio, in presenza di violazioni che riguardano le donne, hanno un rituale di guarigione che prevede la narrazione della loro storia e la promessa da parte della loro comunità di trasformare le pratiche patriarcali in azioni positive.

5) “Pagkakaisa at pamathalaan”: imparare a realizzare una visione e una missione collettive. Secondo la babaylan Marianita Girlie C. Villariba si tratta di qualcosa di molto simile alla “fronesis” di Aristotele. Si tratta della capacità di interpretare la situazione politica in cui viviamo e di decidere che azioni intraprendere al proposito. “Nessuno di noi da solo è buono quanto tutti noi insieme”.

6) “Lakas at tibay ng loob”: imparare a sostenerci spiritualmente. In sostanza si tratta di coltivare una certa “forza di carattere”. A Marianita Villariba questo aspetto fu particolarmente utile durante gli anni ’70, quando resisteva come attivista all’oppressione del governo militare. “Una cosa che ho appreso è che non avevo necessità di “purificare le mie motivazioni”: una delle trappole in cui cadiamo come attivisti è spesso quella del martire, del servizio totale ad una causa, che può renderci ciechi, anche a livello spirituale. Ho riconosciuto che la verità ha molte motivazioni, molte ma non uguali, non intercambiabili, e che la rabbia verso l’ingiustizia va “organizzata”, altrimenti sarà essa a guidarci e non noi a servircene come stimolo.”

7) “Bathala na”: imparare a sviluppare il dono finale della perseveranza, della continuità. “Bathala” significa dio. “Bathala na” è la determinazione che si erge davanti all’incertezza, è il coraggio di dedicarsi alla pace ed alla giustizia. E’ il punto finale di una filosofia sistemica che vive la Terra come spazio sacro e casa di diversi popoli e gruppi, e dove chi è guida politica lo è fino a che lega i suoi atti al rispetto ed alla reciprocità.


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