«Settanta acrilico trenta lana»

Maria Chiara Castro su Viola Di Grado e il suo romanzo

«Settanta acrilico trenta lana» è il primo libro della scrittrice catanese Viola Di Grado, pubblicato nel 2011 dalla casa editrice e/o.

È un romanzo rivoluzionario per le modalità espressive con cui l’autrice riesce a esprimere il disagio esistenziale della protagonista e narratrice Camelia.

Viola Di Grado si avvale infatti di una vera e propria anarchia linguistica che riesce a generare nuovi livelli di significazione. La scrittura essenziale e densa non descrive ma evoca sensazioni in chi legge attraverso una fitta rete di simboli, metafore, sinestesie, ossimori e comparazioni.

La lingua, che rappresenta il nostro modo di concepire e interpretare il mondo, è come annullata e ricreata da zero e gli stessi personaggi, al pari dell’autrice, adoperano nuove modalità di comunicazione e cercano nuove maniere per rappresentare la realtà: da una parte Camelia e la madre, che per tutta la storia sostituiscono le parole con sguardi silenziosi; e, dall’altra, il cinese che con i suoi ideogrammi dotati di significati autonomi aiuta la protagonista a dare un nuovo senso alla realtà. Chi legge è trascinato in una nuova dimensione percettiva: le sfere sensoriali che si mescolano (tutto il romanzo è denso di sinestesie, a partire dagli “sguardi parlanti” con cui madre e figlia comunicano); gli artifici linguistici (come l’accumulazione, le ripetizioni, la mancanza di punteggiatura etc) che veicolano stati d’animo; le parole che non descrivono ma connotano la realtà; e la narrazione in prima persona. Tutto crea un effetto di straniamento e agevola l’immedesimazione nello stato d’animo della protagonista.

Camelia è una ragazza italiana che vive, da quando ha otto anni, a Leeds, nel nord del Regno Unito. Figlia di una coppia infelice, a vent’anni circa è colpita da un doppio lutto che, per la sua potenza, devasta tutto il mondo a lei circostante: il padre muore in un incidente d’auto insieme alla sua amante. La madre, Livia, da allora in poi, smetterà di interagire con lei. Camelia perde così, in un colpo solo, entrambi i genitori, abbandona i propri studi di cinese e si annichilisce nella solitudine di un mondo freddo, finto e artificiale come un maglione “settanta acrilico trenta lana”. Tutto, in questo romanzo, diviene correlativo oggettivo della sofferenza di Camelia: il linguaggio crudo, brusco e a tratti volgare con cui la narratrice ci racconta la sua storia, la fredda città di Leeds dove «l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da sapere cosa c’era prima», il tempo che si arresta in un “eterno dicembre” e che riprende a scorrere solo quando la ragazza inizia a studiare cinese, la «chirurgia antiestetica» a cui lei sottopone i vestiti trovati nella spazzatura, la via in cui lei vive, che è «talmente brutta da essere una prova che Dio non esiste», e la madre Livia, la cui morte interiore è tutta espressa dal suo mutismo, da «quelle ossa che si muovevano sulla schiena rachitica […]» e da quegli occhi che «le sporgevano dal volto smunto come grossi, bianchissimi gusci di lumaca». Anche il baratro di sofferenza in cui Camelia precipita è emblematicamente rappresentato dall’ossessione della madre per i buchi. La donna li fotografa in continuazione da quando il marito è morto cadendo in un fosso. Ma il buco, oltre a descrivere bene la voragine esistenziale in cui sono precipitate Livia e Camelia, simboleggia anche l’incapacità della madre di amare davvero la figlia e si materializza nel buco fisico e materiale che si estende fra le stanze delle due donne: a metà romanzo, infatti, la ragazza scopre che dal suo soffitto può osservare la stanza di Livia e avverte un’angoscia quasi perturbante di fronte a quella crepa che presentifica il vuoto affettivo provato sin da quando era bambina. Come dice la protagonista, «di tutti i buchi che» la madre «aveva fotografato […] era quello che faceva più male».

Livia infatti è sempre stata una donna assente e superficiale nei confronti della propria famiglia e ha sempre trascurato Camelia. Intuiamo così che il dolore della narratrice trova radice nell’infanzia e che il lutto paterno ha solo accentuato un malessere interiore già esistente e determinato dalla madre assente e dalla impossibilità di vivere in una famiglia felice. I flussi di coscienza attraverso cui la protagonista fa riemergere i propri ricordi infantili sono sporadici ma permettono di interpretare meglio le vicende che ci vengono raccontate: Camelia ci sta narrando la sua personale ricerca d’amore, sebbene ci avverta, fin dalle prime pagine, che il romanzo che ci apprestiamo a leggere «non è una storia d’amore, anche se vorrebbe tanto esserlo, darebbe dieci paragrafi per esserlo, darebbe pure un personaggio, e se non va bene anche due battute per ogni dialogo, ma […] nessuno la adotterebbe mai come storia d’amore, lo sanno tutti che i cani meticci che ti implorano di essere amati dentro scatole di cartone per strada non vengono mai portati a casa». La narratrice, che si descrive per tutta la storia come una sorta di “cane meticcio” definendosi «un remake a basso budget dei geni della madre», ci anticipa in questo modo il finale infelice del romanzo «Settanta acrilico trenta lana».

L’intero percorso di Camelia è un continuo precipitare nel “buco” per poi tenacemente risalire grazie alla propria forza d’animo. Allo stesso modo, i fatti ci vengono raccontati con un impeto che rispecchia quello della protagonista: nella storia non si trova nessuna suddivisione in capitoli ma si assiste al lungo e ininterrotto fluire dei pensieri e dei ricordi della ragazza, inframmezzati dagli eventi che determinano l’intreccio del romanzo.

Dopo la morte del padre, la protagonista lascia l’università e la casa nella quale sarebbe dovuta andare a vivere. Trascorre i suoi giorni a prendersi cura della madre, con cui intrattiene «parole fatte di sguardi» e lavora come traduttrice presso una ditta italiana di lavatrici. Decide di riprendere in mano la sua vita e lo fa attraverso il ragazzo cinese Wen e gli ideogrammi cinesi che questi le insegna. Camelia re-interpreta il mondo grazie alle chiavi interpretative che indicano la classe semantica di ogni parola cinese; scopre, ad esempio, che la chiave di “amore” è artiglio, che quella di “buco” è bambino, che quella di “punire” è cuore e che tutto attorno a lei può acquisire un nuovo contenuto. La ragazza sembra quasi creare un nuovo ecosistema linguistico su misura per lei usando gli ideogrammi cinesi per “foderare” le finestre della propria stanza e per creare nuove parole che descrivano le proprie emozioni; deforma la propria realtà per meglio adattarla al suo disagio esistenziale ma non riesce a cambiare se stessa e, quindi, non riesce a salvarsi. Si innamora di Wen (o della possibilità che Wen le fornisce, attraverso il cinese, di dare nuovi contenuti alla realtà) che, diversamente da lei, si è rassegnato a vivere nel suo “buco” e non riesce ad avere relazioni d’amore a causa della sua impotenza sessuale. Come reazione all’ennesimo rifiuto d’amore ricevuto, Camelia intraprende una relazione con Jimmy, il fratello di Wen che non ha alcuna affinità intellettuale ed emotiva con la ragazza. Dopo alcuni mesi la protagonista viene abbandonata anche da Jimmy e infine riceve una ferita ancora più profonda e violenta da parte della madre: quest’ultima si riprende dal proprio lutto personale andando al corso di fotografia che Camelia le ha imposto di frequentare e conoscendo un nuovo uomo, Francis. Livia comincia a dedicare a lui tutte le sue attenzioni continuando, però, a ignorare la figlia.

La parte finale del romanzo è quella che riesce maggiormente a evocare l’intensa sofferenza della ragazza che, nel suo peregrinare disperato fra le strade di una Leeds sempre più cupa, si imbatte nel disinteresse del mondo intero per la sua sorte. La disumanità che circonda Camelia in queste ultime pagine è esasperante. Assistiamo infatti a una madre che sceglie di amare uno sconosciuto e di continuare a ignorare la figlia che si è presa cura di lei per tre anni e a una folla che manifesta solo disprezzo e disgusto ma che non mostra compassione e preoccupazione verso Camelia che si ferisce gravemente davanti a tutti con un coltello. Gli ultimi avvenimenti non regalano alcun lieto fine alla storia della narratrice ma, nella loro estremità e surrealtà, danno le ultime pennellate a quella società egoista, individualista e ipocrita che Viola Di Grado ha dipinto con i mezzi linguistici, stilistici e narrativi di cui si è detto.

Nel corso del romanzo Camelia si illude di poter rivoluzionare la propria vita circondandosi dei nuovi contenuti che può dare alla realtà grazie al cinese, ma non vi riuscirà perché è lei stessa a generare quei significati; tutto il mondo parla del suo dolore e del suo isolamento e la stessa città di Leeds è descritta come fosse una proiezione del suo stato d’animo. L’incapacità di separare la propria soggettività dall’oggettività del reale porta la protagonista ad annientare se stessa a poco a poco. La morte si avvicina gradualmente a lei: prima Camelia si addormenta sulla lapide di un cimitero, poi si infligge ferite sul corpo (fa a se stessa ciò che prima faceva ai vestiti che indossava) e infine tenta di buttarsi dal ponte di Knaresborough. Il desiderio di morte della protagonista viene infranto dall’arrivo di Francis che tenta di salvarla ma finirà per essere pugnalato e ucciso proprio da lei. Con quest’ultimo gesto Camelia può finalmente avere l’esclusiva sull’affetto della madre; la sua ricerca d’amore si conclude con il ritorno allo stadio iniziale della storia: Livia, dopo questo nuovo lutto, può raggiungere nuovamente la figlia nel “buco” dal quale probabilmente entrambe non usciranno più.

 

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