Shailja Patel: poetare per amore e contro la guerra

Ascoltare Shailja Patel e decidere di intervistarla è tutt’uno. Ma sembra esistere un problema tecnico insormontabile: lei parla solo inglese, una lingua della quale conosco 7 parole, importanti certo (peace, freedom, love, strike, yankes go home) ma insufficienti per chiacchierare a lungo di arte e politica. La soluzione è coinvolgere un’altra poetessa, l’italo-americana Pina Piccolo: anche lei contro la guerra, femminista e abituale traduttrice di Shailja. E’ lei che ha portato questa «perfomer» in Italia e che ha curato «Poesie in tempo di guerra», libretto bi-lingue  che ha accompagnato Shailja Patel nel nostro Paese: a Guastalla per la rassegna «Un po’ di Gange» e in altre tre serate.

Domenica mattina in una cucina apparecchiata. Il topino Neve si accoccola nella mano di Melina, 10 anni, la figlia di Pina Piccolo che accompagnerà le parole di Patel con commenti («la conosco quella, è brava come te») e offerte d’aiuto («mamma se sei stanca posso tradurre io»). Due sera prima Melina era alla performance, Neve non so.

Quando si presenta Shailja come «afro-indiana»molti danno per scontato che sia figlia del melting pot statunitense. Invece è nata e cresciuta in Kenia ma è di discendenza indiana. Nel suo ultimo poema – «Migritude» – racconta che all’arrivo negli Usa la vecchia zia l’esorta: «Devi dire: “ho parenti dappertutto”. Così non pensano che sei vulnerabile». Nei dibattiti sono tanti a chiederle, non sempre con toni garbati, come si è trovata a vivere nel ventre della bestia armata. Che ingrata questa poetessa che urla (tre anni fa a San Francisco) contro la guerra di Bush davanti a 250 mila persone. Chi sa l’inglese e vuol leggere «Eater of Death» («Mangiatrice di morte») – quei versi che a San Francisco la resero famosa- vada sul sito “Poets against the War” oppure su www.shailja.com. Ma per belli che siano i testi per essere coinvolti appieno bisogna ascoltare la sua voce e vedere come li “vive” il corpo di Shailja Patel.

«Emigrai nel ’96. Prima lavoravo in Inghilterra, avevo solo un permesso di soggiorno.Negli Usa invece potevo lavorare e ottenere la cittadinanza, la famosa carta verde. I miei parenti erano lo sponsor, sin da quando avevo 12 anni, per farmi entrare. Si può dire che ci ho messo 14 anni per arrivare. Questa stessa domanda sul vivere nel “ventre del militarismo” però negli Stati Uniti me la fanno anche persone ostili. Rispondo provocatoriamente:“è più sicuro vivere nel Paese che bombarda anziché in quello su cui cadono le bombe”. Oppure faccio un discorso economico: nel mondo dominato dal capitale la dignità e i diritti sono preclusi a chi vive nel Sud. Se invece mi provocano parlando di civiltà occidentale maleducatamente rispondo che “sarebbe proprio bello se in Occidente ci fosse una civiltà”. Vivo in un Paese dove quando i detenuti sono rilasciati devono pagare l’attrezzatura (tipo i braccialetti elettronici) per il loro controllo: il primo giorno in cella sono già debitori di 25 dollari. Non è un bel luogo. Eppure il mio percorso di artista comincia davvero negli Usa. Vado a New Orleans, che da sempre mi affascina, e all’ufficio postale trovo due buste: nella prima la carta verde, nella seconda l’assegno di 10 dollari da una rivista dell’Ohio per una mia poesia. Un segno degli dei».

All’inizio scrivere per lei fu gioco o necessità? E dove nasce il suo bisogno di recitare con tutto il corpo?

« Audre Lourde, decana delle poetesse afro-americane, non si stanca di ripetere: “la poesia non è lusso”. Da quando ero bimba mi innamoravo delle parole, persino prima di saper scrivere o leggere copiavo sui fogli il disegno delle lettere. Sono cresciuta dentro due culture – africana e indiana –con tradizioni orali molto forti. I poemi che ascoltavo da piccola (i miei genitori erano ottimi narratori, ho assorbito molto ascoltandoli) diedero forma al mio concetto di scrittura. La poesia per me non è scelta ma una necessità. Le performances, cioè leggere poesie dal vivo, spezzano il mito di un’arte per le elites. Poetare è un diritto per tutti, fa parte della vita quotidiana. In alcune occasioni i versi mi hanno tenuto  in vita più ancora di acqua o cibo…».

Le calunnie inglesi contro i kenioti in lotta come quelle di Israele, verso i palestinesi, come  scrive in «Ecco le cose che non ho imparato a scuola». Lei ha un tale palpito per la Palestina che in certi momenti sembra di ascoltare Mahmud Darwish…

«Infatti è un poeta che amo molto. La propaganda israeliana dichiara che i palestinesi non hanno cultura né anima, che sono solo terroristi. Stessa strategia usata dai colonialisti in Africa. Per questo i poeti ribelli spesso diventano il simbolo di un popolo o di un’intera umanità disprezzata o distrutta. Nel capitalismo quotidiano i versi sembrano un lusso, o un’arte poco moderna eppure nei tempi dell’oppressione politica io sento crescere il potere del far poesia».

Per questo lei cerca una sapiente miscela di voce e corpo? Pensa sia più efficace della pagina scritta?

«Ricordo qualcosa che Kerry Kennedy (figlia di Robert Kennedy, nuora di Cuomo) scrive in un’antologia dei diritti umani: “dai fatti e dalle statistiche impariamo, ma ricordiamo da canti e storie”. Il potere ci vorrebbe zittire tutti, dobbiamo trovare modi per parlare fra noi senza mediazioni. Far poesia dal vivo serve anche a eliminare l’innaturale separazione fra mente e corpo. Il processo di creare qualcosa che abbia valore artistico richiede che attingiamo alla totalità del nostro essere. Se cerchiamo di escludere qualcosa – si tratti di politica, sesso o religione – l’insieme si impoverisce. Mi chiedo, mentre lavoro, cosa sto togliendo di me stessa e cerco di recuperarlo, man mano che cresco come artista e danzatrice, mi accorgo che penso con parole e movimenti. Quando scrissi “Lei gli ha detto no” non solo i versi ma anche il mio corpo rispondevano al soldato statunitense che in Corea del Sud picchiò a morte una barista che si era rifiutata di far sesso con lui. Mi chiedevo come si sente nel corpo chi crede di avere diritto a tutto: usciva da me l’energia nelle gambe, nell’inguine, nella forma di ali. In quel caso i versi sono scaturiti dal corpo, altre volte mi capita l’inverso che cioè la testa arrivi prima».

Lei dice che per ogni poesia di rabbia deve scriverne una d’amore perché è l’unico modo per mantenere la salute mentale.

«Ci opponiamo alle guerre perché siamo “guerrieri” della vita e della bellezza. A volte anch’io mi chiedo a che serve poetare in questi tempi bui ma spesso guardando chi mi ascolta vedo che i versi ci restituiscono il permesso di piangere, urlare e tornare nelle strade più ricchi grazie alla nostra ritrovata umanità»

C’è un grande movimento contro la guerra anche negli Usa; lei è ottimista sul futuro prossimo?

«Non penso che nei prossimi 50 anni vedremo un cambiamento progressista negli Usa. Quelli di noi che sono a sinistra, che credono in una società alternativa, devono guardare alle positive novità del Sud America piuttosto che disperarsi per quel che fa l’impero. Dal punto di vista economico gli Stati uniti sono sull’orlo della bancarotta, hanno il più grande debito che esista; chissà cosa accadrà quando il grande creditore, la Cina, deciderà di togliere la spina».

Avrebbe problemi a scrivere su «Liberazione», un quotidiano comunista?

«No, anzi. Ora però non ho tempo. Sto partendo per il festival del cinema di Zanzibar. Sono anche redattrice di Pambazuka News, un settimanale on line per la giustizia sociale in Africa che ha già 100 mila abbonati, e di una rivista indiana . Magari quando torno in Italia».

questa mia intervista è uscita sul quotidiano «Liberazione» (nel luglio 2008 mi pare ma non ritrovo la data esatta): qui sotto la completo con due brani poetici.

Da “Mangiatrice di morte” del 2002 (si basa sul resoconto di una donna afgana)

Uno

Arrivarono mentre facevamo colazione, ricordo il sapore

del naan acquistato sul mercato nero.

Gli occhi di Zainab e Shahnaz come gorghi

mentre li cospargevo

di acqua preziosa.

I miei figli mangiavano piano

piano,

assaporando ogni briciola.

Ricordo l’amarezza

in gola.

Prima che finissimo

il cielo si lacerò vomitando

morte, tutto

ci cadde attorno, tutto

bruciava, i bambini urlavano, le pareti squarciate

una voce come di sciacallo ululava

(…)

Due

Tre giorni dopo,

nel rifugio,

da cui esalava il fetore

di rifiuti umani,di terrore

l’inedia e la nausea

che combattevano nelle mie viscere

come mujaheddin.

Aziza, la mia vicina,

pezzetti di macerie

avviluppati tra i capelli,

mi mostrò un pacchetto. Giallo

come le bombe. Con una

bandiera americana.

Disse:

dicono che sia cibo

(…)

da “Migritudine” (recitato al festival “Un Po di Gange”, Guastalla, luglio 2006)

Tutto ebbe inizio con una lacrima versata nella città di Babilonia. Dove Astante,invereconda dea della fertilità femminile,diffonde per la prima volta al mondo la luce. Il boteh. L versione stilizzata dell’immagine della palma,l’albero della vita, simbolo della fertilità che attraversa danzando l’arte celtica per arrivare, accompagnata dal pesante passo dei legionari romani, oltre leAlpi. Si butta poi  capofitto nel sottosuolo per sfuggire all’ira di Marte e di Giove, tronfi araldi dell’Impero.

Tra gli storici c’è chi sostiene che dall’Inghilterra vittoriana viaggia verso le corti Mughal, forma fogliacea dell’erbario. Nel 18° secolo si trasforma in cono e poi in girino. Ma, secondo una leggenda del Kashmir, altro non è che un’ombra della dea Parvati, stampata sulla terra mentre fugge per le montagne dell’Himalaya nell’alba dei tempi.

Umbi. La forma del mango – il frutto che si matura e marcisce nei sogni di coloro che in tutto il mondo immigrano dal Sud al Nord. La forma di una penna di pavone. Una metà di cuore inciso su una curva a S liscia. Una cosa che sta bene nella mano, rotonda nella palma come un seno sodo,che si stringe poi per finire in una punta acuminata che mette il polpastrello alla prova. Un’immagine  che perfino un bambino è in grado di disegnare a mano libera, con un unico movimento, producendo tuttavia qualcosa di elegante.

Avete mai tagliato un cuore su una curva? Quale deidue pezzi decidereste di tenere? (…)

Da “Lettere alle mie sorelle innamorate di soldati

Vi scongiuro

Di non chiudere gli occhi.

Non distogliete lo sguardo dalle donne stuprate,

picchiate, uccise dai soldati Usa

da Manila a Mombasa, da Baghdad

a Bangkok. Non ditevi

che il vostro uomo è diverso. In qualche modo

misteriosamente assente

quando bombardano

le città dei civili, sotterrano

eserciti viventi sotto autostrade di morte.

Vomitate il mito

che poverino non ha altre opzioni.

Sul vostro specchio e sul suo

attaccateci i siti e il numero di telefono

di Veterans for Peace, Conscientous Obiectors,

Books not Bars, Refuse an Resist,

Not in Our Name, e di tutti gli eserciti

che si battono per la libertà e la giustizia

proprio qui.

E accanto metteteci un elenco

delle cose disponibili al vostro uomo

che però non lo sono ai sedicenni,

ventiseienni, quarantaseienni

in Palestina,

Sierra leone, Timor Est,

Laos, Congo, Rwanda, Namibia, Barbados

(…)

Ditegli che non tocchereste mai

un uomo che ha lanciato una granata contro

vostra sorella, bombardato l’ambulatorio

che cura il diabete di vostra madre

che ha distrutto i tubi dell’acqua

del vostro quartiere.

Queste cose non le può fare nelle altre parti del mondo

per poi tornare e cercare il vostro corpo con le mani tremanti.

Ditegli che sapete

come si riposano e si ricreano le truppe.

Ragazzine, donne giovanissime

spedite dentro alle caserme come casse

di Budwiser, ditegli che sapete che il sabato sera

uscirà a Freetown, Seul o Bogotà

con istruzioni

per comprare al minor prezzo possibile

una piccola macchina fottitrice

marrone o gialla

che non può dire di no

a niente

(…)

Redazione
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