Siria: sulle orme di Paolo

un reportage di Angelo Maddalena

Tornerai a Mar Musa”, mi dice Nouhad, che vive qui al monastero di Deir Mar Musa Al Bahashi, cioè San Mosè l’Abissino. Da questa terrazza del monastero immerso nel deserto siriano, guardando il cielo vedo la costellazione dello scorpione, con l’aiuto di Paolo, uno dei compagni di questa escursione in Siria con un gruppo organizzato.

Paolo insegna fisica e matematica, e alla domanda “che lavoro fai?” che gli avevo fatto a Damasco, nella stanza dove dormivamo, mi ha risposto, scherzando, “insegno educazione fisica”. Meno di un anno fa avevo comprato il libro di Francesca Peliti su Paolo Dall’Oglio e la comunità di Deir Mar Musa e avevo deciso di andarci. Avevo saputo della scomparsa di abuna Paolo nel 2013, e avevo comprato quel libro perché non immaginavo che dopo il suo rapimento la comunità che lui aveva fondato trent’anni prima, ristrutturando questo monastero abbandonato del IV secolo d. C., continuasse a vivere nonostante la sua assenza e soprattutto che fosse sopravvissuta alle incursioni dell’ISIS, e al rapimento di uno dei fondatori, padre Jacques, sequestrato nel 2015 per cinque mesi. Poi leggendolo avevo scoperto che ci sono monaci e monache che ci vivono ancora, cattolici e ortodossi, con una grande apertura all’Islam, tra l’altro uno dei libri di Dall’Oglio si intitola Innamorato dell’Islam, credente in Gesù. Però proprio pochi giorni prima di partire dall’Italia, vengo a sapere che tutta la comunità di Mar Musa sarà in Italia per celebrare la messa del decennale della scomparsa di padre Paolo, avvenuta il 29 luglio del 2013. Mi avevano etto che venire in Siria e a Mar Musa da solo in questo periodo non era facile, quindi mi sono ritrovato con il gruppo organizzato e una guida siriana che vive in Italia dall’inizio della guerra in Siria, cioè dal 2012, e che ci ha spiegato, fra un’escursione e un’altra, la storia e attualità del suo paese. “In Siria non c’è futuro fino a quando ci sarà l’embargo”, ha affermato in uno di questi suoi discorsi illustrativi delle condizioni economiche e politiche degli ultimi anni. A Bosra, prima città siriana dopo aver attraversato il confine con la Giordania, siamo passati nel tardo pomeriggio del 30 luglio arrivando da Amman (dove siamo atterrati e poi da lì abbiamo proseguito in autobus). Prima di ripartire per Damasco abbiamo visitato il teatro romano del II secolo d. C, “che ha resistito alle bombe che Assad scaricava contro i ribelli dell’Esercito Libero Siriano asserraggliati proprio qui vicino, ma per fortuna attorno al teatro c’è una Cittadella che lo ha protetto dalle esplosioni”, ci ha spiegato la guida. Tra queste bombe forse ce ne erano anche di chimiche, vietate dalla convenzione di Ginevra del 1991, Assad è stato accusato per questo tipo di crimini, come diremo più avanti. La guida (non riporto il nome per discrezione) ci ha raccontato di quando, nell’estate del 2012, era riuscito a partire l’ultima volta dalla Siria (”ero scappato praticamente”) perché dopo le prime manifestazioni di protesta popolare del 2011, il regime aveva risposto con una feroce repressione dei militanti e dei cittadini siriani che avevano preso parte alle manifestazioni pacifiche: arresti, torture, uccisioni. Questo aveva fatto sì che molti militanti si organizzassero in brigate di combattenti armati. La guida però ci spiega che nel giro di poco tempo fra i combattenti si erano infiltrati molti soggetti esterni provenienti dai paesi del Golfo, dalla Turchia e dal altri paesi, si parla di circa 90 000 combattenti arruolatisi nell’Esercito Libero Siriano, che passavano dalla Turchia o da Librano, ma anche dai paesi del Golfo Persico, tra cui il Qatar che finanzia il Free Army per colpire indirettamente il regime, mentre la Turchia faceva da base logistica. “Al Chek point dei ribelli ci hanno controllato i documenti, ma i due uomini con il mitra avevano la barba lunga e non sembravano siriani, hanno portato via otto alawiti e questo mi ha salvato, perché ho buttato sotto il sedile il portafogli dove c’erano i miei documenti in cui c’era scritto che collaboravo con l’Università, e siccome sono cristiano credo mi avessero portato via come hanno fatto con gli alawiti, considerati dai ribelli troppo vicini al regime, in quanto dal 1970 hanno assunto un potere rilevante in Siria grazie ad Hafiz al-Asad, anche lui alawita”. Poi ci fa una confidenza amara e molto poco evidente per noi occidentali e non siriani: “Uno degli effetti collaterali più tragici della guerra, che un occidentale non può immaginare, è la perdita delle minoranze religiose presenti in Siria da tempo immemore”. Ad Aleppo per esempio abbiamo alloggiato nella sede del vescovado della Chiesa cattolico greco melchita, la mattina dopo il nostro arrivo abbiamo visitato nel giro di poche decine di metri la cattedrale armena intitolata ai quaranta martiri e una chiesa maronita (non lontano da lì c’era anche una Chiesa Evangelista). Dalla mia finestra al terzo piano, al crepuscolo, mi è capitato di ascoltare la litania delle preghiere provenienti dalla moschea in filodiffusione mentre nella chiesa sotto la mia finestra si celebrava la messa con il rito greco melchita in cui le litanie cantate sono così presenti da sembrare un lunga messa cantata. I cristiani erano il 10% della popolazione siriana fino al 2012, oggi sono il 2%. Già padre Jo, gesuita che ci ha ospitato ad Amman, ci aveva illustrato un quadro geopolitico del medioriente, dicendoci che in Iraq, prima del 2003 i cristiani erano un milione e ducentocinquantamila, oggi sono meno di duecento cinquanta mila. Ci spiega anche, in modo oggettivo, visto che una di noi le fa una domanda pertinente, in che senso l’intervento della Nato in Iraq nel 2003 aveva distrutto un tessuto produttivo e sociale: “Saddam aveva mantenuto un ordine anche se con metodi brutali, tra l’altro aveva cacciato a un certo punto i gesuiti, non uccisi ma cacciati, eppure dopo l’intervento della Nato, che doveva facilitare un passaggio a un regime democratico, è andato tutto in fumo: molti stipendiati statali dal regime di Saddam, anche se pagati per lavorare poco, hanno perso il lavoro, così come hanno perso il lavoro molti militari e così come l’industria del petrolio è crollata”. In questo contesto si erano rinforzati quei gruppi di estremisti islamici che poi hanno dato vita al famigerato ISIS, Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Ci dice anche, padre Jo, che 65 000 iracheni sono sfollati in Giordania, che molti di loro non vogliono tornare in Iraq perché non vedono futuro lì, ma non hanno più tante possibilità di emigrare altrove, anche perché Trump ha approvato una legge che restringe ulteriormente gli accessi da paesi considerati “nemici”, i cosiddetti Stati canaglia, tra cui anche l’Iraq e la Siria, perciò, ci spiega padre Jo, anche noi da dopo questo viaggio, se dovessimo andare negli USA avremo problemi burocratici quando dal nostro passaporto si vedrà che abbiamo soggiornato in Siria . A tal proposito ci ricorda che 600 mila siriani sono rifugiati attualmente in Giordania, e due milioni si trovano nei campi profughi del Libano. Nel nord dell’Iraq ci sono ancora molte mine antiuomo seppellite e pronte ad esplodere, e i turchi fanno stragi nel Kurdistan iracheno, di tutto ciò “non si parla tanto”, ci tiene a dire padre Jo. Recentemente ettari di boschi sono stati incendiati da bombe incendiarie dell’esercito turco, che continua a bombardare anche verso l’Iran, a Suylemanya, dove tra l’altro si trova una piccola comunità affiliata al monastero di Mar Musa. Padre Jo ci tiene a ricordarci che nel nostro immaginario il PKK e i palestinesi sono spesso associati ai terroristi, eppure nelle montagne del Sinjar, la terra degli azidi, il PKK ha combattuto strenuamente contro l’ISIS mentre anche i Peshmerga scappavano. Uno di noi chiede quando potremo visitare l’Iraq e padre Jo dice che per gli europei adesso è più facile, perché dal 2021 possono entrare senza visto. Il discorso dei curdi perseguitati dall’esercito turco lo ha ripreso anche la nostra guida in uno dei suoi discorsi sulla storia recente della Siria, ricordando che la Turchia negli ultimi venti anni ha ostacolato o comunque ha contribuito al crollo del sistema economico siriano: “Tra il 2008 e il 2011 il nostro paese stava crescendo”, ha spiegato la guida, “c’era un reddito medio di 1000 euro al mese, molto alto come media per un paese mediorientale. Era un mercato concorrenziale anche per la Turchia. Era un modello unico, ricco, con una istruzione alta”. AD Aleppo, lungo la strada Manara, per andare a visitare un centro culturale bombardato che stanno ricostruendo, un signore che incontriamo dice ad alcuni di noi con un’espressione di rabbia nel volto: “Assad è buono, Erdogan è un cane”. Dal 2011, tra l‘altro, come ci ricorda la guida, Erdogan faceva passare i jhiadisti per entrare in Siria a supportare l’esercito dei ribelli. “Oggi la Siria è un paese sgretolato, anche perché lo Stato Islamico si è rinforzato anche grazie all’embargo, contribuendo a mandare la Siria nell’abisso, perché ha distrutto le minoranze religiose che arricchivano il paese. E ha rinforzato anche il regime. In questo contesto ha operato Paolo Dall’Oglio, in una ricerca di dialogo con i musulmani, sfida già di per sè difficile ma ancora più ardua a partire dal 2012, anno in cui viene espulso dal regime di Assad per la sua vicinanza alle mobilitazioni pacifiche del popolo siriano del 2011, ma poi ha sostenuto anche l’Esercito di liberazione siriano, come spiega bene il documento “Paolo Dall’Oglio: l’autodifesa e la nonviolenza” di Riccardo Cristiano, autore del libro su Una mano sola non applaude (http://www.settimananews.it/profili/dall-oglio-autodifesa-nonviolenza/).
“Posso dire che è attualissima – e da studiare – la sua visione di dialogo islamo-cristiano, posto che padre Paolo è stato certamente precursore di fatto del “Documento sulla fraternità umana” firmato insieme da papa Francesco e dall’imam dell’Università islamica di al-Azhar, Ahmad al Tayyib, nel 2019 ad Abu Dhabi”, così inizia il documento di cui riporto il testo integrale nel link e consiglio di leggere e rileggere.
Nel libro Passsaggi in Siria, Samar Yazbek scrive […]

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