Le superpotenze si comportano da gangster, ed i paesi piccoli da prostitute

dice Stanley Kubrick

articoli e video di Vittorio Rangeloni, Michele Santoro, Clare Daly, Manlio Dinucci, Mick Wallace, Giacomo Gabellini, Matteo Saudino, Massimo Mazzucco, Stefano Orsi, Alberto Capece, Iván Gatón, Nicolai lilin, Saymour Hersh, Daniele Luttazzi, Paolo Di Marco, Carlo Rovelli, Adriano Sofri, Edgar Morin, Fernando Moragón, Valerio Calzolaio, Ennio Remondino, Alessandro Orsini, Lucio Caracciolo, Alessandra Cecchi, Giuliano Marrucci, Marco Guzzi, Giulia Calò, Tommaso Marcon,  Sonny Olumati, Federico Fornasari,  Margherita Carpinteri, Margherita Cantelli, Fulvio Scaglione,Thierry Meyssan

 

Appello ai cittadini, alla società civile e ai leader politici

Appello a chi è contrario all’invio di armi in Ucraina per dar vita a una staffetta dell’umanità da Aosta a Lampedusa per camminare insieme, unire l’Italia contro la guerra, per riaccendere la speranza.
Dopo più di un anno di guerra in Ucraina e centinaia di migliaia di morti, mettere fine al massacro, cessare il fuoco e dare inizio a una trattativa restano parole proibite. Si prepara, invece, una resa dei conti dagli esiti imprevedibili con l’uso di proiettili a uranio impoverito e il rischio di utilizzo di armi nucleari tattiche.
I governi continuano a ignorare il desiderio di pace dei popoli e proseguono nella folle corsa a armi di distruzione sempre più potenti.
Mentre milioni di persone sono costrette dalle inondazioni, dalla siccità e dalla fame, a lasciare le loro terre, centinaia di miliardi di euro vengono spesi per aumentare la devastazione dell’ambiente e spargere veleni nell’aria. L’intera Ucraina è rasa al suolo, un macigno si abbatte sull’Europa politica, aumentando le disuguaglianze, peggiorando le condizioni di vita dei lavoratori, flagellando le famiglie con l’aumento dei beni alimentari, della benzina, dell’energia e delle rate dei mutui.
Putin è il responsabile dell’invasione ma la Nato, con in testa il Presidente degli Stati Uniti Biden, non sta operando soltanto per aiutare gli aggrediti a difendersi, contribuisce all’escalation e trasforma un conflitto locale in una guerra mondiale strisciante.
Dalla stragrande maggioranza dei mezzi d’informazione viene ripetuta la menzogna dell’Occidente che si batte per estendere la democrazia al resto del mondo. Dimenticando l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia e il Kossovo.
Si vuole imporre l’idea che non esista altro modo di porre fine alla guerra se non la vittoria militare di uno dei due contendenti e che l’Italia non possa far altro che continuare a inviare armi, limitandosi a invocare una soluzione diplomatica dai contorni indefiniti.
Noi pensiamo che l’Italia debba manifestare in ogni modo la sua solidarietà al popolo ucraino abbandonando, però, qualunque partecipazione alle operazioni belliche. Vogliamo tornare ad essere il più grande Paese pacifista del mondo, motore di una azione per la Pace e non ruota di scorta in una guerra.
Sappiamo che sono in moltissimi a condividere la nostra rabbia nel vedere sottratta alle nuove generazioni l’idea stessa di futuro, mentre si diffonde la sfiducia in una politica privilegio di pochi e il governo si mostra sempre più subalterno agli Stati Uniti e incapace di difendere gli interessi degli italiani e dell’Europa.
Ma siccome chi non è rappresentato e non costituisce una forza viene spinto a credere di non poter più incidere nella vita della Nazione, seguendo l’esempio del Movimento in Francia, vi chiediamo di reagire alla sfiducia, di usare il cammino come strumento di Pace, di costruire insieme una staffetta dell’umanità che parta da Aosta, Bolzano e Trieste fino a Lampedusa.
Questo appello è rivolto a chi sente il bisogno di fare qualcosa contro l’orrore della violenza delle armi e ha voglia di gridare basta.
Sembra impossibile che i senza partito, i disorganizzati, riescano in un’impresa così difficile. Ma se ciascuno di voi offrirà il suo contributo e se i leader e le organizzazioni che si sono pronunciati contro l’invio di armi daranno una mano, tutti insieme potremo farcela…

continua qui

 

 

La svolta dell’Unione Europea verso il militarismo – Clare Daly e Mick Wallace

Il 20 aprile 2023 i rappresentanti dei Paesi aderenti alla Nato e di altri quattordici Stati si sono riuniti a Ramstein, in Germania, per fare il punto sulla gestione degli aiuti a sostegno dell’Ucraina, in vista della possibile controffensiva di primavera. La riunione si è svolta a un anno di distanza da un’altra simile, organizzata il 26 aprile 2022 dalla Nato, sempre a Ramstein (sede centrale della Nato in Europa), che aveva coinvolto i ministri della Difesa di 40 Paesi per un vertice straordinario sull’Ucraina. In quella sede si era deciso di privilegiare la svolta militarista, di fatto vanificando il ricorso a possibili vie diplomatiche per risolvere il conflitto e rispondere all’invasione russa. Nel corso degli scorsi mesi, la militarizzazione dell’Europa è progressivamente continuata sino a questo ultimo incontro, che sancisce l’irreversibilità della guerra “fino alla vittoria”. In un recente articolo, due deputati europei di nazionalità irlandese del gruppo The Left Gue/Ngl (la Sinistra del Parlamento Europeo) avevano descritto assai bene il processo in corso. Dopo la decisione di ieri ci pare utile leggere le loro parole. Le abbiamo tradotte per voi

* * * * *

Come internazionalisti, crediamo nella possibilità di un’Europa pacifica e socialmente giusta. Ma come membri del Parlamento europeo, che lavorano ogni giorno sulla politica di sicurezza e di difesa dell’UE a Bruxelles e Strasburgo, dobbiamo essere onesti con l’opinione pubblica su quanto sia realistico questo ideale in questo momento. La pace è una parola sgradita a Bruxelles. Invece, mentre le tensioni aumentano a livello globale, la politica dell’UE è presa da un frenetico entusiasmo per gli armamenti e il militarismo, per il confronto con i “rivali geopolitici” e per il coinvolgimento in conflitti regionali in angoli lontani del mondo.

Non è sempre stato così. Sebbene un esercito comune dell’UE sia stato a lungo una chimera dei federalisti europei, l’idea era impopolare tra il pubblico ed è stata messa in secondo piano mentre l’UE perseguiva l’integrazione in altre aree. Gli sforzi compiuti in questa direzione sono stati ostacolati da difficoltà organizzative. Ma le riforme del Trattato di Lisbona nel 2009 hanno cambiato tutto questo, preparando il terreno per una profonda accelerazione verso una politica estera e di difesa comune, e da allora il progetto sta prendendo piede.

La maggior parte degli europei vuole la pace. In ciascuno degli Stati membri dell’UE esistono movimenti pacifisti venerabili e potenti. Ma per organizzarsi e opporsi al perno della guerra in Europa, è necessario innanzitutto avere una comprensione condivisa del fenomeno. La nostra sensazione è che la sinistra anti-guerra in Europa sia consapevole che l’UE sta subendo un processo di militarizzazione. Ma, a causa dell’impenetrabilità della politica dell’UE e della sua lontananza dai pubblici nazionali, è difficile conoscere i dettagli di questo processo. Ciò rende più difficile ritenere i governi nazionali responsabili o fare pressione su di loro per opporsi alla militarizzazione in seno al Consiglio dell’Unione europea.

Questa difficoltà può essere affrontata tagliando le sigle e le istituzioni nei dibattiti politici dell’UE e mettendo in evidenza ciò che sta accadendo. Possiamo iniziare a farlo dividendo la politica di difesa dell’UE in cinque grandi aree.

  1. Verso un esercito dell’UE

Il primo di questi, l’integrazione delle forze armate, viene perseguito attraverso una struttura creata dal Trattato di Lisbona – la PESCO, o Cooperazione Strutturata Permanente. L’ex presidente della Commissione Jean Claude Junckers ha definito la PESCO la “bella addormentata del Trattato di Lisbona”, rimasta dormiente fino all’attivazione nel 2017. La PESCO è un insieme di regole per l’istituzione di una serie di progetti militari congiunti, attualmente circa 60. Gli Stati membri devono raggiungere obiettivi di spesa per la difesa pari al 2% del PIL e possono scegliere a quali progetti partecipare, ad esempio nuovi progetti di addestramento o lo sviluppo di nuove tecnologie o attrezzature militari, come droni o missili, jet da combattimento o navi da guerra. L’obiettivo a lungo termine è far sì che le forze armate parlino e cooperino tra loro, inizino a lavorare secondo standard comuni e a utilizzare attrezzature, sistemi e concetti comuni, nella speranza che in futuro inizino a funzionare più come un’unica forza armata.

  1. Le missioni sul terreno

Il secondo settore è quello delle missioni congiunte dell’UE, in cui le forze armate vengono schierate insieme all’estero. Si suppone che queste missioni siano limitate ai cosiddetti “compiti di Petersberg”: soccorso umanitario, disarmo, prevenzione dei conflitti, addestramento militare e mantenimento della pace. In realtà, le missioni dell’UE all’estero sono utilizzate come strumento di politica estera dell’Unione.

Attualmente ci sono 21 missioni attive dell’UE. Molte di esse usano l’Africa come terreno di gioco. Il nostro gruppo, il gruppo della Sinistra al Parlamento europeo, ha recentemente pubblicato un eccellente studio sulle missioni dell’UE nella regione del Sahel, intitolato “Mission Creep Mali – Europe’s failed backyard policy”. La presenza militare dell’UE in Mali e nel Sahel in generale non è stata benevola; è stata concepita per promuovere gli interessi dell’UE e degli Stati membri, come l’accesso alle risorse e il controllo dei flussi migratori. La missione è stata sottovalutata, ma si è rivelata un vero e proprio disastro, spesso con conseguenze scioccanti per le popolazioni locali ed effetti a catena sui conflitti regionali. Nelle discussioni a Bruxelles, i Paesi africani sono ora sempre più visti come luoghi in cui l’UE può impegnarsi in contese geopolitiche con gli interessi russi e cinesi, e le missioni dell’UE sono considerate risorse strategiche in queste contese.

  1. Il complesso industriale della difesa

Un terzo grande ambito è il progetto di costruzione di un settore comune europeo della difesa. Tradizionalmente, le potenze militari hanno una propria industria della difesa – aziende produttrici di armi e appaltatori della difesa – che hanno un rapporto parassitario con lo Stato. Questo è ciò che il Presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower descrisse nel suo discorso di addio come “complesso militare-industriale”. Lo Stato finanzia le aziende produttrici di armi – con i soldi dei contribuenti – per fare ricerca e sviluppo per creare nuove tecnologie e armi. Lo Stato poi spende nuovamente i soldi dei contribuenti per riacquistare quei prodotti per equipaggiare le proprie forze armate. Questo rapporto crea ovviamente gravi conflitti di interesse. Crea anche incentivi economici per trovare e creare conflitti.

Alcuni Stati membri dell’UE hanno già un forte settore della difesa, ma l’obiettivo della politica dell’UE è incoraggiare le aziende europee della difesa a sviluppare lo stesso rapporto parassitario con l’UE stessa. Lo strumento principale a tal fine è il Fondo europeo per la difesa, un fondo proveniente direttamente dal bilancio dell’UE, che fornisce sovvenzioni per la ricerca e lo sviluppo alle aziende produttrici di armi.

Il Fondo europeo per la difesa ha una storia interessante. Nel 2015 la Commissione europea ha istituito un organo consultivo per consigliare come progettare la politica industriale di difesa dell’UE. Si chiamava Gruppo di personalità di alto livello sull’azione preparatoria per la ricerca nel settore della difesa. Idealmente, un organismo di questo tipo dovrebbe essere composto da esperti neutrali, che non traggono alcun vantaggio dai consigli che fornirebbero alla Commissione. Come documentato dai gruppi di vigilanza, il gruppo era invece composto dagli amministratori delegati dei principali appaltatori europei della difesa: Airbus, MBDA, BAE Systems, Saab, TNO, Leonardo, Indra e Frauenhofer. Un altro membro proveniva da Aeronautics, Space, Defence and Security Industries, la principale organizzazione di lobbying in Europa per gli appaltatori della difesa.

Il gruppo ha prodotto un rapporto che raccomandava la creazione di un Fondo europeo per la difesa, che avrebbe convogliato quantità crescenti di denaro dal bilancio dell’UE alle aziende produttrici di armi. La Commissione ha seguito le raccomandazioni contenute nel rapporto. Dopo due programmi preliminari, il FES è stato lanciato nel 2020 e attualmente finanzia la ricerca e lo sviluppo nel settore degli armamenti e della difesa per un importo di 8 miliardi di euro per il periodo 2021-2027. Le ricerche sui beneficiari dei finanziamenti dell’UE per la ricerca nel settore della difesa dimostrano che le aziende del Gruppo di personalità hanno beneficiato ampiamente della stessa politica che hanno progettato. Ora che il FES esiste, ci si può aspettare che la spesa dell’UE aumenti esponenzialmente, dato che l’industria fa pressione per ottenere sempre più sovvenzioni.

Un’importante conseguenza del fatto che l’Unione Europea sta pompando massicce tranche di denaro dei contribuenti nella ricerca sulla difesa è che la difesa si sta estendendo a tutti i settori della politica dell’Unione Europea, non solo a quello della difesa pura e semplice. La disponibilità di finanziamenti europei per la ricerca nel settore della difesa significa che la politica industriale in tutta l’UE attira le piccole e medie imprese nel settore della difesa, perché i soldi ci sono. Nascono prodotti e servizi con usi sia civili che militari. Le università sono incentivate a trovare dimensioni militari per i loro programmi di ricerca. Il settore civile viene lentamente militarizzato e reso complice del business della guerra, poiché i suoi finanziamenti e le sue priorità si sovrappongono agli interessi della difesa. Sono i finanziamenti dell’UE a guidare questa militarizzazione.

  1. Denaro in cambio di armi

La quarta area della politica di difesa dell’UE è il finanziamento congiunto dell’UE per l’acquisto di armi. Al momento, questo non proviene dal bilancio dell’UE, ma da uno strumento fuori bilancio lanciato nel 2021, che gli Stati membri finanziano con contributi diretti dai loro bilanci nazionali. Il suo tetto finanziario è di 5,7 miliardi di euro tra il 2021 e il 2027. Si chiama – con un senso di correttezza orwelliana – “Fondo europeo per la pace”. Sul sito web del Consiglio viene descritto come “volto a migliorare la capacità dell’Unione di prevenire i conflitti, costruire la pace e rafforzare la sicurezza internazionale”. Al momento il suo utilizzo principale è l’acquisto di armi da aziende del settore della difesa con l’esplicito scopo di inviarle in zone di conflitto considerate di importanza strategica per l’UE. Nell’ultimo anno, nell’ambito del Fondo europeo per la pace, sono state autorizzate sette tranche da 500 milioni di euro ciascuna, pari a 3,5 miliardi di euro, per armare l’Ucraina.

  1. Pianificazione strategica dell’UE

Un quinto settore importante è quello della pianificazione strategica. Questa viene portata avanti attraverso un progetto chiamato Bussola strategica europea – essenzialmente un documento strategico dell’UE che mira a definire un quadro generale per tutti gli Stati membri. Il documento mira a definire chi sono gli avversari, da dove provengono le minacce e quali sono le parti del mondo in cui l’UE dovrebbe essere coinvolta, e formula raccomandazioni sulle azioni che l’UE e gli Stati membri dovrebbero intraprendere per prepararsi a conflitti, minacce e sfide. La Bussola strategica è destinata a diventare un meccanismo importante per riunire Stati membri diversi (alcuni neutrali, come il nostro Paese, l’Irlanda) con interessi diversi in un unico blocco geopolitico e militare.

La Bussola Strategica assomiglia sempre più a un’autostrada per l’egemonia della NATO in Europa. Per alcuni anni c’è stato un braccio di ferro tra gli Stati pro-NATO, che volevano che la politica di difesa dell’UE fosse subordinata alla NATO, e gli agnostici della NATO, che volevano che fosse autonoma dalla NATO e dagli Stati Uniti. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha dato agli Stati pro-NATO un vantaggio decisivo. Di conseguenza, le strutture di difesa dell’UE, create per essere indipendenti dalla NATO, vengono ora utilizzate per incorporare più strettamente l’Europa nella strategia della NATO. A prescindere dalle loro posizioni ufficiali, ciò sta trasformando gli Stati membri non allineati e non appartenenti alla NATO in membri di fatto della NATO, intrappolando l’Unione Europea in modo sempre più sicuro all’interno della strategia globale degli Stati Uniti.

Conclusione

I processi che abbiamo descritto fanno parte di una trasformazione dell’Unione Europea da unione economica ampiamente associata all’ideale di pace sul continente europeo ad aspirante centro di potere militare. Questi sviluppi sono preoccupanti per le persone e le comunità che in Europa sono favorevoli alla pace. Nel corso della storia, gli armamenti e la militarizzazione sono sempre stati giustificati da ragioni di difesa, ma hanno tendenzialmente preceduto periodi di conflitto mondiale particolarmente brutali. Col senno di poi, la militarizzazione ha reso quei conflitti più probabili, non meno.

Tutto questo avviene nel contesto di un riemergente conflitto interimperialista, che porta con sé il peggioramento delle relazioni internazionali, l’aumento delle tensioni militari, il deterioramento degli accordi sul controllo degli armamenti e delle istituzioni multilaterali e l’accelerazione di una nuova corsa agli armamenti globale. È una scelta politica se l’Unione Europea continuerà a partecipare e ad accelerare questi processi o se invertirà la rotta e si impegnerà per frenarli. L’equilibrio delle forze politiche in Europa attualmente favorisce la prima ipotesi rispetto alla seconda. Senza una significativa mobilitazione delle forze antibelliche e antimilitariste in Europa, che si organizzino a livello nazionale e comunitario, è improbabile che questo equilibrio cambi.

 

Clare Daly è una parlamentare europea irlandese del gruppo The Left Gue/Ngl (la Sinistra del Parlamento Europeo) che alla plenaria del Parlamento Europeo del 2 febbraio scorso ha ricordato il caso di Alfredo Cospito, esponente anarchico al 41 bis in sciopero della fame.

Mick Wallace è un parlamentare europeo irlandese, membro del gruppo “Independents4Change”, associato al gruppo parlamentare The Left Gue/Ngl

Traduzione dall’inglese a cura di Effimera. Qui la versione originale.

da qui

 

 

 

Come la “nuova Europa” ha gettato la “vecchia” sull’orlo del precipizio – Giacomo Gabellini

A partire dal 1991, la Germania si rivelò capace di cogliere l’occasione presentatasi con il crollo dell’Urss per affinare ulteriormente il proprio livello di specializzazione nella produzione di beni di investimento complessi (automobili, aerei, treni, ecc.) e in tutti i vari aspetti della logistica, nonché per verticalizzare la manifattura e il commercio estero mediante la delocalizzazione delle produzioni dal ridotto valore aggiunto presso i Paesi dell’Europa centro-orientale. Nell’arco di pochi anni, il fenomeno ha consentito a Berlino di riprodurre nel cuore del “vecchio continente” il modello giapponese di specializzazione industriale nei comparti ad alto e/o altissimo valore aggiunto – con polacchi, ungheresi, cechi, sloveni, ecc. che hanno vestito i panni di malesi, taiwanesi, indonesiani e coreani – in grado di aggirare gli effetti negativi prodotti dai salari relativamente elevati e dall’orario di lavoro sempre più corto degli operai tedeschi.

Anni ’90: la Mitteleuropa a guida tedesca

Il risultato è stata la trasformazione dell’intera area mitteleuropea, già protagonista di un rapido processo di integrazione nella Nato, in fornitrice di componenti semilavorati per conto dell’hub industriale tedesco, le cui esportazioni cominciarono a caratterizzarsi da quel momento da un forte contenuto di importazioni. Come ha spiegato Marcello De Cecco nel 2009: «la Germania, negli ultimi due decenni, ha sviluppato una struttura geografica e anche merceologica del commercio estero abbastanza simile a quella che aveva prima del 1914. È riuscita a costituire al centro dell’Europa un enorme blocco manifatturiero integrato, includendo via via tutte le aree industriali ad essa vicine in una rete produttiva le cui maglie sono divenute sempre più strette. La misura della integrazione del sistema produttivo che la Germania ha ricreato al centro dell’Europa dopo la caduta del muro di Berlino è data dal rango che nelle statistiche tedesche ricoprono piccoli Paesi della Mitteleuropa come Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria […] [, ma anche Polonia, Romania, Belgio, Olanda, Austria e Svizzera]. Ciascuno di questi Paesi, nella classifica mondiale per esportazioni e importazioni, occupa posizioni assai inferiori a quelle che ha come partner commerciale della Germania. E quasi tutti, poiché o adottano l’euro o hanno monete ad esso agganciate, hanno poco da preoccuparsi dello squilibrio dei loro conti con i tedeschi».

Naturalmente, il ruolo di dominus rivestito dalla Germania in ambito comunitario ha comportato l’allineamento delle politiche europee alle necessità tedesche. Prova ne è la decisione del Consiglio d’Europa di ridurre del 35% i finanziamenti destinati ai Paesi mediterranei che erano stati concordati per il periodo 1992-1996 per riorientarli verso l’Europa orientale. Da allora, le sovvenzioni sono cresciute di anno in anno benché i Paesi destinatari degli aiuti non avessero l’obbligo di conformarsi agli stessi, rigidissimi criteri d’austerità a cui erano chiamati ad adeguarsi i membri dell’eurozona, sottoposti ai vincoli della Banca Centrale Europea.

Anni 2000: la pioggia di aiuti europei alla Polonia

La Polonia, nazione strategicamente cruciale per la penetrazione economica tedesca verso est e per la sua posizione geografica di “ponte” tra Russia ed Europa continentale, è stata letteralmente investita da una pioggia di aiuti economici europei (oltre 81 miliardi di euro tra il 2007 e il 2013) grazie ai quali Varsavia ha avuto modo di ammodernare la rete dei trasporti nell’ambito di un poderoso programma di ricostruzione delle fondamentali infrastrutture nazionali che ha inciso poco o nulla in termini di indebitamento (il debito pubblico e di poco superiore al 50% del Pil). Tra il 2008 e il 2016, moltissime imprese multinazionali hanno aperto propri stabilimenti in Polonia favorendo il dimezzamento del tasso di disoccupazione (15,2% del 2004 al 7,7% del 2014) e il rilancio della produttività interna. Nazioni anch’esse caratterizzate da basso costo del lavoro e da una manodopera di buon livello quali Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia hanno imboccato processi di sviluppo paragonabili a quello polacco, beneficiando a loro volta della delocalizzazione degli impianti produttivi e dell’ampio margine di manovra in ambito di interventi statali sull’economia incoraggiati dalle regole europee.

Nel corso degli anni, l’Europa orientale si è gradualmente emancipata dal ruolo di mera subfornitrice dell’industria tedesca, adattandosi a svolgere le fasi produttive più complesse; un fenomeno che trae origine dalla carenza di manodopera qualificata in Germania, dove – a differenza dei Paesi mitteleuropei – le scuole vocazionali hanno cominciato a perdere buona parte della loro attrattiva in favore delle università. Questo, per lo meno, è quanto asserito dalla maggioranza del Bundestag per giustificare l’introduzione di un disegno di legge atto a schiudere le porte tedesche a migliaia di lavoratori qualificati provenienti dai Paesi non aderenti all’Unione Europea, nonostante i forti sospetti sollevati in alcuni ambienti progressisti secondo cui l’intera manovra sarebbe frutto di una campagna orchestrata dagli industriali tedeschi interessati a rinfoltire l’esercito di manodopera scarsamente retribuita per mantenere costante la pressione sui salari interni.

Il fenomeno delle “reverse maquiladoras” nel cuore dell’Europa

Fatto sta che la presunta scarsità di operai altamente specializzati è stata sfruttata come pretesto dalle imprese manifatturiere tedesche per riprodurre nel cuore dell’Europa il fenomeno, fino ad allora confinato al continente nordamericano, delle reverse maquiladoras, coniato in riferimento agli stabilimenti messicani in cui si assemblano prodotti statunitensi dall’elevato valore aggiunto. Non è un caso che, tra il 1998 e il 2013, quasi il 60% del valore aggiunto della produzione tedesca sia stato realizzato proprio con manifatture a elevato impiego di manodopera disseminate nella Mitteleuropa, oltre che in Danimarca, Finlandia, Svezia, Austria, Benelux e Italia settentrionale. La Germania si è imposta come principale partner commerciale praticamente di tutti questi Paesi; l’interscambio realizzato con Austria, Repubblica Ceca, Lussemburgo, Olanda, Slovacchia, Ungheria e Polonia è in genere più del doppio rispetto a quello che gli Stessi accumulano con il loro secondo partner commerciale…

continua qui

 

 

L’ultima provocazione della NATO – Massimo Mazzucco

Quella che segue è una lista di eventi storici (*) che ripercorre tutti i passaggi più importanti che riguardano la possibile entrata nella NATO dell’Ucraina, dal 2014 ad oggi. Entrata che i russi hanno sempre detto di non poter tollerare, per motivi che non è nemmeno necessario spiegare.

2014 – Non appena diventato primo ministro (dopo il colpo di stato di Maidan), Arseniy Yatsenyuk viene ricevuto alla Casa Bianca, e si premura di far sapere al mondo da che parte starà la nuova Ucraina: “Probabilmente nei prossimi 7-10 giorni l’Ucraina firmerà la parte politica dell’accordo di associazione con l’Unione Europea. E vogliamo dire molto chiaramente che l’Ucraina è e sarà parte del mondo occidentale”.

Dopodichè Yatsenjuk invita la NATO a venirlo a trovare a Kiev, e chiede apertamente aiuti e armamenti per supportare il nuovo governo: “Ho esteso un invito al Consiglio Nord-Atlantico per visitare Kiev, e sarà splendido se ci incontreremo a Kiev. Noi crediamo che sia necessario aumentare la nostra cooperazione, e sarebbe bello se potessimo avere qualche forma di aiuto addizionale, supporto tecnico, supporto umanitario, per migliorare il sistema di difesa ucraino, a livello tecnico. Questo ci aiuterebbe a stabilizzare la situazione e a mantenere pace e stabilità nella regione.”

Il 29 agosto 2014 Yatsenyuk annuncia che l’Ucraina chiederà ufficialmente di entrare nella NATO.

Il 21 novembre 2014 la coalizione di governo ucraina annuncia che la NATO è la loro priorità.

Il 23 dicembre 2014, il parlamento di Kiev mette fine allo stato di non-allineamento dell’Ucraina, condizione necessaria per iniziare il processo di ammissione alla NATO.

Nel marzo 2015, il presidente Poroshenko approva un piano di esercitazioni militari multilaterali con la NATO. Fra queste, l’operazione “Guardiano Impavido”, con duemiladuecento soldati di cui 1000 americani, l’operazione “Brezza di mare”, con mille militari americani e 500 della NATO, e l’operazione “Tridente rapido”, con 500 militari americani e 600 della NATO. L’11 di aprile 2015 arriva in Ucraina il primo convoglio militare della NATO, per l’operazione “Guardiano Impavido”, partito da Vicenza.

Nell’aprile 2016 Joe Biden (allora vice di Obama) promette a Poroshenko 335 milioni di dollari in aiuti “per la sicurezza”. Questi andranno ad aggiungersi ad un terzo prestito da un miliardo di dollari.

Nel giugno 2017 la Rada, il parlamento di Kiev, vota una legge che ristabilisce l’ingresso nella NATO come priorità per la politica estera ucraina. La legge è firmata dal presidente della Camera Andrij Parubij, che è stato il cofondatore del partito neonazista Svoboda. Parubij è stato indagato per la strage di Odessa, ed ha pubblicamente lodato Hitler in televisione, dicendo che è stata la più grande persona a praticare la democrazia diretta. Questo era il presidente del parlamento Ucraino sotto Poroshenko.

Nel luglio 2017 Poroshenko incontra il segretario della nato Stoltemberg e chiede ufficialmente che venga iniziato il percorso di ammissione alla NATO.

Nel settembre 2018 Poroshenko chiede al parlamento di emendare la costituzione, in modo da rendere più facile l’ingresso dell’Ucraina nella NATO.

Il 7 Febbraio 2019 il parlamento approva i cambiamenti richiesti alla costituzione e conferma il percorso dell’Ucraina verso l’Unione Europea e la NATO, con un totale di 334 voti a favore su 385.

Il 21 febbraio 2019 entra ufficialmente in vigore in Ucraina la modifica della Costituzione che prevede l’ingresso nell’UE e nella NATO.

Nel maggio 2019 Zelensky vince le elezioni e prende il posto di Poroshenko. Appena eletto, Zelensky vola a Bruxelles e incontra Stoltemberg, segretario della NATO.

Nel giugno 2020, la NATO concede all’Ucraina lo status di “partner con accresciute opportunità”.

Nel settembre 2020, il presidente Zelensky approva la nuova strategia di sicurezza nazionale, che prevede lo sviluppo della speciale partnership con la NATO, allo scopo di diventarne membro.

Il 24 marzo 2021 Zelensky firma un decreto presidenziale per “attuare la decisione del consiglio di sicurezza e difesa nazionale dell’Ucraina, sulla strategia di disoccupazione e reintegrazione del territorio temporaneamente occupato della repubblica autonoma di Crimea e della città di Sebastopoli.” “Strategia di disoccupazione e reintegrazione del territorio” significa riprendersi militarmente la Crimea e Sebastopoli.

Nel maggio 2021, il senatore americano Chris Murphy visita Kiev e incontra Zelensky. Dopodichè annuncia che “aprire all’Ucraina il percorso di adesione sarà il prossimo passo logico verso l’ingresso nella NATO”.

Un mese dopo, al summit di Bruxelles, i leader della NATO riconfermano la decisione presa nel 2008 al summit di Bucharest: l’Ucraina diventerà un membro dell’alleanza, con il Piano di Adesione che farà parte integrante della procedura.

Il 28 giugno 2021 l’Ucraina e la NATO lanciano una esercitazione militare congiunta nel Mar Nero.

Il 28 novembre 2021 Mosca chiede garanzie legali che l’Ucraina non entrerà mai nella NATO. Queste garanzie non le vengono date.

Il 30 novembre 2021 Putin dichiara ufficialmente quale sia la linea rossa dei russi sull’Ucraina: “Qualunque ulteriore posizionamento di forze o di materiali NATO in Ucraina rappresenterebbe la linea rossa per il suo paese.” Putin ha sottolineato soprattutto le sue preoccupazioni per il potenziale arrivo di missili ipersonici a lunga gittata, che potrebbero colpire Mosca in 5 minuti. “Spero che non arriveremo a questo – ha detto Putin – e che il buon senso e la responsabilità verso i propri paesi e verso la comunità globale alla fine prevalgano”.

Il primo dicembre 2021, Putin chiede ufficialmente garanzie che la NATO non si espanderà verso Est. Ma gli stati Uniti rispondono che “per l’Ucraina le porte sono sempre aperte”.

Il 23 dicembre 2021, in conferenza stampa, Putin torna a ripetere che per loro un’ulteriore espansione della NATO verso est è inaccettabile, e torna per l’ennesima volta a spiegarne i motivi: “Abbiamo detto chiaramente che ogni ulteriore movimento della NATO verso est è inaccettabile. Non c’è niente di poco chiaro al riguardo. Noi non stiamo mettendo i nostri missili ai confini degli Stati Uniti. Mentre gli Stati Uniti stanno piazzando i loro missili vicino a casa nostra, davanti al cortile di casa. Quindi, stiamo forse chiedendo troppo? Gli stiamo semplicemente chiedendo di non piazzare i loro sistemi di attacco a casa nostra. Cosa c’è di così strano in questo?”

Il 31 gennaio 2022, alle nazioni Unite, l’ambasciatore russo accusa pubblicamente gli Stati Uniti di fomentare le tensioni e di provocarli verso la guerra, come se quello fosse davvero il loro desiderio nascosto: “I nostri colleghi [americani] dicono che bisogna ridurre le tensioni. Ma sono loro i primi ad aumentare le tensioni e alzare i toni, e stanno provocando una escalation. Parlare di una minaccia di guerra è una provocazione in sè stessa. Sembra quasi che voi la stiate cercando. E come se voleste che succedesse, lo state aspettando. E come se voi voleste che le vostre parole si avverassero.”

L’8 febbraio 2022 Putin lancia un ultimo avviso tramite i media occidentali: “Lo voglio sottolineare ancora una volta. Lo vado dicendo da tempo, ma voglio davvero che finalmente mi ascoltiate, e lo comunichiate al vostro pubblico su stampa, tv e internet. Vi rendete conto che se l’Ucraina entra nella NATO e cerca di riprendersi la Crimea per via militare, i paesi europei si troveranno automaticamente coinvolti in un conflitto militare con la Russia? Non ci saranno vincitori. Vi ritroverete coinvolti in questa guerra contro la vostra volontà.”

Subito dopo la Russia fa un’ultima richiesta ufficiale agli Stati Uniti, di mettere per iscritto che l’Ucraina non entrerà a far parte della NATO, e che non ospiterà armi balistiche della NATO. Da Washington, Blinken risponde picche: “Dal nostro punto di vista non posso essere più chiaro. La porta della NATO è aperta, rimane aperta, e questo è il nostro impegno”.

24 febbraio 2022: rimasto senza opzioni, Putin è costretto ad invadere l’Ucraina.

E oggi, dopo oltre un anno di guerra, il segretario della Nato Stoltemberg non trova nulla di meglio da fare che andare a Kiev e dire a Zelensky che “Il posto dell’Ucraina è nella Nato. E nel tempo, il nostro sostegno contribuirà a renderlo possibile”.

Qui non è più il caso di dire “c’è un aggressore e c’è un aggredito”, come ripete Mentana da oltre un anno, ma “c’è un provocatore e c’è un provocato”. Il provocatore sono gli USA, il provocato è Putin. Quindi, di chi è la colpa di tutto quello che succede in Ucraina?

* Tutti gli eventi storici citati sono documentati nel video “Ucraina l’altra verità” che potete trovare su luogocomune.net.

da qui

 

 

Distrutto il comando Nato in Ucraina – Alberto Capece

I documenti fatti trapelare dal Pentagono -. credo che nessuno al mondo possa pensare che siano stati diffusi da un ragazzino spia –  sono arrivati quasi esattamente un mese dopo che i russi hanno fatto saltare un bunker a Leopoli, la città  più occidentale dell’Ucraina  dove si trovava il più importante comando della Nato con molti alti ufficiali americani, britannici e polacchi, compresi a quanto pare anche dei generali  Benché  inizialmente si sia saputo pochissimo sull’attacco  se si eccettua  un accenno nel bollettino giornaliero del ministero della guerra russo che faceva intuire come  fosse stato lanciato un missile Kinzhal come rappresaglia per l’attacco terroristico organizzato da Kiev nella regione di Bryansk il 2 marzo, pian piano  sono cominciate a trapelare notizie più precise sull’azione russa che si è rivelata una delle più letali di tutta la guerra. Letale sotto molto punti di vista perché ha esposto in maniera impietosa la debolezza della Nato sotto ogni punto di vista. Il comando dell’Alleanza atlantica, ma anche il vertice delle forze armate ucraine si era sistemato vicino a Leopoli in un complesso sotterraneo potentemente fortificato che al  tempo dell’Unione sovietica era stato il  posto di comando  dell’ex distretto militare dei Carpazi ed era concepito per resistere a un attacco nucleare. Questa struttura segreta, ben protetta, dotata di moderni sistemi di comunicazione nonché di  una fitta rete di difesa aerea, era  stata scelta da generali e colonnelli della Nato sin dal 2014 quando scoppiarono le prime ostilità in Donbass a ulteriore testimonianza del fatto che era la guerra l’obiettivo finale degli americani e di loro lacchè europei.

In effetti questa fortezza posta a 120  metri sotto il suolo e incapsulata da  molti metri di cemento armato infondeva un tale senso di sicurezza che alla fine ha portato i suoi abitanti a violare anche le più ovvie regole di sicurezza tanto che  a volte dozzine di macchine si radunavano all’ingresso del quartier generale anche in pieno giorno permettendo così alla sorveglianza satellitare russa di individuare la tana del nemico ed elaborare un piano di distruzione da grandissima distanza, per non mettere in allarme i comandi sotterranei e indurli a traslocare altrove. Non si può infatti pensare di distruggere un bunker di questa profondità con normali missili, né era sensato bombardalo con ordigni termobarici anche da una tonnellata e mezza perché occorreva  colpire punti precisi cosa non  esattamente facile viste le potenti difese aeree che erano state allestiye.  Così i russi hanno scelto di lanciare da 2000 mila chilometri di distanza due missili ipersonici Kinzhal, inintercettabili ciascuno con una testa esplosiva di 500 chili che sono arrivati sull’obiettivo a 13 mila chilometri orari con un impatto spaventoso e una precisione inferiore al metro: nessuno degli oltre 300 altri ufficiali presenti si è salvato…

continua qui

 

 

Con l’uranio non si rischia solo l’escalation – Fulvio Scaglione

Ormai siamo abituati. C’è l’assedio di Mariupol’? Parte la campagna per spiegare che i militanti del Battaglione Azov sono brave persone, ottimi papà e fini intellettuali. La polizia ucraina mette agli arresti domiciliari, con tanto di braccialetto elettronico, l’anziano metropolita Pavel, priore del Monastero delle Grotte di Kiev? Ecco che ci spiegano che il religioso della Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Mosca è un ghiottone godurioso e amante del lusso. Era difficile immaginare, però, che la stessa operazione sarebbe stata fatta per le munizioni a uranio impoverito che il Regno Unito ha deciso di fornire alle forze armate ucraine. Triste lo spettacolo della pletora di esperti e pseudo-esperti accorsi in tutte le televisioni a spiegare che l’arrivo al fronte di questi proiettili non è un’escalation nel conflitto. Penoso l’argomento successivo: sono stati usati già nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, in Libia… Come dire: tutto bene, che volete?

In primo luogo: il problema non è se la fornitura di proiettili a uranio impoverito rappresenti o no un’escalation. L’intero conflitto lo è. Da una guerra a intensità relativamente bassa nel Donbass (comunque con 14mila morti) siamo passati all’invasione russa dell’Ucraina. Dal ridotto contingente russo dei primi mesi siamo passati alla mobilitazione di 300mila riservisti. Dalle armi di contenimento inizialmente fornite all’Ucraina dai Paesi occidentali siamo arrivati ai missili a lungo raggio, ai carri armati e prossimamente ai caccia. In assenza di una seria iniziativa diplomatica, questa guerra non poteva che allargarsi e crescere. Cosa che è puntualmente avvenuta. I proiettili all’uranio impoverito sono solo la tappa più recente di questo processo, che pian piano ci avvicina allo spettro delle armi nucleari.

Il problema vero sta nella seconda giustificazione che è stata fatta risuonare. I proiettili DU (Depleted Uranium) sono già stati usati, sono munizioni “normali”. È vero che, a dispetto degli allarmi lanciati da molte organizzazioni umanitarie e dagli stessi esperti dell’Onu, le munizioni a uranio impoverito non sono bandite da alcuna convenzione o trattato. Solo Belgio e Costa Rica le hanno vietate. A livello internazionale, il massimo che sia stato fatto è una Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu, appoggiata da 155 Stati, affinché venisse adottato “un approccio cauto” al suo impiego. Nondimeno, l’impiego di tali munizioni in nessun modo può essere considerato “normale”. E noi italiani dovremmo saperlo meglio di chiunque altro.

Nel 2019, a Torino, si tolse la vita il caporalmaggiore Luigi Sorrentino, 40 anni. Si era ammalato di leucemia, cosa che aveva sempre attribuito alle missioni affrontate in Kosovo e Afghanistan. L’autopsia rilevò tracce di uranio 238 nel suo midollo osseo. Il caso riportò alle cronache il tema dell’uranio impoverito usato in abbondanza nella guerra contro la Serbia, e delle sue conseguenze. Secondo l’Osservatorio militare, a quell’epoca già si registravano 366 decessi tra i soldati italiani e 7.500 casi di malattia. Il ministero della Difesa, quindi il governo italiano, ha sempre negato la relazione diretta tra le munizioni DU e le malattie. Ma ci sono 133 sentenze della magistratura che dicono l’esatto contrario.

Nella migliore delle ipotesi, dunque, dei proiettili a uranio impoverito (usati per il loro alto potere perforante) bisognerebbe diffidare, perché rappresentano un forte rischio sia per chi li subisce sia per chi li usa. Infatti le stesse patologie dei nostri soldati, guarda caso, si registrano presso la popolazione serba. E se li pensiamo in relazione all’Ucraina, ancor più di prima. Proprio per la seconda motivazione addotta dai nostri simpatici agit-prop bellicisti: sono già stati usati in Afghanistan, in Iraq, in Libia, nei Balcani… Vero. Ma su quei fronti li usavamo solo noi, nessuno degli avversari su quei fronti ne disponeva. E il racconto delle conseguenze è solo nostro: chi ha mai chiesto l’opinione di iracheni, afghani, libici?

La Russia, invece, dispone di un grande arsenale di proiettili DU, il secondo al mondo dopo quello Usa. Per dare un’idea: già nel 1996 nei magazzini di Mosca, per quel che si sa, ce n’erano 460mila tonnellate; il Regno Unito, che ora li vuole fornire agli ucraini, nel 2001 ne dichiarava 30mila tonnellate. Davvero qualcuno pensa che i russi, se si trovassero in difficoltà, non ricorrerebbero anche loro a quest’arma?

Immaginiamo quindi ciò che può succedere domani in Ucraina, con i due eserciti che si scambiano cannonate dall’impatto chimico potenzialmente dannoso, e soprattutto ciò che può succedere dopodomani alla popolazione ucraina, costretta a vivere in territori che a quel punto sarebbero contaminati da polveri o frammenti rilasciati dai proiettili esplosi e non.. Un’Ucraina, ricordiamolo, che a causa dell’invasione russa e del prolungamento della guerra sta già perdendo una generazione: il Times ha pubblicato un’analisi sulla sua popolazione svolta dall’Onu, con un confronto tra 2021 e 2023. Nel 2021 venivano censiti 200mila ragazzi ventenni, nel 2023 solo 70mila. Mentre il numero delle ragazze della stessa età è diminuito da 200 a 50mila.

Ma c’è di più. Che cosa potrebbe succedere alla già disastrata economia ucraina se i russi, per rappresaglia, cominciassero ad utilizzare enormi volumi di proiettili all’uranio impoverito, lasciandone i resti concentrati nei terreni agricoli? Coldiretti ci dice che l’Ucraina, ancora oggi, rappresenta il 10% del commercio mondiale di frumento tenero e il 46% del mais per l’alimentazione animale. Quelli che l’uranio impoverito è una buona cosa, mangerebbero un piatto di spaghetti fatti con il grano ucraino o la bistecca di un manzo cresciuto a mais ucraino?

da qui

 

 

Guerra, divisione del mondo o fine di un impero? – Thierry Meyssan

In molti pronosticano una guerra mondiale. Infatti alcuni gruppi vi si preparano. Ma gli Stati sono ragionevoli e, nei fatti, pensano piuttosto a una separazione consensuale, a una divisione del mondo in due mondi diversi, il primo unipolare, l’altro multipolare. Ma forse si delinea un terzo scenario: l’“Impero americano” non si dibatte nella trappola di Tucidide, sta collassando come l’ex rivale, l’Unione Sovietica

Gli straussiani statunitensi, i nazionalisti integralisti ucraini, i sionisti revisionisti israeliani, nonché i militaristi giapponesi si augurano una guerra generalizzata. Sono isolati, sicuramente non sono movimenti di massa. Al momento nessuno Stato sembra volersi avviare su questa strada.

La Germania con cento miliardi di euro e la Polonia con molta meno disponibilità finanziaria si stanno riarmando pesantemente. Entrambe però non sembrano impazienti di misurarsi con la Russia.

Anche l’Australia e il Giappone investono negli armamenti, ma entrambi non hanno forze armate autonome.

Gli Stati Uniti non riescono a rinnovare gli effettivi delle loro forze armate e non sono più in grado di inventare nuove armi. Si accontentano di produrre in serie quelle degli anni Ottanta. Tuttavia salvaguardano la loro potenza militare nucleare.

La Russia ha già modernizzato le forze armate e si sta organizzando per sostituire le munizioni usate in Ucraina e per produrre in serie nuove armi per le quali non ha concorrenza. Quanto alla Cina, si sta riarmando per controllare l’Estremo Oriente e per proteggere in prospettiva le sue vie commerciali. L’India ambisce diventare potenza marittima.

Non si capisce quindi chi potrebbe desiderare e quindi scatenare una guerra mondiale.

Al contrario di quanto affermano, i dirigenti francesi non stano affatto preparandosi a una guerra ad alta intensità [1]. La legge di programmazione della spesa militare, ripartita su un decennio, prevede la costruzione di una portaerei nucleare, ma ridimensiona l’esercito. Il piano è dotarsi di mezzi di proiezione, ma non di difesa del territorio. Parigi insiste a ragionare come potenza coloniale, mentre il mondo diventa multipolare. È un classico caso: i generali si preparano ad affrontare guerre come quelle di ieri, non sanno vedere la realtà di quelle di domani.

L’Unione Europea sta realizzando la Bussola Strategica. Con cui la Commissione coordina gli investimenti militari degli Stati membri: tutti stanno alle regole, ma ciascuno persegue il proprio scopo. La Commissione tenta di assumere il controllo delle decisioni di spesa militare, finora di competenza dei parlamenti nazionali. Un modo per costruire un impero, ma non per dichiarare una guerra generalizzata.

Ognuno ovviamente fa il proprio gioco, ma, all’infuori di Russia e Cina, nessuno si sta preparando a una guerra ad alta intensità. Assistiamo piuttosto a una redistribuzione delle carte. Questo mese Washington manda in Europa Liz Rosenberg e Brian Nelson, specialisti delle misure coercitive unilaterali [2]. Hanno l’incarico di costringere gli Alleati a obbedire, in ottemperanza alla famosa formula dell’ex presidente George Bush Jr. durante la guerra «contro il terrorismo»: «Chi non è con noi è contro di noi!».
Liz Rosenberg è efficiente e senza scrupoli: è lei che ha messo in ginocchio l’economia siriana, condannando milioni di persone alla miseria solo perché hanno osato resistere e sconfiggere gli ausiliari dell’Impero.

Il discorso da western hollywoodiano alla George Bush Jr, quello dei buoni e dei cattivi, non ha avuto successo con la Turchia, che già ha dovuto fare i conti con il colpo di Stato del 2016 e il terremoto del 2023. Ankara sa che non può aspettarsi niente di buono da Washington e già guarda all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Ma il discorso dovrebbe avere successo con gli europei, tutt’ora affascinati dalla potenza degli Stati Uniti. Che naturalmente è potenza in declino, ma anche gli europei lo sono. Nessuno, quindi, ha tratto lezione dal sabotaggio dei gasdotti Nord Stream di Russia-Germania-Francia-Paesi Bassi. Non soltanto le vittime hanno incassato il colpo senza reagire, ma si preparano a ricevere altre punizioni per crimini che non hanno commesso.

Il mondo dovrebbe perciò dividersi in due blocchi; da una parte l’iperpotenza statunitense e i suoi vassalli, dall’altra il mondo multipolare. Come numero, gli Stati dovrebbero dividersi a metà, ma come popolazione solo il 13% rientra nel blocco occidentale, a cospetto dell’87% nel mondo multipolare.

Già ora le istituzioni internazionali funzionano con difficoltà. Dovrebbero o andare in letargo o venire sciolte. I primi esempi cui pensiamo sono l’uscita effettiva della Russia dal Consiglio d’Europa e i seggi vuoti dell’Europa occidentale al Consiglio dell’Artico durante l’anno di presidenza russa. Anche altre istituzioni hanno poca ragione di esistere; per esempio l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), che avrebbe dovuto organizzare il dialogo est-ovest. Solo il permanere di Russia e Cina dovrebbe preservare a breve termine le Nazioni Unite: gli Stati Uniti stanno già coltivando l’idea di trasformare l’Organizzazione in struttura riservata alle nazioni alleate.

Il blocco occidentale dovrebbe riorganizzarsi. Finora il continente europeo è stato dominato economicamente dalla Germania. Per assicurarsi che questa non si avvicini mai alla Russia, gli Stati Uniti vogliono che Berlino si accontenti della parte occidentale del continente, lasciando la parte centrale nelle mani di Varsavia. La Germania e la Polonia ora si armano per imporsi nelle rispettive zone d’influenza, ma quando l’astro statunitense impallidirà si combatteranno.

Al momento della caduta l’Unione Sovietica ha abbandonato gli alleati e i vassalli. Avendo preso atto di essere incapace di risolvere i problemi, l’URSS ha innanzitutto privato Cuba del sostegno economico, poi abbandonato a loro stessi i vassalli del Patto di Varsavia, infine è crollata su se stessa. Oggi comincia un processo analogo.

La prima guerra del Golfo degli Stati Uniti, poi gli attentati dell’11 Settembre con il corollario di guerre nel Medio Oriente Allargato, indi l’allargamento della Nato e il conflitto ucraino avranno concesso solo tre decenni di sopravvivenza all’impero americano: si appoggiava all’ex rivale sovietico e con la sua dissoluzione ha perso la propria ragione di essere. È tempo che sparisca.

da qui

 

 

Highlands Forum e le origini (ben celate) di Google – Daniele Luttazzi

Come la Cia ha creato Google. Il successo imprenditoriale di Google, e la sua onnipresenza, risultano meno sorprendenti alla luce di quanto scoperto qualche anno fa dal giornalista investigativo Nafeez Ahmed: “Google è una cortina fumogena dietro la quale si annida il complesso militare-industriale statunitense” (bit.ly/41cGCDb).

È una lunga storia.

Nel 1994 il Pentagono istituì l’Highlands Forum (bit.ly/3AmY6Bn), un network che fa da ponte fra governo Usa e grandi appaltatori della Difesa come Booz Allen Hamilton e Science Applications International Corporation (Saic).

Quelle industrie, indicate talvolta come “intelligence ombra” a causa delle porte girevoli tra loro e l’amministrazione Usa, influenzano e traggono profitto dalla politica bellica statunitense. Secondo la rivista New Scientist, l’Highlands Forum è un conciliabolo di élite (funzionari di Stato, militari, industriali, scienziati) “come Davos, Ditchley e Aspen”, anche se “molto meno noto”.

Ahmed: “Nonostante sia sponsorizzato dal Pentagono, non c’è alcuna pagina ufficiale sul Forum nel sito web del Dipartimento della Difesa (DoD). Fonti militari e di intelligence Usa non ne avevano mai sentito parlare, e nemmeno i giornalisti che scrivono di sicurezza nazionale. Ero sconcertato”.

John Clippinger, uno scienziato del Mit, partecipò a un incontro dell’Highlands Forum, “una riunione solo su invito finanziata dal DoD e presieduta dal funzionario del Pentagono che supervisiona le operazioni delle agenzie spionistiche maggiori, come la Nsa e la Dia”.

Il sito web principale del Forum descrive le Highlands come “una rete interdisciplinare informale sponsorizzata dal governo”, incentrata su “informazione, scienza e tecnologia”. Ma Highlands ha anche un altro sito web, dove si descrive come una società con “vasta esperienza nell’assistere corporation, organizzazioni e leader di governo”. Fra i servizi offerti, “pianificazione strategica” e “creazione di scenari per l’espansione dei mercati globali”.

Il sito web afferma che “The Highlands Group Inc.” organizza forum su questi temi; e rivela anche che Highlands è partner di uno dei maggiori appaltatori della Difesa Usa, la Saic. Il presidente fondatore dell’Highlands Forum è Dick O’Neill, un ex capitano di Marina che lavorava al DoD presso l’ufficio del segretario alla Difesa. Clippinger scrisse anche di un individuo venerato dai partecipanti al Forum: Andrew Marshall, uno dei funzionari più influenti del DoD. Dal 1973, Marshall è a capo di una delle agenzie più potenti del Pentagono, l’Office of Net Assessment (Ona), il think tank interno del segretario alla Difesa degli Usa. Fra i protetti di Marshall figuravano il vicepresidente Cheney, il segretario alla Difesa Rumsfeld e il vicesegretario Wolfowitz: i falchi neo-con di Bush. Nel 2001, O’Neill affermò che Marshall era co-presidente di Highlands Forum insieme con lui e con Anthony Tether, direttore della Defense Advanced Research and Projects Agency (Darpa) nonché ex vicepresidente della Saic. Agli esordi, O‘Neill dichiarava: “Nei nostri incontri includeremo persone di Booz, Saic, Rand e altri. Sono in grado di influenzare le politiche del governo con vero lavoro accademico. Produciamo idee, interazione e reti affinché queste persone possano prenderle e usarle quando ne hanno bisogno”.

Clippinger: “Ciò che accade nelle riunioni dell’Highlands Forum potrebbe nel tempo avere un impatto enorme in tutto il mondo”.

Il Forum ha avuto un ruolo strumentale nell’incubare l’idea della sorveglianza di massa come meccanismo per dominare l’informazione su scala globale.

da qui

 

 

Stretti Perigliosi – Paolo Di Marco

1- Qualche nota a partire dal dibattito Rovelli-Sofri

L’intervento di Rovelli sulla pagina FB di Sofri (qui) ha un tono molto pacato ed anche accorato, esprime concetti e riflessioni che potremmo dire di grande buonsenso e largamente condivisibili anche da chi ha sensibilità diverse.
D’altro tono la risposta di Sofri (qui),  assai elaborata, studiata ad arte direi.
L’importante è quello che non dice: è un attento navigare in acque perigliose che impongono di evitare scogli imponenti ma invisibili, acque vorticose in agguato dietro i promontori.
Subito si scapola dal confronto equiparando il generale Mini a Putin. È più facile ricoprire l’avversario di pece e piume che non confutarlo, anche perchè dio non volesse che nella confutazione potrebbero comparire delle finestre aperte su panorami inaspettati e scomodi.
E lo scoglio del ruolo degli USA viene ridotto a sineddoche: ‘anche Biden è stato colto di sorpresa dalla resistenza ucraina’ o si va per la tangente dello scoglio con ‘’io c’ero’: gli orrori del Daesh, le sofferenze dei civili in Siria; e con santa ingenuità si dimentica chi ha invaso l’Iraq e la Siria, la provetta agitata da Powell, i bombardamenti, le migliaia di civili uccisi a distanza dai droni; nessuno ha detto all’Ingenuo che il cuore dei combattenti del Daesh erano quello che restava delle truppe scelte di un esercito distrutto dagli americani (un esercito in fuga nel deserto, abbandonate le armi, asfissiato e bruciato vivo dalle bombe incendiarie buttate a mezza altezza ad aspirare tutto l’ossigeno), colla mezza luna a compiere lo stesso ruolo che per i predoni spagnoli in Messico aveva svolto la croce.
Perché l’Ingenuo guarda al momento, al qui e ora di chi se le suona, e non gli interessa risalire ai prodromi, agli antecedenti, forse alle cause.
E così anche Sarajevo e le ‘benedette bombe’ buttate sui serbi; perché l’Ingenuo non ha mai letto Chossudovsky (‘Dismantling Yugoslavia; Colonizing Bosnia’ By Prof. Dr. Michel Chossudovsky, Covert Action, No. 56, Spring 1996) e chi sta dietro lo smantellamento della Jugoslavia dopo la morte di Tito (guarda caso gli USA, con IMF e banche olandesi come esecutori) e la conseguente compressione l’una contro l’altra di regioni ed etnie fino ad allora in pace. In nome sempre della democrazia e dei valori occidentali.
Valori occidentali che sono così forti di vita propria da aver bisogno di una spesa militare di 778 miliardi di dollari per i soli Stati Uniti (40% di quella mondiale), di centinaia di basi militari : l’unico paese ad avere basi militari sparse per il mondo, molte intorno alla Cina e alla Russia.
A proposito della Russia, e dell’Ucraina: per l’Ingenuo la guerra è cominciata nel Febbraio ’22, del golpe del ’14 non sapeva nulla, del referendum in Ucraina non aveva sentito parlare, del referendum in Donbass e delle stragi seguenti (ad opera dei nazisti ucraini) neppure. Del ruolo degli esportatori di democrazia, come la Viktoria Ruland (mrs ‘Fuck EU’) di queste cose non aveva idea.
Tornando alla Russia, l’Ingenuo non aveva mai sospettato che dopo la caduta del muro ci fosse stato un progressivo spostamento di nazioni dal Patto di Varsavia alla Nato -ogni volta con giuramenti accorati del presidente USA di turno che non ce ne sarebbero stati più- non avrebbe mai creduto che la Russia si sarebbe sentita strangolata.
Quando solo un anno dopo l’inizio della guerra ha visto l’Europa dissolversi, l’economia a pezzi e la politica a brandelli, forse ha applaudito entusiasta il trionfo della democrazia.
Nel frattempo ha anche trovato il tempo di strizzare l’occhio al popolo novax, anche se la fatica di scansare i vaccini gli ha impedito di accorgersi che il virus era figlio legittimo della guerra batteriologica preparata nel mondo da decine di laboratori (di cui il 90% a finanziamento USA: CDC, Fauci -> Daszak (EcoHealthAlliance) ->laboratorio di Wuhan e molti altri…Wade, Bulletin of the Atomic Scientists, 5/5/’21, Wallace-Wells, NYTimes, 28/2/’23)
(Non si chiama più col nome originale bandito dall’ONU e proibito da Obama, ma coll’eufemismo ‘gain-of-function’ e segue la stessa logica: a) si prende un agente patogeno (virus o batterio) presente in natura —>b) lo si virulenta (il gain-of-function) con un poco di ingegneria genetica che lo renda predisposto per l’uomo —>c) si costruisce un vaccino —>d) lo si sperimenta —> e) si dà il vaccino alle proprie truppe —> f) si sparge il virus sul territorio nemico —>g) si mandano le truppe a raccogliere i cocci. Le fasi autorizzate per ora non comprendono dalla e) in poi, quelle propriamente belliche. Le altre ci sono tutte.)
E il virus, dice anche l’FBI, esce proprio da Wuhan.
Tutto per sostenere i valori occidentali.
Epperò, dice l’Ingenuo a volo radente sopra il globo terracqueo, guardate i cinesi che sottomettono economicamente i paesi dell’Asia e dell’Africa con la nuova via della seta e gli ingannevoli prestiti collegati; non sono forse una minaccia? Un male? Dimenticando, ma non gliene si può far certo colpa, quel che dicevano Lenin ma anche i terzomondisti sull’inscindibilità tra esportazione di capitale e presenza militare per costruire gli imperi moderni (e i cinesi non hanno soldati fuori dal paese); o se per questo, anche quel poco che sapeva von Clausewitz del rapporto tra politica e guerra. Anche perché in questo volo può capitare, del tutto involontariamente, che non si veda e quindi non si nomini il lungo arco di basi americane che circonda la Cina, dalle Filippine alle Marshall (ancora eternamente grate per la serie di esperimenti atomici che ne hanno deliziato la popolazione tutti i santi giorni per quarant’anni) fino al Giappone, cariche di armi a lungo raggio e pronte a soffocare tutti i traffici navali verso il continente. Mentre Biden le dichiara guerra, commerciale per ora,  imponendosi di riportarla all’età della pietra (digitalmente parlando).
Per fortuna che siamo qui in Europa a godere dei valori occidentali e della democrazia; anche se l’Ingenuo non vede come nasce la democrazia italiana, già ipotecata ad Algeri prima e Cassibile poi quando nei colloqui per l’armistizio a rappresentarla è Guarrasi, che come mafia garantisce agli americani la portaerei Sicilia, e come massoneria garantisce l’ultima parola sulla politica italiana (e verso la mafia rafforza il suo ruolo dominante garantito dagli americani). Non vede l’Ingenuo, ma è ancora troppo giovane, le periodiche passeggiate di Guarrasi col cugino Cuccia, l’uno in lino bianco, l’altro in grigio fumo, ma entrambi, memori dell’insegnamento dell’Aretino Pietro, con le mani intrecciate dietro la schiena.
E quindi è tutto esercizio di democrazia, anche quando ogni candidato al governo si presenta prima a corte a Washington (tappa formale di un percorso già compiuto), anche quando la mafia impone a suon di bombe Berlusconi al governo, anche -facendo un passo indietro- quando i soliti sgherri militarfascistipoliziotti mettono la bomba a piazza Fontana, su ordini da un’ambasciata di Roma, o a Brescia, dove l’organizzatore diventa generale dei carabinieri.
Sappiamo forse cos’è la cultura occidentale, dai presocratici a Newton, ma cosa siano oggi i ‘valori occidentali’ ci riesce difficile capirlo.
E diffidiamo soprattutto quando vengono usati come bandiera.

Sofri è rimasto famoso quando in occasione della visita di Togliatti alla Normale di Pisa gli disse ‘noi non ci prendi più in giro’.
Forse sarebbe il caso, con tutto il rispetto, di rigirare questa frase al mittente…

continua qui

 

 

Morin: evitiamo una guerra mondiale, sarebbe peggio della precedente – Valerio Calzolaio

Edgar Morin ha centouno anni. Potrebbe essere definito come un eccellente studioso “straordinario”, non accademico e non etichettabile, fra i più stimati e influenti al mondo, autore di ben oltre un centinaio di volumi, iniziando al rientro dal fronte con L’An zéro de l’Allemagne (1946) e continuando fino a l’altro ieri, con lo stimolante Changeons de voie. Les leçons du coronavirus, 2020; traduzione di Rosella Prezzo, Cambiamo strada. Le 15 lezioni del Coronavirus, Raffaello Cortina, Milano 2020, e a ieri, con il recentissimo De guerre en guerre (2023). Famiglia ebrea sefardita originaria di Livorno, padre commerciante originario di Salonicco, a Parigi l’8 luglio 1921 Edgar nasce Nahoum (Morin è uno pseudonimo scelto come nome di battaglia, poco più che ventenne) e perde la madre a dieci anni, figlio unico. Cresce fra studi e sport, diventa marxista, ottiene la licenza in diritto e partecipa alla Resistenza francese (tenente delle forze combattenti).

Morin aderisce al partito comunista francese (PCF) e prende parte alla liberazione di Parigi nell’agosto 1944. Sposa Violette Chapellaubeau e parte militare per la Germania. Comincia a scrivere libri già durante l’ultimo anno di guerra e, al ritorno, nel 1946 abbandona un’eventuale carriera militare. Il fatto è che diventa pure prestissimo antistalinista, anticipando di oltre un decennio dinamiche di altri partiti comunisti europei, fino a essere espulso dal PCF nel 1951. Dal 1950 ha iniziato a lavorare al Centre national de la recherche scientifique (CNRS), il centro nazionale francese della ricerca, come antropologo sociale, e quello resterà sempre il suo principale impegno scientifico professionale, poi insieme all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), con contatti interdisciplinari in tutto il mondo, soprattutto in America Latina e in California. Politicamente si avvicina al partito socialista francese, mantenendo sempre un autonomo acuto laico punto di vista, sulla Francia e sul pianeta, e collaborando a ricerche e in riviste con i maggiori intellettuali europei (anche italiani).

Qualsiasi cosa leggiate di Morin vi colpirà, condividiate o meno tutto il merito; discipline e argomenti sono i più vari; il linguaggio chiaro e sapiente. Impossibile qui una compiuta biobibliografia, bastano ora i pochi cenni di sintesi, utili a capire perché a inizio 2023 è uscito il suo esile essenziale libro sulle guerre: Edgar Morin, Di guerra in guerra. Dal 1040 all’Ucraina invasatraduzione di Susanna Lazzari, prefazione di Mauro Ceruti, Raffaello Cortina Milano, pag. 104 euro 12Morin cita tanti studi e vari autori ma non gli servono le note e gli apparati, vuole trasmetterci un filo complesso di alcuni pensieri lunghi su quanto è accaduto e sta accadendo fra i sapiens in terra, sul continente europeo in particolare. Prende in considerazione con stile lucido e appassionato oltre un secolo di guerre, concludendo che ormai quella umana è una comunità di destino (anche per le altre crisi in atto, a partire da quella climatica ed ecologica) e che servono responsabilità individuali per radicare la libertà collettiva.

Il primo bombardamento aereo in Europa per terrorizzare le popolazioni civili fu quello della Luftwaffe che annientò Rotterdam nel maggio 1940, altri seguirono. Poi ci furono i bombardamenti alleati sulle città tedesche e l’orrore del nazismo e dei suoi abomini nei paesi occupati, soprattutto nell’URSS, talora occultò ai resistenti e agli antinazisti l’orrore di bombardamenti “nostri” che distruggevano città intere, colpendo donne, bambini, anziani più che i combattenti. Il nazismo fu criminale per la sua natura razzista e dispotica, questo non vale per le democrazie alleate, pur se restava e resta vero che, durante le loro (nostre) conquiste coloniali e nelle repressioni contro i colonizzati, abbiano commesso ciò che, a posteriori, bisogna definire crimini di guerra. Quei crimini sono stati certamente compiuti dalla Russia in Ucraina negli ultimi tredici mesi, lo ha denunciato pure la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta Onu sull’Ucraina in un nuovo rapporto reso noto il 16 marzo 2023 a Ginevra, portando prove e sollecitando ulteriori indagini.

I crimini di guerra, secondo Morin, sono forse distinguibili in base a tre criteri: occasionali violazioni del diritto internazionale umanitario (senza istruzioni dal comando); strutturali crimini e violenze (decisi da ufficiali o generali); crimini di guerra sistemici, che nel conflitto fanno parte della strategia militare del governo, il quale ne è il decisore iniziale. Nel condurre motivatamente una guerra contro l’ignobile nazismo, accadde di occultare la barbarie dei bombardamenti americani, la barbarie del Gulag e dello stalinismo. C’è stato bisogno che passassero anni e decenni perché diventasse chiaro che, per quanto giusta fosse la resistenza al nazismo, la guerra del Bene comporta in sé del Male. Ora che la Russia ha ignobilmente aggredito e invaso l’Ucraina, paese che va giustamente aiutato e sostenuto nelle sue indipendenza e sovranità nazionale, non è comunque peccato (capitolazione) parlare di cessate il fuoco, di negoziati e di pace.

Ribadiamolo: il grande sociologo e filosofo Edgar Morin ha 101 anni e ha fatto materialmente la seconda guerra mondiale. Nel novembre 2022 ha così scritto questo breve denso bellissimo saggio di storia contemporanea sulle guerre, partendo dalla propria esperienza personale. Inizia ricordando proprio che, mentre era assegnato allo Stato maggiore della prima armata francese, a inizio 1945 si recò a Pforzheim poco prima della effettiva ufficiale capitolazione di una Germania già vinta e trovò la cittadina totalmente distrutta da un raid di 367 bombardieri della Royal Air Force con 17.000 civili uccisi (un terzo della popolazione) e altrettanti feriti, praticamente in contemporanea con l’annientamento della città d’arte demilitarizzata di Dresda (300.000 morti) e poco prima dell’uso dell’arma nucleare su due grandi città giapponesi (“solo Albert Camus ha compreso l’orribile importanza storica di quel gigantesco massacro”).

Lungo tutta la narrazione, frequenti sono sovrapposizioni e intrecci personali, per esempio spesso richiama la guerra d’Algeria: le premesse con lo storico rifiuto della Francia di ascoltare le aspirazioni algerine; la prima insurrezione del 1954, sfociata comunque in una guerra civile interna in seno alla guerra d’indipendenza; il colpo di Stato dei generali francesi del 1958; le ripercussioni tragiche delle due parallele radicalizzazioni. Ognuno degli altri dodici rapidi capitoli mostra un titolo significativo, nella prima parte: isteria di guerra (riferendosi già al 1914-1918), menzogne di guerra (le peggiori quelle di attribuire al nemico i propri crimini), la “spionite” (la diffidenza ossessiva che individua ovunque dei sospetti), la criminalizzazione del popolo nemico (attribuzione delirante di una assoluta responsabilità collettiva), la radicalizzazione dei conflitti (il cuore del problema: tutti i “noi” solo e contro tutti gli altri), le sorprese dell’inatteso (avvengono cose inconcepibili, i loro effetti sono comunque nell’insieme imprevisti).

Ecco i titoli della seconda parte, dopo l’autocritica sui alcuni propri errori e illusioni: appunto l’errore e l’illusione (quelli che spesso hanno rovinosamente regnato nelle menti dei governanti e dei governati), la contestualizzazione (che impone sempre una visione articolata e complessa rispetto all’ideologia della vittoria), la dialettica delle relazioni fra Stati Uniti e Russia (conflitto internazionalizzato), Ucraina (descrizione informata e sintetica, sottolineando cruciali nodi storici e il 2014), la guerra (o meglio le tre guerre in corso), per la pace (mobilitiamoci). A un certo punto scrive: “durante tutto questo lungo periodo di ottant’anni, ho potuto verificare la pertinenza di ciò che ho chiamato l’ecologia dell’azione: ogni azione entra in un gioco di interazioni e retroazioni che possono modificare il senso dell’azione, se non invertirla, e farla ricadere sulla testa del suo autore”.

Morin riesce a dare basi razionali e argomenti efficaci a un urgente pacifismo condiviso (con a caso cita Andrea Riccardi e l’impegno cattolico). Nella prefazione Mauro Ceruti (fra i suoi principali amici italiani, recente curatore di due volumi su Morin nel 2022 per Mimesis) riassume il senso della pubblicazione: “Edgar Morin è uno dei pensatori più importanti del nostro tempo, un’autorità intellettuale e morale riconosciuta in tutto il mondo…Questa nuova guerra riporta alla sua memoria i terribili ricordi delle guerre che hanno segnato la sua lunga vita… è urgente (ci ammonisce) dotarci di un pensiero capace di comprendere quanto siano accecanti il manicheismo assoluto, le propagande menzognere, le criminalizzazioni non solo degli eserciti ma anche dei popoli nemici… individua nelle radicalizzazioni il tratto comune e più pericoloso delle guerre del suo secolo”.

La prima parte del volume contiene acuti e precisi spunti di riflessione in qualche modo generali, che riguardano un po’ tutte le guerre del Novecento e tutte le parti in conflitto; via via che il coerente ragionamento prosegue crescono i riferimenti alla guerra in corso nel 2022-2023. Senza indulgenze: se la Russia putiniana è l’autrice di questa guerra, lo è al termine di un processo di radicalizzazione reciproca. Come spesso accade nella storia, il nemico fortifica l’identità di una nazione e l’odio per il nemico è un cemento di unità nazionale. Morin scrive il testo a fine 2022, in piena escalation militare, ma prova ad accennare ai termini di un negoziato credibile, certo che solo la pace alla lunga porterebbe pacificazione. Oggi che risulta addirittura potenziata la diffusione e la sofisticazione delle armi, in un contesto interconnesso ma non solidale, evitiamo una guerra mondiale. Sarebbe peggio della precedente (quando ancora non esisteva il pervasivo decisivo rischio nucleare).

da qui

 

 

Ucraina sul fronte del grano perde alleati e mercato – Ennio Remondino

Le guerre troppo lunghe logorano le alleanze. L’Ucraina ha criticato aspramente la decisione del governo della Polonia di vietare le importazioni di cereali e altri prodotti agricoli dal paese in guerra, compresi quelli in transito verso altri paesi. Ma alla Polonia si è unita l’Ungheria, critica verso Kiev per le discriminazioni alla comunità magiara della Transcarpazia. E l’iper atlantico premier polacco deve arrendersi a settimane di proteste degli agricoltori contro l’import esentasse di derrate alimentari ucraine.
Per Varsavia, non solo spese militari alle stelle, ma anche frutta e verdura. La Slovacchia si unirà ai due paesi confinanti solo per alcune categorie di prodotti agricoli. Bulgaria in procinto di adottare misure analoghe. La Romania per ora fronteggia il malcontento dei suoi agricoltori.

Unione europea, regole ed eccezioni

La Commissione europea ha immediatamente redarguito sia Varsavia sia Budapest per «misure unilaterali in materia di derrate alimentari, quando le politiche doganali, commerciali e agricole sono di competenza esclusiva dell’Ue». Ma contro la burocrazia vince Budapest, con i dati sulla contaminazione da tossine e ogm dei cereali importati dall’Ucraina. Prima la sanità pubblica sulle normative comunitarie del libero commercio.

Russofobi ma prima il benessere

La situazione si fa rischiosa per le strutture comunitarie, poiché altri Stati mitteleuropei penalizzati dall’esecutivo Ue potrebbero prendere decisioni autonome. La vasta protesta a Praga contro il carovita e la politica filo ucraina del governo Fiala – rileva Limes-, «è cartina di tornasole dell’umore dei popoli dell’Europa centro-orientale, tanto russofobi quanto sensibili alla conservazione di un relativo benessere». Oltre al conflitto armato, in Ucraina si consuma una guerra economica sui beni di consumo primari.

Le proteste degli agricoltori dal Baltico al Mar Nero mettono in dubbio la compattezza del sostegno mitteleuropeo a Kiev. E rischiano di danneggiare ulteriormente la già fragile economia del paese invaso…

continua qui

 

 

 

 

Durante la prima repubblica non eravamo messi così male… – Alessandro Orsini

Ecco ciò che l’Italia ha fatto per la pace in questi 14 mesi di guerra. Ha inviato una grande quantità di queste macchine di morte. Probabilmente sessanta esemplari. L’invio è stato deciso dal precedente ministro della Difesa Guerini e da Mario Draghi. Gli ultimi obici semoventi italiani stanno partendo adesso perché avevano bisogno di manutenzione che è stata pagata da Biden. Altri obici semoventi italiani stanno già sparando sui russi da settimane contribuendo alla distruzione dell’Ucraina e al prolungamento della guerra. Se in Ucraina tutto dovesse precipitare, se si dovesse arrivare un giorno allo scontro nucleare, l’Italia sarebbe pienamente corresponsabile per avere operato soltanto ed esclusivamente per alimentare la guerra dall’esterno. La Turchia, persino l’Ungheria e la Tunisia, hanno il coraggio di dire tantissimi no a Biden e alla Casa Bianca in generale. Noi italiani siamo diventati un popolo vigliacco, senza coraggio e senza dignità. Non inviamo le armi in Ucraina perché siamo coraggiosi, ma perché siamo vigliacchi che scodinzolano al padrone. I media dominanti parlano tanto dell’inesistente penetrazione della Russia in Italia per nascondere il fatto che tutte le cariche istituzionali più alte nel nostro Paese devono prima ottenere l’assenso della Casa Bianca. Durante la prima repubblica non eravamo messi così male.

Siccome in Italia non esiste libertà d’informazione sulla politica internazionale, nessun conduttore radiofonico o televisivo organizza una trasmissione sul tema: “Quali sono stati i processi politico-istituzionali degli ultimi venti anni che hanno consentito alla Casa Bianca di decidere chi debba occupare le cariche politiche più alte in Italia?”.

“Come è potuto accadere che Biden abbia chiesto all’Italia di violare la propria Costituzione ottenendo un sì immediato?”.

da qui

 

 

UCRAINA: STORIA DI UN CAPPIO AL COLLO – Alexik

In questi tempi di conflitto, uno dei refrain più ricorrenti nella retorica bellica del presidente ucraino Petro Porošenko è quello che imputa a Putin di “volersi appropriare delle fertili terre ucraine”.

Io non vorrei dirglielo, ma mentre il “re del cioccolato”1 passa in rassegna le truppe in partenza per le regioni ribelli, ho l’impressione che le fertili terre ucraine se le stia per accaparrare qualcun altro. E con la sua piena complicità, visto che è stato proprio Porošenko, a firmare l’accordo di libero scambio fra Ucraina e Unione Europea (DCFTA – Deep and Comprehensive Free Trade Area), e ad ottenere un nuovo prestito dal Fondo Monetario Internazionale. Due atti che sul così detto “granaio d’Europa” avranno notevoli conseguenze.

Storia di un cappio al collo

Originariamente, il  DCFTA  doveva essere siglato a Vilnius nel novembre 2013 dall’allora presidente Viktor Janukovyč. L’accordo era collegato a un prestito di 17 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale, che portava con se il solito corollario di misure di aggiustamento strutturale. La squadra del FMI in visita a Kiev in ottobre, le aveva così elencate:

  • Risanamento del bilancio dello Stato tramite un drastico taglio della spesa pubblica, da perseguire grazie al taglio dei sussidi, al contenimento dell’occupazione ed alla moderazione salariale nel pubblico impiego. Rinvio a data da destinarsi di eventuali tagli delle tasse.
  • Liberalizzazione del settore energetico, aumento delle tariffe del gas per le famiglie.
  • Costruzione di un clima amichevole per il business tramite riforme strutturali (in pratica la rimozione di lacci e lacciuoli).

Tutti argomenti che non suonano particolarmente nuovi neanche a noi italiani.

Come è noto, Janukovyč non firmò. Rinunciò al prestito del Fondo Monetario accettando in cambio un aiuto cinese di 8 miliardi di dollari e un aiuto russo di 15 miliardi di dollari, più lo sconto di Putin del 33 % sulle forniture di gas naturale2.  Ma all’indomani del mancato accordo con l’UE, gli vennero scatenati addosso i pacifici dimostranti di Euromaidan (nella foto).

Nell’esercizio del suo diritto al rifiuto Janukovyč aveva le sue buone ragioni. Non che fosse pregiudizialmente ostile agli investimenti occidentali, anzi !

Sotto la sua presidenza il governo di Mykola Azarov aveva deciso di rafforzare la cooperazione con gli USA per l’estrazione del gas di scisto, stipulando diversi accordi con Exxon Mobil e Chevron3.

Janukovyč e Azarov si erano dati anche molto da fare per far risalire il loro paese nella graduatoria del “Doing Business“, una classifica costruita dalla Banca Mondiale al fine di misurare l’appetibilità degli Stati per gli investimenti privati. Dal 2013 al 2014 l’Ucraina era passata dalla 140a posizione alla 112a, grazie alle politiche di “semplificazione” finanziate dalla BM. Le “semplificazioni” consistevano, per esempio, nel rendere possibile la creazione di imprese farlocche, prive di capitale sociale e di atto costitutivo autenticato da un notaio, oppure nell’alleggerire le imprese dal pagamento di tasse e contributi previdenziali, o nel ridurre i controlli alle dogane4.

Al momento della sua elezione alle presidenziali del 2010, Janukovyč aveva ereditato dal suo predecessore, il liberista Viktor Juščenko, un debito pregresso di 10,6 miliardi con il FMI5, e per poterlo onorare ne aveva dovuto richiedere un altro più grande. Aveva potuto così sperimentare da vicino il costo dell’aiuto “fraterno” del Fondo Monetario. Nel 2011 il Fondo chiuse i rubinetti perché il governo ucraino non era ancora riuscito a far passare una riforma delle pensioni molto impopolare. Per poterli riaprire, Janukovyč e Azarov si trovarono obbligati ad imporre l’innalzamento dell’età pensionabile per le donne da 55 a 60 anni, ed altri 10 anni anzianità contributiva per tutti6.

Ma la loro collaborazione con le istituzioni finanziarie internazionali a tratti era un po’ riluttante. Si misero per traverso di fronte alle pressioni esercitate dal Fondo per ottenere una stangata fiscale, e soprattutto ostacolarono la cd “modernizzazione” del settore del gas. Con tale eufemismo, il FMI soleva definire una drastica ristrutturazione del settore energetico, che prevedeva l’azzeramento del deficit della compagnia nazionale Naftogaz attraverso una crescita stratosferica delle tariffe all’utenza, la  fine del calmieramento pubblico dei prezzi dei servizi di pubblica utilità, e la liberalizzazione del mercato del gas per l’uso domestico7. Un argomento sensibile, visto che in Ucraina l’inverno è lungo, e le temperature possono arrivare ai – 30°.

Insomma, Janukovyč non era del tutto affidabile, e lo dimostrò appieno quando ritenne indigeribile la firma del DCFTA e le condizioni del nuovo prestito del FMI. Ma come sappiamo, dopo la rivolta pilotata di Euromaidan, il timone dello Stato ucraino è finito in mani più gradite alle istituzioni finanziarie internazionali…

continua qui

 

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *