Turchia, analisi della non-vittoria

di Chiara Cruciati (*)

Erdogan ha evitato il tracollo perché ha saputo dare riconoscimento politico alla parte di paese più conservatrice che vede nell’islam la primaria fonte di identità e nelle manie di potenza del presidente lo strumento affermarsi a livello internazionale.

Chi ha vinto il primo turno delle presidenziali turche? A poche ore dalla chiusura dei seggi non è stato facile dirlo. I numeri si contraddicono e i due principali sfidanti rivendicano ognuno la sua vittoria. Di certo c’è l’attesa. Quella della notte tra domenica e lunedì, quella di una Istanbul assurdamente silenziosa, tutti chiusi in casa o nei café a seguire lo spoglio con il fiato sospeso. E quella di centinaia di scrutatori del sud-est a maggioranza curda, in fila di notte fuori dagli uffici governativi per consegnare le schede appena contate, gelosamente chiuse in sacchi bianchi nel timore che qualcuno potssa compiere il broglio in extremis.

Di casi ce ne sono stati, tante le denunce pubblicate sui social media: seggi in cui gli scrutatori timbravano il volto di Recep Tayyip Erdogan al posto degli elettori; altri – a Gaziantep e Diyarbakir – in cui migliaia di sostenitori della sinistra dell’Hdp (il Partito democratico dei Popoli filo curdo) non hanno avuto modo di votare nei propri seggi perché partiti rivali li avevano registrati come scrutatori a loro insaputa; poliziotti che tentavano di votare due volte; elettori del Partito dei Lavoratori della Turchia pestati davanti alle urne.

Al netto delle irregolarità che da decenni segnano le tornate elettorali in Turchia, nella necessità di tentare un’analisi ci si può affidare ai risultati ufficiosi resi pubblici dalle varie agenzie turche e infine confermati ieri dal Consiglio elettorale supremo: con il 49,5% dei consensi il presidente Erdogan, leader del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp), braccio turco della Fratellanza musulmana e guida indiscussa del paese da due decenni, non è imploso. Ha retto smentendo i sondaggi che lo davano sotto di quattro-cinque punti rispetto al principale avversario, Kemal Kilicdaroglu, segretario del Partito repubblicano Chp, i nazionalisti kemalisti laici per intenderci. Il rivale si sarebbe fermato al 44,9%.

Erdogan non solo non è imploso, ma guida la contesa.
Sfiora la maggioranza assoluta, si ferma appena un punto sotto il risultato che avrebbe evitato il secondo turno. E invece sarà ballottaggio, il prossimo 28 maggio.
Per quel momento si saprà chi intende appoggiare il terzo classificato, Sinan Ogan, a capo dell’Alleanza degli Antenati, ultranazionalista di destra che si è portato a casa un sorprendente 5,3% e pure l’ago della bilancia.
C’è poco da fantasticare: la sua chiara posizione anti-curda e le accuse mosse a Kilicdaroglu di un’alleanza indiretta con l’Hdp fanno immaginare una virata verso il nome di Recep Tayyip Erdogan.

Se un’analisi completa del voto soffre delle carenze comunicative del Consiglio elettorale e del caos generato dalle rispettive rivendicazioni di vittoria, qualcosa dal flusso dei consensi emerge. Erdogan non è un leader finito.
E non lo è perché (al netto degli effetti della brutale situazione socio-economica turca, a lui ampiamente intestabili) il presidente non si è limitato a governare il paese per vent’anni, ma ne ha letto e compreso la natura profonda.
La Turchia non ha un’identità unica e monolitica, è un crocevia di anime diverse e di rivendicazioni opposte. È un paese spaccato tra progressisti e conservatori, laici e religiosi, ceto urbano ed entroterra.

Quello che Erdogan ha saputo fare è stato cogliere la natura conservatrice del nuovo nazionalismo turco, in passato laico e oggi sempre più confessionale.
Ha saputo cogliere la deriva religiosa che ha interessato l’intero Medio Oriente e il Nord Africa, con la crescita spropositata delle fazioni religiose che hanno archiviato la lunga esperienza socialista del secolo scorso.

La mappa elettorale turca al momento a disposizione ridà indietro la spaccatura tra la costa occidentale turca e il sud-est a maggioranza curda da una parte e dall’altra il cuore conservatore della Turchia. Istanbul, Smirne, Ankara (unica macchia rosso-Chp nell’entroterra) e poi Diyarbakir, Mardin, Batman, Van, Hakkari hanno confermato le previsioni: qui Kilicdaroglu ha dato volto e voce alla pressione democratica di una cittadinanza progressista – o per lo meno di centrosinistra – soffocata dal dominio Akp, per cui andava bene chiunque, anche una coalizione liberale e nazionalista purché ci si liberasse di Erdogan.

Una coalizione che è espressione di esigenze diverse, perché il sostegno al candidato kemalista è composito tanto quanto l’Alleanza della Nazione che ha forgiato in questi mesi: ci sono i curdi – iper politicizzati da una resistenza politica e culturale lunga un secolo – che hanno dovuto ingoiare l’appoggio a un partito erede del nazionalismo kemalista responsabile di decenni di oppressione dell’identità curda; ci sono le donne delle città e le femministe protagoniste del più recente e vasto movimento di opposizione alla narrazione omofoba e machista del governo erdoganiano; c’è quello scampolo di società civile sopravvissuto alla repressione interna e che trovò in Taksim e Gezi Park, nel 2014, la sua massima espressione politica; e c’è quella parte di classe lavoratrice più sindacalizzata che sa leggere la realtà e le ragioni dietro il degrado socio-economico crescente, un picconamento salariale e di diritti che ha un nome e un cognome, quello del presidente.

Impossibile poi non attribuire alla graduale discesa negli inferi della censura una parte importante dei risultati elettorali.
La censura a macchia d’olio spiega anche il caos nella trasmissione dei dati, che siano reali o fittizi. In due decenni al potere, Erdogan ha costruito un’impalcatura istituzionale e mediatica fedele all’uomo solo, una deriva che ha raggiunto il suo apice dopo il tentato golpe del luglio 2016 e l’abnorme campagna di epurazione che ne è seguita.
Dall’accademia alle forze armate, dalla magistratura all’apparato burocratico, l’Akp si è sbarazzato di nemici veri e presunti, affollando ogni ufficio pubblico di fedelissimi e sostenitori, annullando di fatto il sistema di divisione dei poteri e rendendo la Turchia un presidenzialismo totale e tentacolare.
È successo nel settore pubblico, è proseguito con quello mediatico: la scure che si è abbattuta su giornalisti e intellettuali ha impoverito il panorama culturale e informativo del paese, che ha visto scomparire giornali, radio, siti web indipendenti, incarcerare o costringere all’auto-esilio decine di reporter, professori e scrittori, punire semplici cittadini per un tweet critico.

La Turchia non è un paese democratico, diventa difficile immaginare una tornata elettorale che lo sia e che non sia macchiata – se non da palesi brogli – da una carenza di lucidità politica e di trasparenza della narrazione.
Una lucidità che l’Akp ha volutamente annebbiato, con una precisa strategia politica e culturale: la sostituzione delle scuole pubbliche con istituti religiosi vicini alla narrativa presidenziale ne è la punta di diamante. Erdogan ha investito moltissimo nella definizione di una nuova «generazione pia», come l’ha chiamata lui stesso una decina di anni fa, attirata nella esplosiva rete di scuole private sia dal rigetto di una visione laica della società sia dalle migliori prospettive lavorative che offriva.
Iscrivere una figlia o un figlio in una scuola di questo tipo per molte famiglie ha rappresentato il riconoscimento di sé, «la democratizzazione dell’educazione e la fine di una discriminazione che sentivano di subire da parte di una repubblica laica», come scriveva Carlotta Gall sul New York Times nel 2018.

All’epoca, cinque anni fa, si contavano 4.500 scuole religiose «Imam Hatip» (dove lo stesso Erdogan ha studiato) contro le 450 esistenti nel 2003, l’anno in cui l’attuale presidente veniva eletto primo ministro, e un investimento statale pari a 1,5 miliardi di dollari. Scuole che i generali che guidavano il paese dopo i golpe militari avevano chiuso o che non permettevano l’accesso all’università.

Come ad altre latitudini, in altri luoghi della regione dove i movimenti di rivolta hanno segnato gli anni recenti con sprazzi di luce e di consapevolezza, di rivendicazioni che non erano mere spinte democratiche erano la rappresentazione del desiderio di maggiore giustizia sociale ed economica, va riconosciuto un fatto: la Turchia non è solo piazza Taksim.

L’altra Turchia, quella profonda e invisibile a cui Erdogan ha saputo dare un riconoscimento politico, è la Turchia più conservatrice che vede nell’Islam la sua primaria fonte di identità e nelle manie di potenza del presidente il migliore strumento per l’affermazione di sé nel consesso internazionale.
L’entroterra conservatore, l’Anatolia religiosa, vota ancora Akp perché è quella la narrazione da cui si sente rappresentato: un’ampia fetta di classe operaia, la classe media e bassa, le donne (zoccolo duro dell’elettorato erdoganiano fin dal 2003) che hanno sentito come violenza lo svelamento forzato del primo kemalismo e come abuso l’esclusione politica che derivava dal laicismo di stato.

E, apparentemente a sorpresa, votano ancora Akp anche le zone più colpite dall’ultima tragedia di stato, il sisma del 6 febbraio.
Sono le città dimenticate da Ankara, laboratorio di un’edilizia povera e di una speculazione rampante che è lo specchio di un modello economico di sfruttamento dei territori e di una deregulation neoliberista a favore dello sviluppo fittizio, a qualsiasi costo.
I numeri, se confermati, sono impressionanti: Kahramanmaras, epicentro del terremoto, con le sue migliaia di morti e i soccorsi fantasma, ha riconosciuto all’Akp uno stupefacente 70% di consensi, Karaman il 61%, Konya il 69%.

L’opposizione si ribella: tantissimi sfollati nelle province vicine non hanno avuto modo di tornare ai propri seggi per votare, chi è rimasto è stato costretto a lunghe file davanti a una tenda. Tutto vero, ma non basta a spiegare la sopravvivenza politica di Erdogan, l’uomo che ha prestato il volto al neo-nazionalismo turco.
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(*) Tratto da Jacobin Italia.
Chiara Cruciati (1983), giornalista, scrive di Medio Oriente sulle pagine del quotidiano il manifesto. È autrice con Michele Giorgio di Cinquant’anni dopo (Alegre, 2017) e Israele, mito e realtà (Alegre, 2018). Il suo ultimo libro, scritto con Rojbîn Berîtan, è La montagna sola. Gli ezidi e l’autonomia democratica di Şengal (Alegre, 2022).

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alexik

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