Tutto brucia – Bros

Tutto brucia – Motus

Bros (Brothers) – Romeo Castellucci

di Susanna Sinigaglia

Può sembrare strano recensire questi due spettacoli insieme, non dedicare a ognuno lo spazio che gli spetterebbe. Ma questo mio scritto non vuole tanto essere una recensione, quanto una riflessione intorno all’idea di rappresentazione nei due lavori, pur nella loro grande diversità. Infatti, hanno stimolato in me alcuni interrogativi sulla questione antica della “rappresentazione” del tragico.

Si legge sul blog “Visioni del tragico”, in un articolo di Nicola Mancini intitolato Grido della visione e silenzio della parola: “Chi si recava a vedere la tragedia antica decideva consapevolmente di divenire spettatore della sofferenza, di dedicare del tempo per assistere al dolore, dolore sacro e comune poiché inserito all’interno di un contesto – quello teatrale – profondamente permeato di religiosità e di comunità… Viene da domandarci allora se… in una contemporaneità in cui si è stati circondati da visioni in modo incessante, da immagini e da parole concernenti la sofferenza, ma filtrate dagli schermi piatti dei media, si possa ancora parlare di “sacralità” e di “comunione”… L’impressione è che si sia piuttosto divenuti spettatori inermi, pubblico… emotivamente disinteressato di una tragedia reale, fino a quando da essa non si venga colpiti in modo diretto. È decaduto il contesto rituale, collettivo e civile nel quale l’uomo greco assisteva, condividendola, alla rappresentazione del dolore. Venuta meno la cornice fondamentale all’interno della quale si realizzava il teatro greco antico, sappiamo ancora ‘apprendere’ dalla visione della sofferenza altrui? E se sì, quale l’apprendimento? [1]

In Tutto brucia si parla di guerra, in particolare il riferimento è al mito della Guerra di Troia e alle Troiane di Euripide.

Qui mi è sembrato che andasse in scena non la rappresentazione del dolore bensì la sua imitazione; le atmosfere cupe nonché le grida e lamentazioni delle donne in attesa di essere deportate nel paese dei vincitori sono così stereotipate e monotone da finire quasi in caricatura. Mi è sembrata un’occasione sprecata per il valore simbolico che potrebbe avere, nel tempo in cui ci troviamo, il richiamo al teatro greco con i suoi forti valori e potenzialità. Inoltre se il riferimento della performance era la Guerra di Troia, non mi è stato chiaro perché le canzoni interpretate fossero per la maggior parte in inglese.

D’altro canto, Bros ha scene molto potenti.

L’dea di fondo del lavoro è incarnare il mondo crudele di automi senz’anima che adorano idoli – guidati da comandi provenienti da un altrove senza volto – tramite diversi elementi che mi è parso di individuare in quelli elencati di seguito.

  1. Una semioscurità e nebulosità terrorizzanti in cui è sempre immersa la scena e che rendono difficile individuarne i contorni: il pubblico viene accolto già nel corridoio attiguo alla sala da un denso fumo che non favorisce la respirazione, visto anche l’obbligo di mascherina.
  2. Il “pesante” fragore: la performance s’inaugura subito con un forte rimbombo e qualsiasi gesto sarà accompagnato dall’amplificazione esponenziale di un suono (al pubblico vengono consegnati all’ingresso dei tappi per le orecchie).
  3. La presenza e le azioni di 22 uomini in abiti da poliziotto americano anni ’40 di cui si vengono a conoscere le “regole d’ingaggio” nei testi distribuiti agli spettatori prima della performance e che sono quelle di eseguire, alla lettera, gli ordini impartitigli attraverso degli auricolari.
  4. Lo stereotipo portato all’eccesso: della fragilità, della crudeltà e violenza gratuita, della sottomissione. La fragilità è incarnata dalla figura che compare in scena all’inizio, quella di Geremia, un vecchio malconcio con la tunica bianca e dai lunghi capelli altrettanto bianchi che farnetica in una lingua incomprensibile. Probabilmente sta recitando i versi biblici di Geremia riportati su un secondo foglio consegnato al pubblico prima dell’ingresso in sala. A lui, inerme su un letto, viene somministrato veleno attraverso un bicchiere di latte che gli porge uno degli uomini in divisa. La crudeltà, la violenza gratuita e nello stesso tempo la sottomissione sono, naturalmente, incarnate dai 22 poliziotti soprattutto nella sequenza dove a uno di loro viene ordinato di collocarsi al centro della scena, di spogliarsi rimanendo completamente nudo e presentarsi davanti ai colleghi come durante la visita per il servizio militare. Poi lo fanno sdraiare a terra e gli praticano il waterboarding; quindi uno dei “colleghi” comincia a sferrargli colpi tremendi col manganello. Forse non è necessario citare gli episodi che simili azioni immediatamente rievocano.
  1. Il coinvolgimento del pubblico attraverso la ricreazione, direttamente sul palcoscenico, dei suddetti eventi tragici. L’insistenza, nel materiale di presentazione e pubblicizzazione dello spettacolo, con cui si vuole indurre a credere che gli interpreti degli agenti non abbiano eseguito nessuna prova e che tutto si svolga in “tempo reale”, che le azioni siano solo frutto dell’obbedienza cieca ai comandi, sottopone il pubblico a un esercizio crudele: il confine fra realtà e finzione è molto sottile.

Castellucci mi ha spinto a riprendere in mano Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud con i suoi richiami alla crudeltà, alla creazione in scena di un mondo parallelo e potente che respinga l’idea di teatro-imitazione del reale. All’inizio del libro mi ha colpito in particolare un passaggio in cui evoca lo spettacolo “biecamente spaventoso di uno spiegamento di polizia” prima di una retata il cui obiettivo era “un ammasso di donne” che “camminano come se andassero al macello”. E Artaud prosegue affermando: “Noi siamo certamente colpevoli come quelle donne e crudeli come quei poliziotti”[1a].

Non so se Castellucci si sia ispirato a questo passaggio del libro di Artaud, però sembra incredibilmente calzante con la sua volontà di provocazione e, nello stesso tempo, di sfuggire all’idea di rappresentazione immergendo il pubblico nello spettacolo attraverso le atmosfere inquietanti, il fragore, la visione di quel che “sa” già realmente avvenuto e che probabilmente ancora avverrà, e infine con l’invasione della platea da parte dei poliziotti con cani lupo al guinzaglio.

Tutti questi elementi in gioco richiederebbero un estremo rigore, un’asciuttezza senza concessioni perché il crinale è sottile e basta una sfumatura in più per cadere nel grottesco se non nel kitsch, nella fantasmagoria degli “effetti speciali. Dopo l’avvelenamento di Geremia, il waterboarding, il lungo pestaggio, l’invasione della platea con i cani, quale il modo migliore per terminare la performance se non con la scena dove si vedono gli agenti cadere a terra uno a uno in preda a convulsioni, sopraffatti dalla propria violenza? Ma l’ingranaggio teatrale non si ferma.

Come la rappresentazione reiterata del dolore in Tutto brucia, così quella della violenza e spietatezza alla fine diventa monotona. Ritorna, non voluta, l’imitazione della realtà.

E la fine mi è parsa davvero tirata per i capelli: un ragazzino in tunica bianca – nipotino di Geremia? – compare da sotto un tendone portato in scena da due poliziotti e su cui sono impresse due parole, una in alto e l’altra in basso: ovo, pullo. Bisogna osservare che sul retro del foglio dove sono riportate le regole d’ingaggio degli agenti, troviamo anche alcuni motti latini accompagnati dalla traduzione italiana. Per esempio: “Non puoi dire al passato cosa fare”, oppure: “Devi negoziare con i morti” e, l’ultimo, “Del pulcino e dell’uovo”. Allora ci si chiede: dopo averci esposto a tutta quella spietata violenza, Castellucci ci vuol dire che c’è ancora una speranza? Ma come si potrebbe ancora credergli?

[1] https://www.visionideltragico.it/blog/covid-19/vedere-la-sofferenza-e-imparare-note-sul-filottete-di-sofocle (il neretto è di Mancini, nda).

1a] A. Artaud, Il Teatro e il suo doppio. Einaudi, Torino 1968, p. 6.

Susanna Sinigaglia
Non mi piace molto parlare in prima persona; dire “io sono”, “io faccio” questo e quello ecc. ma per accontentare gli amici-compagni della Bottega, mi piego.
Quindi , sono nata ad Ancona e amo il mare ma sto a Milano da tutta una vita e non so se abiterei da qualsiasi altra parte. M’impegno su vari fronti (la questione Israele-Palestina con tutte le sue ricadute, ma anche per la difesa dell’ambiente); lavoro da anni a un progetto di scrittura e a uno artistico con successi alterni. È la passione per la ricerca che ha nutrito i miei progetti.

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