Il contesto
L’8 dicembre 2025 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato la propria posizione negoziale su due riforme cruciali in materia di immigrazione e asilo.
La prima è volta ad istituire un nuovo sistema comune per i rimpatri, abolendo la Direttiva Rimpatri (dir. 2008/115/CE), e sostituendola con un nuovo Regolamento (proposto dalla Commissione Europea all’inizio del 2025 (COM/2025/101 final).
Il secondo riguarda la proposta della Commissione di emendare il nuovo Regolamento Procedure (n. 2024/1348), entrato in vigore il 24 maggio 2024, e destinato ad entrare in applicazione il 12 giugno 2026, per anticipare ed estendere l’applicabilità dei concetti di Paese di origine sicuro (COM/2025/186 final) e di Paese terzo sicuro (COM/2025/259 final).
Le posizioni adottate dal Consiglio non rappresentano tuttavia le versioni definitive dei Regolamenti.
Occorrerà attendere l’adozione, da parte del Parlamento europeo, del cosiddetto draft report, nel quale saranno formalizzate la sua posizione negoziale e le relative proposte di modifica alla proposta originaria della Commissione. Solo dopo tale fase Consiglio e Parlamento avvieranno i negoziati interistituzionali, con l’obiettivo di adottare un testo finale condiviso.
È probabile che la riforma definitiva verrà adottata nel primo semestre del 2026. Inoltre, il Regolamento Rimpatri, anche quando pubblicato nella sua versione definitiva, entrerà in applicazione 2 anni dopo l’entrata in vigore: verosimilmente, a partire dal 2028.
Cosa hanno proposto i Ministri degli interni degli Stati UE
Il Consiglio ha accolto l’impianto delle riforme proposto dalla Commissione europea, ma ha introdotto ulteriori elementi peggiorativi, sia alla proposta del nuovo Regolamento Rimpatri, sia alla riforma sui Paesi sicuri.
Regolamento Rimpatri:
- Si conferma l’approccio secondo cui il rimpatrio coercitivo diventa la regola, e la partenza volontaria rimane l’eccezione. Inoltre, si ammette che gli Stati possano decidere di non applicare il Regolamento alle persone migranti “fermate o scoperte” in occasione dell’ingresso irregolare, e che non hanno successivamente ottenuto un’autorizzazione o un diritto di soggiorno, il che potrebbe estendere a dismisura la discrezionalità dei singoli Stati nel realizzare i rimpatri.
- La detenzione amministrativa degli stranieri che devono essere rimpatriati mediante allontanamento è estesa ad un massimo di 30 mesi (2 anni come regola generale, con possibilità di ulteriore proroga per altri 6 mesi). La proposta è incoerente con i numerosi dati disponibili che indicano che i rimpatri generalmente vengono realizzati nei primi 3 mesi di applicazione della misura detentiva, mentre l’estensione del periodo detentivo non corrisponde all’aumento del numero di rimpatri.
- I motivi di detenzione e la definizione del rischio di fuga vengono notevolmente ampliati. Vengono introdotti criteri estremamente generici e potenzialmente arbitrari e discriminatori, quali l’assenza di legami familiari, lo svolgimento di lavoro irregolare, l’insufficienza di mezzi di sussistenza, la mancata partecipazione alle attività di “return and reintegration counselling”: di fatto, si criminalizza la povertà e l’esclusione sociale.
- Sono confermati ed estesi i numerosi obblighi di cooperazione a carico dei migranti, con l’introduzione di severe punizioni in caso di mancata collaborazione. Tali obblighi – che richiedono di fornire informazioni e documenti utili all’identificazione, mantenere recapiti aggiornati, presentarsi regolarmente alle autorità – risultano spesso impossibili da soddisfare per chi vive in condizioni di vulnerabilità, senza una residenza stabile, senza accesso a strumenti digitali o privo di documenti d’identità. Il testo amplia, inoltre, i poteri delle autorità, introducendo la possibilità di effettuare perquisizioni sulla persona, il luogo di residenza o “altre sedi pertinenti”, incluse le abitazioni di parenti, amici o conoscenti che offrono ospitalità, e di sequestrare effetti personali “anche senza il consenso dell’interessato”. Simili misure non erano mai state previste nell’ambito dei procedimenti di espulsione e sollevano dubbi di compatibilità con il diritto all’inviolabilità del domicilio, tutelato dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo e dalla Costituzione italiana.
- Le sanzioni previste per l’inosservanza degli obblighi includono multe, limitazioni della libertà di movimento e misure detentive, la riduzione dell’assistenza sociale nello Stato membro interessato o dell’assistenza finanziaria destinata al reinserimento post-rimpatrio, e divieti di ingresso fino a 20 anni, prorogabili a durata indefinita in caso di presunti rischi per la sicurezza. Nel complesso, il quadro delineato rischia di colpire in modo sproporzionato persone che non sono in grado, più che non intenzionate, a cooperare, con un significativo aumento del potenziale di arbitrarietà e un impatto grave sui diritti fondamentali.
- Viene significativamente limitato il diritto a un ricorso effettivo, che prevede la sospensione del provvedimento impugnato quando vi sia un rischio di violazione del non-refoulement: diritto oggi garantito, nell’ambito del diritto UE, dall’interpretazione fornita dalla CGUE all’art. 6 dir. Rimpatri, alla luce dell’art. 47 Carta dei diritti fondamentali. Il Consiglio propone, infatti, di eliminare l’obbligo di sospensione automatica dell’esecuzione fino alla scadenza del termine per presentare ricorso, consentendo agli Stati membri di attribuire l’effetto sospensivo soltanto ex officio. In tal modo, le persone potrebbero essere allontanate prima ancora di poter esercitare il proprio diritto di impugnazione. Inoltre, il testo permette agli Stati membri di adottare decisioni di rimpatrio, con esecuzione sospesa, anche in presenza di un rischio di refoulement, basandosi su precedenti valutazioni del rischio, con il risultato di indebolire ulteriormente le garanzie contro allontanamenti potenzialmente lesivi del diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti.
- Infine, il Consiglio aderisce pienamente alla proposta della Commissione sui cosiddetti return hubs, cioè la possibilità di trasferire una persona verso uno Stato terzo che accetti di riceverla sulla base di un accordo, formale o informale, con l’Unione o con uno Stato membro: sarà poi tale Stato terzo a decidere se procedere al rimpatrio verso il Paese d’origine. Questa proposta si inserisce in un quadro già profondamente problematico, perché la riforma amplia in modo radicale la gamma dei Paesi verso cui una persona può essere rimpatriata, consentendo il trasferimento non solo nel Paese d’origine, ma anche in Paesi di transito, Stati terzi ritenuti “sicuri”, o qualsiasi altro Stato disposto ad accettarla anche senza legami reali.
Nel testo del Consiglio gli standard relativi alle garanzie sui diritti umani risultano ulteriormente abbassati, introducendo la possibilità di concludere accordi o intese di rimpatrio anche quando sussistono carenze documentate di rispetto dei diritti umani in parti del territorio del Paese terzo o nei confronti di categorie specifiche di persone, aprendo la strada ad una vera e propria esternalizzazione del rimpatrio, e normalizzando il trasferimento forzato verso Paesi terzi sulla base di valutazioni politiche o di convenienza, piuttosto che di tutela effettiva dei diritti umani.
Come emerge da alcune dichiarazioni congiunte della società civile (qui e qui), firmate anche da ASGI, tale modello comporta rischi elevatissimi di violazioni dei diritti fondamentali, fra cui detenzione arbitraria in territori sottratti alla giurisdizione europea, espulsioni a catena verso Paesi non sicuri e violazioni del principio di non-refoulement. Le garanzie formali previste, come il richiamo generico al rispetto dei diritti umani o la previsione di meccanismi di monitoraggio, appaiono deboli e di difficile attuazione nella pratica, soprattutto perché molti accordi potranno essere conclusi in forma informale, senza obblighi vincolanti per lo Stato terzo sulla protezione delle persone trasferite.
La posizione del Consiglio introduce disposizioni che segnano un ulteriore arretramento nella tutela dei diritti umani, adottando un approccio punitivo e sanzionatorio verso persone che non hanno commesso alcun reato e che, spesso, si trovano già in condizioni di marginalità o vulnerabilità. Contrariamente a quanto affermato dai governi degli Stati membri, la proposta non contiene misure realmente idonee a rendere più efficace il sistema dei rimpatri: il suo esito sarà invece un aumento della criminalizzazione, della detenzione e della marginalizzazione delle persone in posizione irregolare.
Emendamento del Regolamento 2024/1348 sulla designazione di Paesi d’origine sicuri a livello dell’UE
La posizione del Consiglio conferma sostanzialmente le linee della proposta della Commissione, mantenendo l’istituzione di una lista comune UE di Paesi di origine sicuri e l’anticipazione di alcune disposizioni dell’APR (già analizzata, da ASGI, qui).
Di fatto, il testo permette di designare un Paese come “sicuro” anche quando alcune parti del suo territorio o categorie specifiche di popolazione presentano rischi significativi per i diritti fondamentali, purché siano previste garanzie procedurali generiche. Questa possibilità introduce una presunzione di sicurezza su scala sovranazionale, riduce l’esame individuale delle domande di protezione internazionale e limita le garanzie procedurali, nonostante vengano riconosciute criticità per categorie vulnerabili in diversi Paesi inclusi nella lista. La scelta dei Paesi designati, la scarsa trasparenza dei dati su cui si basa e il disallineamento con le valutazioni degli Stati membri confermano che la lista UE, lungi dal garantire maggiore uniformità, rischia di accelerare procedure sommarie e di compromettere l’effettività della tutela giurisdizionale dei richiedenti asilo.
Peraltro il testo potrà essere comunque rinviato da qualsiasi giudice alla CGUE per farle verificare la conformità della individuazione di un Paese come sicuro allorché invece si sono violati i criteri e i modi previsti dalle norme UE per individuarlo.
Emendamento del Regolamento 2024/1348 per quanto riguarda l’applicazione del concetto di “paese terzo sicuro”
Il concetto di Paese terzo sicuro consente agli Stati membri dell’UE di dichiarare inammissibile una domanda di asilo senza procedere ad un esame nel merito, qualora il richiedente avrebbe potuto chiedere ed ottenere protezione internazionale in un Paese non UE considerato sicuro. La posizione del Consiglio, che conferma quella della Commissione, segna però un netto arretramento delle garanzie: il criterio di connessione tra richiedente e Paese terzo, finora obbligatorio, diventa facoltativo, aprendo la porta a trasferimenti verso Stati con cui la persona non ha alcun legame reale, basati unicamente sulla presenza di un accordo formale o di un’intesa informale.
Nel nuovo sistema sarebbero infatti Paesi sicuri non soltanto i Paesi di origine quelli che siano ritenuti a livello europeo o nazionale come sicuri per i diritti umani , ma anche quelli di transito che siano ritenuti sicuri e quelli che abbiano stipulato accordi con gli Stati UE per riammettere, il che rappresenterebbe un’ esternalizzazione del diritto di asilo (e un suo completo snaturamento) con modalità di dubbia conformità col diritto d’asilo garantito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Parallelamente, il Consiglio conferma che la presentazione di un ricorso contro una decisione di inammissibilità basata sul concetto di Paese terzo sicuro non assicura più il diritto automatico a rimanere nell’UE durante l’esame giudiziario. L’assenza di effetto sospensivo automatico espone i richiedenti a trasferimenti forzati prima che la loro domanda sia valutata, aggravando il rischio di violazioni del principio di non-refoulement.
Conclusione: un arretramento inaccettabile delle garanzie fondamentali?
Il nuovo quadro normativo, così come delineato dal Consiglio, trasforma le procedure di asilo e rimpatrio in processi amministrativi rapidi e potenzialmente arbitrari, con ridotte garanzie procedurali che possano garantire una tutela giurisdizionale effettiva.
Se queste proposte fossero confermate dal Parlamento Europeo, verranno meno meccanismi essenziali di protezione che, pur con limiti, garantiscono almeno una parvenza di dignità e accesso a un rimedio effettivo.
Con la spinta verso l’esternalizzazione sia delle procedure di asilo sia dei rimpatri, gli Stati membri scelgono deliberatamente di sottrarsi agli obblighi internazionali a cui si erano vincolati dopo la Seconda Guerra Mondiale, subordinando la tutela dei diritti fondamentali a logiche di contenimento dei flussi migratori. Questa strategia non espone solo le persone migranti a rischi concreti per la propria vita e libertà ma rappresenta un nuovo pericolo precedente, una temibile eccezione a principi di diritto consolidati nel tempo. La normalizzazione della delega a Paesi terzi non in grado di garantire standard adeguati di protezione dei diritti umani, in cambio di promesse di ingresso nell’UE o di ingenti finanziamenti, comprometterà in maniera grave la centralità della protezione individuale e l’effettività del diritto di asilo in Europa. Può darsi che sia questa l’UE che vuole la maggioranza degli Stati UE (i nuovi testi sono stati approvati col voto contrario di Francia, Spagna, Grecia e Portogallo), ma non è certo che ciò corrisponda alla maggioranza dei cittadini europei, fermo restando che ogni giudice nell’UE potrà rinviare alla Corte di giustizia il quesito circa la conformità dei nuovi testi ai Trattati europei e alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE. È questa l’Europa che vogliamo?





