Uma Vela para Dario

di Dalton Trevisan

un racconto ripreso dal numero 54 della rivista «Sagarana» (già presentata qui in blog). Sotto il testo originale trovate la traduzione di Francesco Cecchini e una sua auto-presentazione.

Dario vinha apressado, guarda-chuva no braço esquerdo e, assim que dobrou a esquina, diminuiu o passo até parar, encostando-se à parede de uma casa. Por ela escorregando, sentou-se na calçada, ainda úmida de chuva, e descansou na pedra o cachimbo.

Dois ou três passantes rodearam-no e indagaram se não se sentia bem. Dario abriu a boca, moveu os lábios, não se ouviu resposta. O senhor gordo, de branco, sugeriu que devia sofrer de ataque.

bigode pediu aos outros que se afastassem e o deixassem respirar. Abriu-lhe o paletó, o colarinho, a gravata e a cinta. Quando lhe retiraram os sapatos, Dario roncou feio e bolhas de espuma surgiram no canto da boca.

Cada pessoa que chegava erguia-se na ponta dos pés, embora não o pudesse ver. Os moradores da rua conversavam de uma porta à outra, as crianças foram despertadas e de pijama acudiram à janela. O senhor gordo repetia que Dario sentara-se nacalçada, soprando ainda a fumaça do cachimbo e encostando o guarda-chuva na parede. Mas não se via guarda-chuva ou cachimbo ao seu lado.

A velhinha de cabeça grisalha gritou que ele estava morrendo. Um grupo o arrastou para o táxi da esquina. Já no carro a metade do corpo, protestou o motorista: quem pagaria a corrida? Concordaram chamar a ambulância. Dario conduzido de volta erecostado á parede – não tinha os sapatos nem o alfinete de pérola na gravata.

Alguém informou da farmácia na outra rua. Não carregaram Dario além da esquina; a farmácia no fim do quarteirão e, além do mais, muito pesado. Foi largado na porta de uma peixaria. Enxame de moscas lhe cobriu o rosto, sem que fizesse um gesto para espantá-las.

Ocupado o café próximo pelas pessoas que vieram apreciar o incidente e, agora, comendo e bebendo, gozavam as delicias da

noite. Dario ficou torto como o deixaram, no degrau da peixaria, sem o relógio de pulso.

Um terceiro sugeriu que lhe examinassem os papéis, retirados – com vários objetos – de seus bolsos e alinhados sobre a camisa branca. Ficaram sabendo do nome, idade; sinal de nascença. O endereço na carteira era de outra cidade.

Registrou-se correria de mais de duzentos curiosos que, a essa hora, ocupavam toda a rua e as calçadas: era a polícia. O carro negro investiu a multidão. Várias pessoas tropeçaram no corpo de Dario, que foi pisoteado dezessete vezes.

O guarda aproximou-se do cadáver e não pôde identificá-lo — os bolsos vazios. Restava a aliança de ouro na mão esquerda, que ele próprio quando vivo – só podia destacar umedecida com sabonete. Ficou decidido que o caso era com o rabecão.

A última boca repetiu — Ele morreu, ele morreu. A gente começou a se dispersar. Dario levara duas horas para morrer, ninguém acreditou que estivesse no fim. Agora, aos que podiam vê-lo, tinha todo o ar de um defunto.

Um senhor piedoso despiu o paletó de Dario para lhe sustentar a cabeça. Cruzou as suas mãos no peito. Não pôde fechar os olhos nem a boca, onde a espuma tinha desaparecido. Apenas um homem morto e a multidão se espalhou, as mesas do café ficaram vazias. Na janela alguns moradores com almofadas para descansar os cotovelos.

Um menino de cor e descalço veio com uma vela, que acendeu ao lado do cadáver. Parecia morto há muitos anos, quase o retrato de um morto desbotado pela chuva.

Fecharam-se uma a uma as janelas e, três horas depois, lá estava Dario à espera do rabecão. A cabeça agora na pedra, sem o paletó, e o dedo sem a aliança. A vela tinha queimado até a metade e apagou-se às primeiras gotas da chuva, que voltava a cair.

Traduzione dal portoghese di Francesco Cecchini:

Una candela per Dario

di Dalton Trevisan

Dario veniva di fretta, l’ombrello al braccio sinistro; appena girò l’angolo rallentò il passo fino a fermarsi, appoggiandosi al muro di una casa. Scivolando lungo questo, si sedette sul marciapiede e posò la pipa sulla pietra. Due o tre passanti lo circondarono e chiesero se si sentiva bene. Dario aprì la bocca, mosse le labbra, non si udì la risposta. Un signore grasso, vestito di bianco, suggerì che doveva soffrire di un attacco. Si appoggiò un poco più, ora steso sul marciapiede, la pipa si era spenta. Il ragazzo con i baffi chiese agli altri che si allontanassero e lo lasciassero respirare. Gli slacciò, il soprabito, il colletto e la cintura. Quando gli tolsero le scarpe, Dario rantolò di brutto e ai lati della bocca gli uscirono bolle di schiuma. Ogni persona che arrivava si innalzava in punta dei piedi, benché non potesse vederlo. Gli abitanti della via parlavano da una casa all’altra, i bambini si svegliarono e in pigiama si affacciavano alla finestra. Il signore grasso continua a dire che Dario avrebbe dovuto sedersi sul marciapiede, respirare il fumo della pipa e appoggiare l’ombrello alla parete. Ma né ombrello, né pipa si vedevano più al suo lato. La vecchietta dalla testa grigia gridò che stava morendo. Un gruppo lo trascinò al taxi dell’angolo. Già con metà del corpo dentro l’auto, il tassista protestò: Chi avrebbe pagato la corsa? Si misero d’ accordo per chiamare l’autoambulanza. Dario riportato indietro e appoggiato alla parete non aveva più né le scarpe, né il fermaglio di perla nella cravatta. Qualcuno disse della farmacia dell’altra via. Ora trasportarono Dario fino all’angolo della via, era molto pesante per la farmacia, alla fine del quartiere e anche oltre. Fu lasciato all’entrata di una pescheria. Uno sciame di mosche gli coprì il volto senza che lui facesse un gesto per scacciarle. Il caffè vicino si riempì delle persone che avevano assistito all’incidente e ora, mangiando e bevendo, godevano dei piaceri della vita. Dario restò storto come lo avevano lasciato, nello scalino della pescheria, senza l’orologio da polso. Un tale suggerì che fossero esaminati i suoi documenti, tolti con altri oggetti e allineati sulla camicia bianca. Così si vennero a conoscere il nome, l’età ed il certificato di nascita. L’indirizzo nel portafogli è di un’altra città. Vennero notati più di duecento curiosi che a quell’ora occupavano tutta la strada e i marciapiedi: c’era la polizia. L’ auto nera investì la folla. Molti urtarono il corpo di Dario che fu calpestato diciassette volte. Il poliziotto si avvicinò al cadavere e non poté identificarlo, le tasche vuote. La fede d’oro che, quando era in vita, poteva toglierla inumidendola con il sapone rimaneva nella mano sinistra. Si decise che il caso era da carro funebre. Un’ ultima voce ripeté: è morto, è morto. La folla iniziò a disperdersi. Dario ci mise due ore per morire, nessuno pensava che fosse arrivato alla fine. Ora, per tutti quelli che potevano vederlo, aveva l’aria di un defunto. Un signore pietoso piegò il capotto di Dario per sostenergli la testa. Gli incrociò le mani sul petto. Non poté chiudergli né gli occhi né la bocca, dove la schiuma era sparita. Appena l’uomo morì la folla si disperse, i tavoli del caffè rimasero vuoti. Alle finestre alcuni vicini con cuscini dove appoggiare i gomiti. Un ragazzino generoso e pietoso arrivò con una candela che accese al lato del cadavere. Sembrava morto da molti anni, quasi il ritratto di un morto spento dalla pioggia. A una a una si chiusero le finestre e Dario restava là in attesa del carro funebre. Ora la testa sul suolo, senza il cappotto e il dito senza fede. La candela si era bruciata per metà e si spense alle prime gocce di pioggia che riprendeva a cadere.

Auto presentazione di Francesco Cecchini

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Ho scelto l’ immagine del lupo perché questo animale mi è simpatico. Partecipo a molte iniziative a suo sostegno. Mentre orsi, leoni e tigri si possono addestrare ed esibire nei circhi è impossibile addomesticare il lupo o mettergli la museruola ed esibirlo.

Ho avuto una nonna nata in Brasile, a San Paolo, figlia di due italiani che alla fine dell’ottocento dal Veneto erano andati laggiù. È forse questa la ragione perché il Brasile, che ho visitato in varie occasioni, è per me una terra speciale che non sento straniera. Sono nato a Roma nell’ottobre 1946, ma ora vivo al nord. A Roma mi sono diplomato e ho vissuto il 68. Dal 1967 al 1978 sono stato un militante a tempo quasi pieno. Ho frequentato le facoltà di Sociologia a Trento e di Urbanistica a Treviso; le mie scelte sono state non in funzione degli studi, ma del lavoro politico. Nel marzo 1978 ho interrotto la militanza politica, ma non ho cambiato le idee, che continuano a essere rosse. Da allora al 2012 ho vissuto altrove lavorando dapprima in grandi cantieri di costruzioni, poi dedicandomi alla contrattualistica e alle ricerche di mercato del settore infrastrutture. Ho fatto analisi e ricerche di progetti infrastrutturali futuri in Algeria, India, Nigeria, Argentina, Polonia e Marocco. Ho vissuto in molti Paesi e città del mondo: Buenos Aires, Boston, Sai Gon, Lagos, Algeri, Bombay, Tangeri guardando, conoscendo gente e imparando. Quest’esperienza di vita è alla base di un progetto di scrittura: una trilogia di romanzi ambientati a Bombay, Algeri e Lagos. Ho scritto il primo – «Rosso Bombay» – che si trova su Amazon in attesa di una pubblicazione da parte di qualche editore. Sto scrivendo il secondo e del terzo ho definito a grandi linee la trama.

Ora scrivo a tempo pieno collaborando con blog, siti e un’agenzia di notizie eritrea per temi del Corno d’Africa. Traduco anche dalle lingue che conosco, innanzitutto come esercizio per imparare a scrivere. È tutto, o quasi.

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