Nicaragua: magistratura più veloce della luce

I processi utilizzati contro ogni forma di dissidenza.

di Bái Qiú’ēn

Da una parte era nell’interesse generale concludere rapidamente il processo, dall’altra tuttavia le udienze avrebbero dovuto essere esaurienti sotto ogni aspetto e non durare mai troppo per la fatica che richiedevano (Franz Kafka).

Sí, es cierto. Existió lo que podríamos llamar una tentativa de complot […]. Sin embargo, se magnificaron los hechos a cuantías absurdas, con la premeditada intención de involucrar al mayor número de personas, a fin de someterlos sin sentido ni justificación, a una grotesca y primitiva venganza (Agustín Torres Lazo).

Dobbiamo confessare che, nelle settimane appena trascorse, innumerevoli volte ci era venuta la voglia di suggerire ai nostrani politici e alla nostrana magistratura di studiare con attenzione come funziona la giustizia in Nicaragua. Nel nostro «bel Paese dove il sì sona», i procedimenti giudiziari hanno una durata se non infinita, quasi. Anni e anni di sedute, con testimoni, contro-testimoni, eccezioni della difesa, consulenze scientifiche, pareri e perizie di esperti… e chi più ne ha più ne metta, prima di giungere a una sentenza.

Per la cinquantina di personaggi politici, di giornalisti e di avvocati, unitamente a vari accusati di tentato golpe e altre imputazioni, la durata media del procedimento giudiziario per ciascuno è stata finora di sette-otto ore, con un massimo di dodici. In ogni caso, tutti iniziati e conclusi nella stessa giornata. Da noi, sarebbe un enorme risultato se fossero sette-otto mesi, o anche dodici.

Se si considera che il processo davanti al Tribunale militare nei confronti dei supposti complici di Rigoberto López Pérez per l’uccisione di Anastasio Somoza García iniziò il 16 ottobre 1956 e si concluse con la sentenza emessa il 2 gennaio 1957, anche all’epoca i tempi erano di parecchio inferiori ai nostri. Oggi, però, si è raggiunto un record a livello interplanetario, difficilmente superabile e da registrare nel Guinness dei primati. Però, dubitiamo che possa essere annoverato tra i logros de la Revolución. Quanto meno, di quella che ci aveva riempito di speranze nelle «magnifiche sorti e progressive» della sinistra negli anni Ottanta del secolo scorso.

Nonostante che Tachito Somoza desiderasse una condanna capitale per i supposti colpevoli della uccisione di suo padre, la Corte militare si limitò a comminare una pena di quindici anni ai quattro imputati ritenuti i maggiori responsabili dell’attentato (poi assassinati il 18 maggio 1960, anniversario della nascita di Sandino, utilizzando la ley de fuga). Gli altri condannati se la cavarono con pene sensibilmente inferiori.

Senza dubbio gli odierni magistrati giudicanti si sono attenuti scrupolosamente alla lettera del vigente Codice di procedura penale, il quale stabilisce che «Ogni imputato in un procedimento penale ha il diritto di ottenere una risoluzione entro un termine ragionevole, senza formalità che ne pregiudichino le garanzie costituzionali» (art. 8). Il «termine ragionevole» è indicato nel successivo art. 134: «In ogni processo per reati in cui vi sia un imputato incarcerato per la presunta commissione di un reato grave, il verdetto o la sentenza deve essere pronunciata entro un termine non superiore a tre mesi dalla prima udienza».

Il tema della ragionevole durata del processo da noi si discute ormai da decenni, in quanto rappresenta sia un diritto della persona coinvolta sia una garanzia oggettiva del buon funzionamento della giustizia. Senza però riuscire cavare il classico ragno dal suo comodo buco e tentando di curare il malato terminale con impacchi di acqua calda.

Per tutti gli imputati, accusati sostanzialmente dei medesimi reati compiuti in associazione, ma quasi tutti processati singolarmente, in Nicaragua è stata sufficiente la prima e unica udienza: juicios exprés, sono stati qualificati dalla opposizione. E c’è ben poco da dire su questa definizione, che fotografa una incontestabile realtà di fatto. Condanne in serie, speedy trial, fresche di giornata come le uova del contadino.

Per i primi venti, ogni processo si è svolto singolarmente, poi si è deciso di abbreviare ulteriormente i tempi. Poiché il 14 febbraio era stato dichiarato giornata festiva, a partire da martedì 15, in un unico processo comune sono giudicati sette imputati: siete pájaros de un tiro. Nel corso delle cinque sedute consecutive, un paio di imputati hanno presentato rilevanti problemi di salute e sono stati esaminati da un medico (a quanto pare, uno potrebbe soffrire di Parkinson). Che non sia una bufala della opposizione, ma la realtà fattuale, è attestato dal fatto che il 18 febbraio sono stati concessi gli arresti domiciliari a due dei sette imputati, più un altro già condannato (la cui età va dai 68 ai 77 anni).

Nel frattempo, i processi singoli sono continuati, tutti aperti e chiusi in giornata.

Questo modo di agire, oltre a non fare onore allo spirito della Rivoluzione popolare sandinista né alla garanzia di un giusto processo, è un enorme regalo alla propaganda sia della destra interna sia degli Stati uniti e suoi alleati. E non ne riusciamo a comprenderne la ratio, se non dettata da pura e semplice follia istituzionalizzata in cerca di vendetta più che di giustizia. Ma ci sarà sempre in giro per il mondo qualche bun e cujun che sosterrà il contrario.

Nel settembre del 2021 questi procedimenti erano stati sospesi a tempo indeterminato, ufficialmente per «causa di forza maggiore» dovuta al troppo lavoro arretrato e a quello che avrebbe potuto aggiungersi. A quanto pare, dopo quattro mesi quel cumulo ancora inevaso è stato smaltito e non se ne è aggiunto altro in quantità tale da dover ulteriormente rinviare.

Tornando un po’ più indietro nel tempo, tra gli arrestati della scorsa estate, v’era pure uno dei leader del movimento campesino contro il Canale interoceanico. Il 18 febbraio 2019, per i reati commessi nel corso del 2018 fu condannato in prima istanza a 216 (duecentosedici) anni di carcere, in seguito amnistiati e teoricamente dimenticati dallo Stato. Il procedimento giudiziario contro di lui e altri era iniziato il 1° ottobre 2018: quattro mesi e mezzo. È solo un esempio, per comprendere la questione dei tempi tecnici necessari per un procedimento giudiziario assai complesso, come quelli di cui stiamo parlando: non si tratta del furto di due banane dal carretto del venditore ambulante. Il 5 luglio 2021 era stato nuovamente incarcerato in quanto responsabile di azioni criminali compiute nel 2018 e reiterate in seguito (Nota de prensa no. 181-2021 della Policía nacional). Non entriamo nei dettagli né commentiamo l’enormità della pena comminata nel 2019 che con l’amnistia dovrebbe essere stata cancellata dalla fedina penale dell’interessato, risultando quindi incensurato, ma ci pare che vi sia una discreta differenza tra i quattro mesi e mezzo del processo precedente e le poche ore di durata dell’attuale (9 febbraio).

Ci torna in mente, chissà perché, la descrizione di un processo a Torino oltre cento anni fa: «Trenta minuti di discussione, quattro processi per direttissima, quattro condanne, quattro nuovi pregiudicati. Anche i loro nomi sono ignoti ai giudici fino all’ultimo momento decisivo. La preoccupazione maggiore è di sbrigarsela in fretta, di poter uscire dall’aula fetida, di respirare. Nessun senso di responsabilità. Il Pubblico ministero che, secondo i sacri principî dell’89, tutela la collettività e deve parlare in nome di tutti per il diritto che tutti hanno di vivere tranquilli, chiacchiera con un vicino; quando viene il suo turno domanda un nome, scorre un rapporto di polizia, ricorda un articolo del codice, e bolla. Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre. La polizia ha già condannato; contraddire alla polizia richiederebbe uno sforzo, domanderebbe una persuasione» (Antonio Gramsci, 2 agosto 1916).

A partire dal 1° fino al 19 febbraio sono già stati processati ventitré imputati e sono state emesse quattordici condanne, mentre prosegue il giudizio per gli altri sette. Vera e propria maratona da fare invidia al mitico Filippide. Le richieste del Pubblico ministero variavano dagli otto ai quindici anni di carcere. Accettate dal magistrato giudicante senza battere ciglio, in alcuni casi con lievissime variazioni per dimostrare la indipendenza della magistratura giudicante: «e di affidarli al boia / fu un piacere del tutto mio…». Come pena aggiuntiva, non poteva mancare l’inibizione a ricoprire cariche pubbliche per il periodo della condanna. E, come ciliegina sulla torta, la confisca di tutti i loro beni. Dubitiamo che qualcosa cambi nei futuri processi di appello.

Riflettendo sulle parole di Sergio Mattarella, il giorno del suo reinsediamento: «I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone» (3 febbraio 2022), chissà perché ci sorge la vaga sensazione che i magistrati nicaraguensi abbiano applicato il Sistema Taylor e la catena di montaggio alle loro sentenze. O che siano stati pagati a cottimo, più o meno come l’operaio Ludovico Lulù Massa: «Un pezzo un culo… un pezzo un culo…». Per coloro che sono troppo giovani, ci stiamo riferendo a una scena del film di Elio Petri La classe operaia va in paradiso, con Gian Maria Volontè mentre lavora al tornio (1971). Piccolo inciso, sempre per i più giovani: in quegli anni, la definizione «operaio-massa» aveva un senso politico assai preciso (per info, suonare al citofono di Mario Tronti). Ma questa è un’altra storia e riguarda la sinistra italiana, pure quella auto-nominatasi alternativa… ormai da tempo in cerca d’autore.

«Bisogna […] applicare quel tanto che vi è di scientifico e di progressivo nel sistema Taylor», scrisse Lenin sei mesi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, in «I compiti immediati del potere sovietico» (pub­bli­cato il 28 aprile 1918 nella Pravda e nelle Izvestija). Però, si riferiva alle industrie, non ai tribunali.

Uniche presenze ammesse al procedimento: il giudice, il pubblico ministero, il cancelliere e l’avvocato difensore. A volte vi erano alcuni testimoni, immancabilmente agenti di polizia, spesso gli stessi nei vari procedimenti. Raramente era concesso a un familiare di poter assistere, a uno solo (per evitare assembramenti e la diffusione di Omicron, senza dubbio). Gli eventuali resoconti di queste settimane, pertanto, sono forzatamente di parte. Dell’una o dell’altra parte. In ambo i casi, poco credibili per definizione. Perciò non possiamo affermare con certezza che, come sostengono alcuni avvocati difensori, le uniche prove presentate dalla Fiscalía erano messaggi sui social e dichiarazioni pubbliche degli stessi imputati. Come è d’obbligo il beneficio d’inventario sul fatto che gli stessi difensori siano stati sottoposti a perquisizioni corporali prima di entrare nella cella trasformata in pseudo aula.

Nulla di ufficiale è finora stato diffuso sulle condanne e il sito web del Ministero Público è fermo al comunicato dell’inizio dei procedimenti penali. Per cui, coloro che ne hanno commentato lo svolgimento, è evidente che abbiano ricevuto informazioni da una delle due parti. Tutti i siti web governativi o filogovernativi, tacciono e non pubblicano una sola riga sull’argomento, come se nulla stesse succedendo. Dal canto nostro ci asteniamo da ogni commento specifico, limitandoci ad alcune osservazioni di carattere generale. In attesa di informazioni attendibili e non propagandistiche (da ambo le parti). Ammesso che arrivino.

Il primo paragone che ci viene in mente, da appassionati di storia e topi di biblioteca, è che giorno dopo giorno nelle colonne dei quotidiani del 1956 che avevamo consultato alcuni anni fa, sia somozisti sia della opposizione, erano riportati integralmente gli interrogatori degli imputati nel processo relativo alla uccisione di Tacho Somoza. Lo stesso accadeva nei resoconti radiofonici e televisivi. Lo scopo della dittatura era mostrare a tutti la colpevolezza degli accusati, mentre l’opposizione aveva la motivazione opposta e contraria. Lungi da noi voler fare paragoni tra una feroce tirannia dinastica e un governo socialista cristiano e solidale, ma questa è la realtà storica dei fatti che nessuno può cancellare.

Se qualche lettore è interessato a conoscere lo svolgimento di quel vecchio processo, decisamente interessante sotto vari punti di vista, può procurarsi La saga de los Somoza. Historia de un magnicidio, scritto da Agustín Torres Lazo e pubblicato nel 2000 (con numerose riedizioni successive). All’epoca, l’autore aveva ventisei anni ed era il Pubblico ministero militare (Guardia nacional). Non solo riporta buona parte degli interrogatori, ma narra pure parecchi retroscena che ovviamente i mezzi di informazione non conoscevano: «Sì, è sicuro. Esisteva quello che potremmo chiamare un tentativo di complotto […]. I fatti furono però ingigantiti a livelli assurdi, con la premeditata intenzione di coinvolgere il maggior numero di persone, per sottoporle senza senso né giustificazione, a una grottesca e primitiva vendetta». Alcuni anni dopo, nel 2012, pubblicò un volume integrativo intitolato La saga de los Somoza. Expedientes inéditos.

Solo per dovere di cronaca riferiamo che l’editoriale del quotidiano costaricano La Nación paragonava i processi attuali a quelli staliniani del 1936-’38 («Los procesos de Managua», 4 febbraio 2022). Per quanto possa essere affascinante il parallelo, riteniamo che sia decisamente forzato. Tralasciando il fatto che fossero una ignobile farsa, innanzitutto quelle «purghe» avvennero essenzialmente per eliminare tutti i quadri dirigenti del Partito comunista dell’Unione Sovietica che potessero fare ombra a Stalin: quasi tutti i bolscevichi della «vecchia guardia» furono giustiziati, incarcerati o esiliati. In secondo luogo, l’ambasciatore gringo a Mosca, Joseph Edward Davis, affermò che quei processi erano corretti e giusti, motivati dalla sicurezza dello Stato. In terzo luogo, almeno i primi due procedimenti giudiziari furono filmati e resi pubblici non solo all’interno del Paese, ma anche all’estero. Furono pure rese note internazionalmente le trascrizioni dei dibattimenti.

Tornando alla attualità, lasciamo ai lettori la riflessione comparativa con quanto stabilito dall’art. 13 CPP: «A pena di nullità, le diverse comparizioni, udienze e processi penali previsti dal presente Codice saranno orali e pubbliche». In base all’art. 34 della Costituzione, comunque, l’«accesso della stampa e del pubblico in generale può essere limitato da considerazioni di moralità e di ordine pubblico».

Svolgendosi all’interno di un carcere e con la presenza costante di un buon numero di antimotines sia all’esterno sia all’interno (qualcuno li definisce robocop), il problema dell’ordine pubblico non ci pare possa essere invocato. In ogni caso non riusciamo a capire perché, pur con gli strumenti tecnologici oggi disponibili, non si possano video-registrare e renderli di pubblico dominio, rispettando il dettato del Codice di procedura penale. Del resto, non sarebbe un impegno ulteriore, poiché l’art. 283 prevede che «Il processo e, se del caso, l’udienza di condanna saranno registrati nella loro interezza e la registrazione dovrà essere conservata. Attraverso la registrazione sarà possibile verificare l’esattezza di quanto stabilito in sentenza su quanto affermato dai testimoni e dai periti, ed ogni incidente sollevato nel dibattimento».

Resta da valutare la faccenda della moralità. Non trattandosi di casi di violenza sessuale o nei quali siano coinvolti dei minori, o situazioni simili che potrebbero far sorgere determinati pruriti negli spettatori, l’unica immoralità che può essere invocata è quella dei magistrati giudicanti che accettano a scatola chiusa le risultanze delle indagini della polizia e le conseguenti richieste del Pubblico ministero. Senza neppure verificare con serietà professionale le prove e richiedere eventuali testimonianze a favore degli imputati: tutti gli accusati sono colpevoli fino a prova contraria.

Pertanto, stando al succitato articolo CPP, tutte queste sentenze sono nulle per vizio di forma, non esistendo alcuna plausibile motivazione per svolgere i processi a porte chiuse. Altro motivo di nullità è la inosservanza del successivo art. 293 CPP, il quale prevede che per un reato ritenuto di rilevante gravità (ci pare che un tentato golpe rientri nella fattispecie) l’imputato debba essere giudicato da una giuria, non da un giudice monocratico e specifica pure che soltanto l’imputato può decidere di rinunciarvi.

In questo modo di agire qualcuno, di certo, potrà vederci uno degli innumerevoli logros de la Revolución. La Giustizia funziona egregiamente e speditamente… anzi, per renderla ancora più efficiente, la Asamblea Nacional sta mettendo mano a quel Codice di procedura penale che stiamo citando.

Mentre scriviamo, ci tornano in mente le parole che Fidel Castro pronunciò tanti anni fa inaugurando una cooperativa campesina. In quei giorni eravamo a La Habana e il trionfo della Rivoluzione popolare sandinista era ancora parecchio lontano. Ascoltammo in diretta televisiva il discorso del comandante en jefe, il quale più o meno disse: nei primi tempi si comunicava l’orario di inizio di una manifestazione, ma poi si iniziava parecchie ore dopo. Oggi possiamo dire di aver compiuto un grande passo in avanti: cominciamo con mezzora di anticipo.

C’è logro e logro, grande o piccolo che sia, dal nostro punto di vista. Abbiamo però il sospetto che ciò che sta accadendo in Nicaragua abbia a che fare più con un ogro che con un logro.

Come avevamo rilevato in un articolo precedente, sia Daniel sia Rosario avevano pubblicamente e reiteratamente fatto uso di epiteti non proprio consoni al loro ruolo istituzionale («vampiros que reclaman sangre» è probabilmente il più blando), mentre la stessa Fiscalía aveva definito gli imputati «criminales y delinqüentes», emettendo una sentenza definitiva e inappellabile ancora prima di iniziare i processi. Sarà che siamo troppo garantisti, ma pure su questo invitiamo i lettori a riflettere, tenendo presente che il Codice di procedura penale stabilisce con chiarezza che «fino al verdetto di colpevolezza, nessun pubblico ufficiale può presentare una persona come colpevole né fornire informazioni su essa in questo senso» (art. 2). Ma abbiamo già avuto occasione di vedere come le leggi in Nicaragua, a partire dalla Costituzione, siano dei puri e semplici chiffon de papier.

Dobbiamo comunque rilevare che mai, sottolineiamo mai, da parte di Daniel o di chiunque altro rappresentante istituzionale è stata espressa una posizione politica di qualsiasi tipo rispetto a Giulio Regeni o a Patrick Zaky, tanto meno di blanda critica nei confronti di al-Sisi per le migliaia di oppositori incarcerati. Come neppure sui massacri compiuti dall’esercito di Erdogan nel Rojava. Ma pure questa è un’altra storia… o fa parte dello stesso modello equivocato di solidaridad con coloro che sono regolarmente definiti hermanos?

Per ciò che concerne le sentenze, per il momento non si conosce su quali prove siano basate né le relative motivazioni di condanna. Considerando, però, la velocità dei procedimenti, non ci meraviglieremmo se fossero redatte su prestampati usciti da una fotocopiatrice, sui quali aggiungere solamente il nome dell’imputato e la pena da scontare.

Chissà perché ci è tornato in mente che in The Principles of Scientific Management l’ingegnere Frederick Winslow Taylor scrisse nel 1911: «This work is so crude and elementary in its nature that the writer firmly believes that it would be possible to train an intelligent gorilla so as to become a more efficient pigiron handler than any man can be [Questo lavoro è talmente grossolano ed elementare nella sua tipologia che l’autore crede fermamente che sarebbe possibile ammaestrare un gorilla intelligente in modo da diventare un manipolatore di ghisa assai più efficiente di quanto possa essere qualsiasi uomo]».

A quanto ci risulta, soltanto un pugno di magistrati di Managua è impegnato per giudicare gli imputati: se non andiamo errati, cinque. Non sappiamo quali onorificenze o progressioni di carriera si stiano cucinando per questi Nembo Kid provenienti dal lontanissimo pianeta Krypton, che sentenziano più veloci della luce. Non ci meraviglieremo se, tra non molto tempo, troveremo i loro nomi tra i sanzionati dal governo gringo. Forse pure dalla UE e da altri governi. E, probabilmente, la scusa ufficiale del settembre 2021 serviva proprio per trovare qualcuno disposto a rischiare. Per quanto le loro generalità siano note, evitiamo di farle, non avendo in nessun caso tendenze delatorie.

Come non è logicamente plausibile che, a prescindere dal numero di contagiati, i decessi per Covid-19 continuino a essere regolarmente uno a settimana, così non è credibile che per ciascuno degli imputati bastino poche ore e in giornata termini il relativo dibattimento. Semplici manipolatori di sentenze in serie, che hanno sostituito la ghisa di Taylor con persone in carne e ossa, come gorilla am-magistrati… pardon, ammaestrati (il lapsus calami è dovuto alla medesima etimologia: magĭster).

Lulù Massa lavorava a ritmi infernali, da vero stakanovista, ed era portato come esempio dai padroni della fabbrica. In una scena successiva, a un certo punto un pezzo al tornio si inceppa e l’operaio Massa prova a estrarlo con un dito. Lasciandolo nel macchinario. Danni collaterali del Sistema Taylor e del cottimo…

Postilla (che mai avremmo voluto scrivere).

La Divina Provvidenza ha fatto sì che i suddetti magistrati avessero un po’ meno lavoro e uno degli arrestati non dovesse essere processato. Hugo Torres Jímenez, che in una delle numerose azioni guerrigliere alle quali partecipò a partire dal 1971, come «Comandante Uno» il 27 dicembre 1974 riuscì a far liberare numerosi prigionieri, tra i quali Daniel Ortega, è morto il 12 febbraio.

Per la cronaca, meglio, per la storia, in quel dicembre del 1974 Rosario Murillo era dedita anima e corpo alla propria opera poetico-guerrigliera e l’anno successivo pubblicò la sua prima raccolta Gualtayán, che Sergio Ramírez recensì positivamente («Rosario Murillo: con el amor en el alma», La Prensa Literaria, 1° novembre 1975). Neppure una parola di cordoglio da parte di chi la gh’ha el balin in man, anzi, nessun accenno nei suoi sproloqui quotidiani.

Arrestato il 13 giugno dello scorso anno a 73 anni e già sofferente di varie infermità croniche, Torres era in attesa di giudizio. Le sue condizioni di salute erano drasticamente peggiorate nei mesi di detenzione, tanto che il 17 dicembre fu ricoverato d’urgenza nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale che fino al marzo del 2020 era gestito dalla polizia e oggi dal ministero dell’Interno (Decreto Presidencial 05-2020), ubicato all’inizio della Carretera Nueva a León. Dove, a quanto pare, era rimasto fino al decesso. «Poscia, più che il dolor, poté il digiuno».

Stando al laconico comunicato n. 002-2022 del Ministerio Publico, datato il giorno stesso della morte e reso noto parecchie ore dopo, «essendo venuto a conoscenza della gravità della malattia, per motivi umanitari, aveva chiesto alla autorità giudiziaria la sospensione definitiva dell’inizio del processo orale e pubblico, che era stato concesso».

Comunicare ufficialmente la «sospensione definitiva» solo dopo il decesso dell’imputato a causa di malattia, senza averne mai fatto cenno negli otto mesi di detenzione, fa pensare a una sorta di mezzuccio a posteriori per lavarsi la coscienza. Del resto, cosa significhi «sospensione definitiva» lo sa solo Dio, visto che il dibattimento del suo caso era programmato per la settimana successiva. Ci piacerebbe conoscere la data in cui tale decisione è stata presa, ma resteremo con la nostra curiosità. Chiunque può comprendere che se un procedimento giudiziario è definitivamente sospeso, non ha alcun senso (men che meno umanitario) continuare a considerare carcerata una persona a tutti gli effetti innocente fino a sentenza passata in giudicato. Per cui poteva essere trasferito in un ospedale civile senza essere piantonato costantemente, se ancora necessitava di cure mediche. Altrimenti, posto agli arresti domiciliari.

Stendiamo un velo pietoso sui siti ufficiali, i quali si sono limitati a riportare o a parafrasare il comunicato del Ministerio Público. Senza un minimo cenno alla biografia di Hugo Torres, né uno straccio di commozione per il suo decesso. Ponzio Pilato docet et impera.

Ci pare che non esista la edizione italiana, pertanto suggeriamo la lettura di El asalto (Editorial Nueva Nicaragua, 1983), sceneggiatura cinematografica scritta da Gabriel García Márquez sulla azione del Natale 1974: «El UNO pasa junto a los agentes del grupo A y no les dispara porque los cree muertos, pero una vez que el UNO pasa, los dos heridos se levantan y empiezan a disparar, tratando de parapetarse en los autos. Ahora los agentes de los grupos C y D disparan también»…

q.e.p.d.

Redazione
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