Una vita libera: a 10 anni dalla morte di Doris Lessing

di Giovanni Carbone

Se ne va dieci anni fa, il 17 novembre del 2013, a Londra, Doris May Lessing. Nata in Iran, a Kermanshah, nel 1919, nel 2007 vince il Nobel della letteratura con una motivazione che sintetizza una vita di autentica partecipazione civile: «cantatrice dell’esperienza femminile che con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa».

La sua stessa vicenda personale è un romanzo, tra le cui pagine matura quella prepotente volontà di schierarsi con gli ultimi, con le donne. Il suo femminismo è certo lotta per i diritti delle donne, per la loro emancipazione, l’affermarsi al di là del giudizio e del pregiudizio, ma è anche e soprattutto una presa d’assalto tout court alla cittadella del patriarcato con le sue costruzioni gerarchiche, i suoi paradigmi di sopraffazione, le sue contraddizioni. Il femminismo della Lessing è capace di comprendere come la subalternità delle donne sia espressione culturale di quello stesso patriarcato che ha determinato ed alimentato le dinamiche del colonialismo prima e dell’imperialismo dopo, produce le insoddisfazioni di chi cerca un posto nel mondo, è qualcosa di più che un rapporto diseguale tra i generi. Per questo non si definisce mai una scrittrice femminista, rifiuta l’etichetta, la bolla come semplicistica. Al New York Times dichiara: «Quello che le femministe vogliono da me è qualcosa che loro non hanno preso in considerazione perché proviene dalla religione. Vogliono che sia loro testimone. Quello che veramente vorrebbero che io dicessi è “Sorelle, starò al vostro fianco nella lotta per il giorno in cui quegli uomini bestiali non ci saranno più”. Veramente vogliono che si facciano affermazioni tanto semplificate sugli uomini e sulle donne? In effetti, lo vogliono davvero. Sono arrivata con grande rammarico a questa conclusione.»

La prosa tagliente, vivida dei suoi scritti ha un obiettivo preciso proprio nella destrutturazione di quell’immenso apparato di potere culturale “maschile”, ma sa divenire intima, mostra l’altra faccia possibile dei rapporti, traccia traiettorie eversive (recuperandone il significato etimologicamente più puro, dal latino e-vertere, cambiare direzione), persino sino all’alienazione, ci rende sguardi profondi che si dispiegano su piani infiniti. Il suo – lo sguardo – è militante, la Lessing non racconta per sentito dire, vive i processi, attraversa le dinamiche sociali, non si sottrae a sperimentarne le più brutali, le eviscera con sentimento autentico di ricercatrice. Perché questa, appunto, è la sua storia e questa storia è parte consistente di quelle che racconta. I suoi personaggi sono uniti a filo doppio col lettore, creano empatia poiché a nudo viene messa tutta la loro fragilità, il tentativo spesso abortito di trovare una propria dimensione.

Il contatto col mondo “dominato” ce l’ha sin dall’infanzia. Il padre, un militare inglese reduce malmesso della Prima Guerra Mondiale, sposa un’infermiera dal carattere ruvido e accetta un lavoro da impiegato di banca nella Persia degli Scià. Poi, nel 1925, tutta la famiglia sceglie di trasferirsi nella Rhodesia del Sud, simbolo dell’Africa schiavista e selvaggia, per coltivare mais. Ma l’impresa che la madre vuole con forza naufraga presto. Proprio le asperità dei rapporti con la madre la inducono ad abbandonare la scuola, a scegliere una formazione autodidatta, libera. Sulla sua esperienza africana scrive molto, esprimendo una pietas intensa sia per gli agricoltori giunti dal Regno Unito, travolti spesso dal fallimento delle loro speranze di trovare un paradiso in quelle “terre selvagge”, sia per le condizioni di acutissima sofferenza in cui vivono gli indigeni.

Nelle opere della Lessing si distinguono periodi diversi, quello della militanza vera e propria, con l’adesione al comunismo, sino alla metà dei ’50. È questo il momento della sua scrittura politica che termina con il progressivo disfacimento delle ideologie, l’irrigidirsi del partito su posizioni burocratiche, e poi il discorso di Khrushchev che sembra chiudere definitivamente un’epoca. C’è lo smarrimento per la mancanza di una autentica presa di coscienza collettiva, per il venir meno di punti di riferimento, il progressivo allontanarsi della sinistra occidentale da posizioni anticapitaliste. Proprio questo smarrimento induce nella Lessing una scrittura più attenta ai temi sociali, ai risvolti psicologici che, quindi, diventano a lungo il suo orizzonte narrativo, proprio per esplorare la disillusione, l’assenza di una prospettiva altra. Negli anni ’70, Doris Lessing è affascinata dai temi del sufismo, li introduce nella serie di cinque testi di «Canopus in Argos», libri di ambientazione fantascientifica. L’autrice pare cambiare rotta improvvisamente rispetto ai suoi lavori precedenti, imboccando la strada di una sorta di viaggio cosmico ammantato di misticismo.

«Il taccuino d’oro», del 1962. è forse la sua opera più potente, per l’originalissimo stile narrativo certo, ma soprattutto per i contenuti che portano l’autrice ad essere identificata come una «femminista arrabbiata». Nei cinque taccuini (nero, rosso, giallo, blu, oro) la Lessing descrive le «donne libere», quelle che possono vivere la propria vita oltre il pregiudizio sociale, oltre il giudizio degli uomini. Certamente è l’opera più rappresentativa della Lessing che, attraverso gli occhi della protagonista, la scrittrice Anna Wulf (non pare casuale l’ammiccamento nel nome a Virginia Woolf) disvela le cocenti frustrazioni dell’oggi come anticipatorie della disgregazione sociale del domani. I primi quattro taccuini si ripropongono quattro volte, ricongiungendosi in una sintesi definitiva nell’ultimo approdo del quinto, l’oro, che non a caso dà il titolo all’opera. La struttura così particolare, straniante, è il tratto più significativo dello stile della Lessing e se da una parte rappresenta il quadro frammentato del contemporaneo, dall’altra si manifesta come strumento assai efficace per condurre il lettore ad una attenta disamina degli avvenimenti narrati, ad una percezione piena del dettaglio dell’intimo dei protagonisti.

L’opera della Lessing è monumentale, così ricca e varia da non apparire catalogabile. Del resto, tutta la vita lei stessa ha cercato di tirarsi fuori da ogni categorizzazione, ogni semplicistica definizione e, a scanso di equivoci, i suoi animali preferiti – cui ha dedicato numerosi racconti – sono i gatti, consapevoli dì essere liberi, incapaci di non esserlo, anche quando attraversano i cunicoli e le feritoie più strette delle città degli uomini.

In “bottega” cfr «Memorie di una sopravvissuta» di Doris Lessing , Doris Lessing, memorie perdute, Da rileggere: «Memorie di una sopravvissuta» e Ben, il figlio di Doris Lessing

 

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