Vicenza, un corridoio industrial-militare…


grazie agli “amici” statunitensi?

di Gianni Sartori

Gianni-VicenzaLIBERA

La nuova base nordamericana all’ex Dal Molin? Si potrebbe anche pensare che in fondo i vicentini se la meritavano. Se si convive per oltre cinquant’anni con un cancro come la Caserma Ederle (per non parlare delle basi sotterranee di “Pluto” a Longare e della “Fontega” al Tormeno) non è lecito meravigliarsi quando scoppia la metastasi. (*)

Fra le più penalizzate dall’ingombrante presenza imperiale sicuramente la zona est di Vicenza (e il quartiere di san Pio X in particolare) dove da anni vige una situazione abnorme a causa della presenza della Ederle. Qui ho vissuto a lungo e posso confermare che certe volte alla mattina presto sembrava di essere nella Belfast degli anni ottanta (una realtà che conoscevo di persona come free-lance) con centinaia di marines che correvano o marciavano in tenuta da combattimento. E non sono passati molti anni da quando enormi elicotteri chinook sorvolavano il quartiere a bassa quota mettendo a repentaglio la vita degli abitanti (contro questo, almeno, riuscimmo a provocare un paio di interrogazioni parlamentari). Ma agli inizi del secolo sembrava ormai prevalere la cristiana rassegnazione.

Poi è arrivato il progetto all’aeroporto Dal Molin e per circa un decennio la questione ha avuto risonanza nazionale. L’incremento dei soldati in servizio a Vicenza è una ulteriore conferma dell’importanza strategica della città del Palladio nell’ottica della ristrutturazione globale dell’esercito Usa. Oltre al trasferimento da Heidelberg a Wiesbaden (sudovest della Germania) del quartier generale delle Forze terrestri, nei piani del Pentagono si parlava di una riduzione del numero dei comandi operativi in Europa: Grafenwoehr (Baviera, Germania), Wiesbaden (Assia, Germania), Kaiserslautern (Renania-Palatinato, Germania) e appunto Vicenza. Ai due battaglioni della 173ª Airborne Brigade di stanza alla Ederle (periodicamente utilizzati in Afghanistan) se ne aggiunge un 3°. Saranno i corpi d’élite di pronto impiego. Il progetto, ormai realizzato, della costruzione di un nuovo complesso militare ha consentito di rimodulare la 173ª, cioè trasferire a Vicenza anche il contingente stanziato in Germania (oltre 4mila effettivi) e trasformarlo in Forza di Reazione Rapida, pronta in poche ore a trasferirsi nei teatri di guerra. Questo progetto che l’amministrazione locale aveva tenuto nascosto per circa due anni (per la cittadinanza solo indiscrezioni di stampa e reticenze nelle risposte a interrogazioni locali e nazionali; alla fine furono le autorità statunitensi a dare notizie più dettagliate) fa aumentare considerevolmente la presenza militare Usa e s’inscrive in quel contesto di dipendenza e servitù che caratterizza il nostro Paese. Come è facile immaginare, avrà un impatto devastante in termini sociali, ambientali e di sicurezza in un territorio che vede già una consistente presenza di presìdi militari.

E dopo l’indispensabile premessa (“politicamente corretta”?) parliamo degli effetti collaterali, in particolare di degrado ambientale.

Tempi grigi, color del cemento, per il paesaggio tradizionale del Basso Vicentino, territorio dove si annunciano ulteriori devastanti escavazioni e cementificazioni. La A31 (Valdastico Sud) infilandosi tra le colline di Monticello, Albettone, Lovolo e Lovertino – le piccole alture che costituivano il trait d’union naturalistico tra due aree geologicamente diverse, i vulcanici Euganei e i carsici Berici – ha rappresentato il colpo di grazia.

Ma forse, oltre alle speculazioni, alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose (vedi rifiuti tossici), anche gli Usa – o meglio, le loro basi – hanno contribuito ad accelerare la grande opera di cui non si sentiva alcun bisogno.

E’ ormai cosa nota quali materiali siano stati utilizzati per il fondo autostradale. Già individuati nel tratto di Albettone, i rifiuti tossici – centinaia di tonnellate depositate nottetempo e secondo lo scopritore Marco Nosarini (**) provenienti dalle fonderie – potrebbero essere stati utilizzati per buona parte della tratta di circa 50 chilometri che attraversa il Basso vicentino arrivando a Badia Polesine: e presumibilmente anche per l’ingiustificata serie di raccordi e rotatorie, vedi intorno a Ghizzole. Sia nel caso della A31 che in quello della Pedemontana, appare evidente come il Veneto venga sempre più esposto ai rischi di infiltrazioni di ogni genere. Sia di sostanze tossiche che di tipo mafioso, soprattutto in tempo di crisi.

Ovviamente c’è di che preoccuparsi, soprattutto a livello sanitario. Ancora nel 2012 ne avevo parlato con Maria Chiara Rodighiero, esponente di Medicina Democratica e dell’Aiea (Associazione italiana esposti amianto).

«La cosa è grave” – mi spiegava – anche se probabilmente gli eventuali effetti si potranno vedere solo tra qualche anno, 10-15, dato che i minerali pesanti hanno la tendenza ad accumularsi nell’organismo».

Oltre all’autostrada vera e propria, preoccupano i danni collaterali: nuove zone industriali (chi ha interesse a costruire nuovi, immensi, capannoni in tempo di crisi? Forse la mafia, suggerisco), caselli, svincoli, cavalcavia, raccordi stradali (vedi Ghizzole e dintorni), le “voci” (regolarmente smentite, ma ricorrenti) di un futuro “villaggio americano” a Nanto. Senza accantonare la minaccia, per ora rientrata, di circa 200 campi, 600mila metri quadri, divorati dal progetto Despar ai Casoni di Ponte di Lumignano (tra Longare e Montegaldella). Oltre al ventilato “parco industriale” di un milione di metri quadrati, aumentabile fino a due milioni, dalle parti di Badia Polesine (provincia di Rovigo, verso l’Adige).

In base al piano territoriale regionale, un’area di due chilometri di raggio attorno ai caselli viene considerata “zona speciale” e quindi cementificabile senza possibilità di opporsi da parte di Comuni, cittadini e comitati. A conclusione dell’inchiesta (estate 2013) alcuni esponenti politici della Provincia risultavano, se non incriminati, per lo meno indagati (ma si precisava, quasi a scusarsi, era un “atto dovuto”). Peccato che questo sia avvenuto dopo che il casello di Longare era ormai aperto e funzionante da qualche mese e quello di Albettone da una quindicina di giorni. Tempismo perfetto o soltanto coincidenza sincronica? A voler pensare male, sembra quasi che si sia voluto mettere l’opinione pubblica di fronte al “fatto compiuto”.

Forse bisognava pensarci prima. Un convegno di tre giorni contro la nuova autostrada, organizzato da alcuni ambientalisti (oltre all’ottimo Arnaldo Cestaro, Francois Bruzzo e Margherita Verlato, sorella del compianto Antonio di Italia Nostra) a Cà Brusà nel 2006, vide una significativa partecipazione di comitati provenienti da ogni parte della penisola – No Tav, No Mose, No Ponte di Messina – accogliendo anche i primi vagiti del No Dal Molin, ma venne quasi ignorato dalle popolazioni locali. Per non parlare delle amministrazioni, entusiasticamente a favore della devastante grande opera (***).

Ma, tornando alla premessa iniziale, cosa ci azzeccano in tutto questo gli “americani” cioè i militari statunitensi?

A tale proposito vado a ripescare la mia ipotesi di qualche anno fa su un “corridoio industriale-militare” (concetto che ho preso in prestito dai compagni zapatisti) che partendo da Vicenza nord si spinge ad attraversare l’intero Basso Vicentino. Anche se la cosa è passata quasi inosservata, va segnalata. Visto dall’alto il tracciato definitivo dell’autostrada (dal progetto originario ha subìto varie modifiche) suggerisce un possibile utilizzo militare. La nuova base statunitense al Dal Molin (talvolta denominata “Ederle 2”) è ottimamente servita dalla Valdastico Nord, così come la vecchia “Ederle 1” si trova in prossimità del casello di Vicenza est. Restava defilata soltanto la base sotterranea di Longare “Pluto”, in passato deposito nucleare… Solo “in passato”? E’ una coincidenza che in zona i casi di leucemia siano superiori alla media? (**). Ma ora, con il nuovo tratto, ha a disposizione un comodo casello. Ben servito dall’A31 (con relativo casello) anche il nuovo poligono di tiro ad Albettone (che presumibilmente non sarà utilizzato solo dai “civili”). Senza dimenticare che non lontano da dove l’autostrada finisce, esiste una base militare semi-abbandonata. Niente di strano se a qualcuno venisse in mente di ripristinarla. A questo punto anche l’ipotesi di un “villaggio americano” a Nanto, già ventilata e sbrigativamente definita «fantasiosa», diventa plausibile dato che sorgerebbe in posizione strategica. Gli abitanti del ridente paesello erano stati premurosamente tenuti all’oscuro, ma qualche incontro fra le passate amministrazioni e i militari statunitensi sembra proprio esserci stato.

Devo constatare che c’è qualcosa di sconcertante nel modo in cui questa popolazione sta svendendo la propria Terra. Eppure siamo fra il territorio de “La Boje” e quello della Brigata partigiana Silva e pur sempre nella stessa provincia che ha dato i natali a Luigi Meneghello («I Piccoli Maestri»), a Rigoni Stern, ai fratelli Ismene e Ferruccio Manea (il mitico comandante Tar). Senza dimenticare Antonio Giuriolo e Dino Carta…

Accusata di far la “Cassandra”, l’ambientalista vicentina Elena Barbieri aveva paragonato l’A31 al Cavallo di Troia «un regalo astuto e malefico, creato apposta per distruggere definitivamente quel territorio». I sindaci dell’Area Berica avevano «promesso ai loro cittadini mirabilie e l’inizio di un glorioso avvenire di prosperità, ma mentre parlavano di modernizzazione nel rispetto della sicurezza del paesaggio, nei loro occhi si intravedeva il luccichio delle colate di cemento. Un cavallo di Troia donato dagli astuti politici, imprenditori e palazzinari agli abitanti del luogo. Un cavallo dentro cui si nascondevano agricoltura disastrata, impermeabilizzazione del suolo (un incentivo a future alluvioni), scomparsa del piccolo commercio, colate di cemento per la grande distribuzione, devastazione del paesaggio tradizionale e del contesto delle ville venete, svilimento ulteriore della biodiversità».

A futura memoria.

(*) Va comunque riconosciuto che, per quanto inconcludenti, le manifestazioni di protesta non sono mancate. Innumerevoli negli anni Sessanta e Settanta, all’epoca del Vietnam, hanno scandito la storia di questa città anche in epoca successiva. Alcuni di noi ricordano ancora la manifestazione dell’8 ottobre 1967 (lo stesso giorno della cattura del “Che”, poi assassinato) quando la Celere 2 di Padova caricò fin oltre lo stadio Menti. L’anno seguente, dicembre 1968, toccò al centro storico venir ricoperto da innumerevoli bandiere vietcong, mentre l’allora ministro Rumor veniva accolto da un nutrito lancio di uova. Si sarebbe vendicato degli ingrati concittadini nel maggio 1972 (ricordo che durante la manifestazione giunse la notizia della morte di Franco Serantini) ordinando una carica contro obiettori di coscienza, pacifisti e anarchici conclusasi con fermi e ricoveri ospedalieri per un paio di commozioni cerebrali. Fra le vittime, il futuro fotografo pubblicitario Giuliano Francesconi e due militanti pacifisti, Francesco e Chiara (il primo destinato a laurearsi in medicina, la seconda, ironia della sorte, a emigrare proprio negli Usa, in California credo). Grandiose anche le manifestazioni dei primi anni Ottanta contro l’istallazione dei missili a Comiso con i cortei (ne ricordo uno dell’82 con figlia in spalla) che ora potevano compiere l’intero periplo della caserma Ederle grazie al nuovo stradone di via Aldo Moro. Nel 1986 la protesta contro i bombardamenti in Libia e contro le interferenze nordamericane in Nicaragua e Salvador riunì in Viale della Pace autonomi, “Beati Costruttori di Pace”, anarchici, Radio Gamma e una miriade di associazioni. Bilancio del corteo: una mezza dozzina di bandiere a stelle e strisce bruciate fra la Ederle e il centro. Da non dimenticare il presidio di cinque/sei disperati con maschera antigas (fornite da un operaio delle fonderie Valbruna) all’epoca del primo attacco all’Iraq di Bush padre mentre la massa dei pacifisti protestava silenziosamente in Piazza dei Signori. A seguire le manifestazioni contro i bombardamenti Nato sulla Jugoslavia, quando si videro sfilare insieme le bandiere di Rifondazione con quelle della Lega Nord, migliaia di lavoratori serbi immigrati e qualche esponente dei Verdi con la bandiera listata a lutto. Poi l’Afghanistan e di nuovo l’Iraq. E avanti così fino alle fiaccolate contro la pena di morte e alle manifestazioni più recenti del “dopo-Genova” con i lanci di uova alla vernice dei Disobbedienti sui muri rinnovati e rialzati della solita caserma. Mi pare fosse il 2003… E poi le decine di grandi manifestazioni targate NO DAL MOLIN, a partire da quella del 2 dicembre 2006 con circa 30mila partecipanti (cifra largamente superata in alcune scadenze successive). Il 16 gennaio 2007, quando Prodi dichiarò ufficialmente l’assenso alla costruzione della Base Usa al Dal Molin, circa 8 mila vicentini andarono a occupare i binari della Stazione: «consapevoli che qualsiasi base militare è strumento di guerra,che le vittime della guerra sono sopratutto civili e bambini,che la guerra opprime e distrugge i popoli…». Altro che «pacifica convivenza con l’ospite statunitense».

(**) Appassionato di archeologia, Marco Nosarini ha raccolto e conserva pezzi di materiale raccolti lungo la “grande opera” quando era in costruzione. Nella zona di Albettone finora aveva rinvenuto resti sia preistorici che romani. Ma di fronte alla “cosa nera” individuata nell’agosto 2010, ha capito immediatamente che si trattava d’altro. Allertati i carabinieri di Campiglia dei Berici, ha presentato il primo esposto. «Passato a Vicenza – racconta – l’esposto è rimasto in questura per undici mesi», forse perché il materiale raccolto non era stato analizzato. Nell’aprile 2011 un nuovo indizio. Il cane di un abitante del luogo beve l’acqua di un fossato vicino all’autostrada e nel giro di due giorni muore. L’ipotesi è che l’acqua penetrando nel materiale proveniente dalle fonderie produca un micidiale “percolato”. Si teme la presenza di nocivi minerali pesanti. Nosarini ricorda che all’epoca del suo primo esposto «probabilmente il tratto utilizzato era di un chilometro o due» mentre ora potrebbero essere già una trentina. «Da 120mila a 300mila metri cubi» ipotizza. E senza calcolare le decine di raccordi stradali. Intanto l’inchiesta passava alla procura di Brescia (v. quella già in corso sulla Brescia-Milano, v. la ditta Locatelli) e poi, d’ufficio, all’Antimafia di Venezia (DIA). Va sottolineato che «se fosse stata un’inchiesta normale, sarebbe stata trasferita a Vicenza». Nel frattempo sembra proprio che si vada verso una generale assoluzione dei circa 30 indagati.

(***) E, sempre in tema ambientale, non dimentichiamo che i lavori al Dal Molin – attorno a cui scorre il principale fiume vicentino alimentando, insieme alle piogge, la falda – hanno comportato, oltre alla cementificazione di una vasta area, uno spostamento del fiume, l’ampliamento dell’argine sul lato della base e l’inserimento nel suolo di un enorme quantità di pali in cemento (vere e proprie palafitte, stile Venezia) che, molto probabilmente, hanno funzionato come una “diga” sotterranea costringendo l’acqua a fuoriuscire. Con i risultati che sappiamo: le periodiche alluvioni. In origine i pali (mezzo metro di diametro) dovevano essere solo ottocento, ma alla fine ne sarebbero stati utilizzati circa tremila, piantati fino a 18 metri di profondità. Sembra che inizialmente i pali non reggessero proprio per la presenza della falda acquifera. Sarebbe interessante scoprire in che modo siano riusciti poi a piantarli. Quanto cemento avranno usato?

 

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