«Voglio la pace in Nicaragua e sono venuto per farla»

Il 4 febbraio 1933 un dispaccio d’agenzia (riportato anche da alcuni quotidiani italiani) informava: «È stato firmato oggi un accordo fra il governo e il generale Sandino che pone termine alla guerra civile che ha divampato nella Repubblica per cinque anni».

di Bái Qiú’ēn

Mi colpì che fosse il cappello di Sandino, non il suo viso, la più potente icona del Nicaragua. Un Sandino senza cappello non sarebbe stato riconoscibile: ma la sua presenza lì sotto non era più necessaria al potere evocativo del cappello. Spesso le scritte murali del Fsln erano suggerite da uno schizzo del famoso copricapo, un disegno che assomigliava esattamente al simbolo dell’infinito sormontato da un vulcano conico (Salman Rushdie).

Un dispaccio d’agenzia riportato da alcuni quotidiani italiani il 4 febbraio 1933, informa: «È stato firmato oggi un accordo fra il governo e il generale Sandino che pone termine alla guerra civile che ha divampato nella Repubblica per cinque anni. L’accordo impegna il generale Sandino a consegnare entro 20 giorni al governo i due terzi delle sue armi; il governo si obbliga di impiegare nei lavori pubblici i partigiani di Sandino a preferenza di altri, e di arruolarne un certo numero nelle forze armate della Repubblica» («La guerra civile al Nicaragua cessa per l’accordo con Sandino», La Stampa, 4 febbraio 1933).

Fin dall’inizio della lotta contro i conservatori e i marines che li sostengono, Sandino afferma che avrebbe concluso la propria lotta armata il giorno in cui ci fosse un presidente liberale e le truppe yankees fossero tornate a casa loro: «se gli Stati Uniti vogliono la pace in Nicaragua, devono lasciare la presidenza a un legittimo governo nicaraguense, effettivamente eletto dal popolo. Allora deporrò pacificamente le armi, senza che qualcuno me lo imponga» (Nota al capitano Gilbert D. Hatfield, 12 luglio 1927).

Dopo cinque anni di guerriglia condotta da quell’esercito liberatore (EDSN) che la propaganda conservatrice definiva composto da pochi bandoleros (puchitos, per usare un vocabolo più attuale), il 1° gennaio 1933 entra in carica il liberale Juan Bautista Sacasa e l’esercito yankee conclude il ritiro delle truppe iniziato l’anno precedente. Mantenendo fede alla propria parola e ritenendo che la sua lotta fosse conclusa, accetta di avviare le trattative, le quali iniziano il 6 gennaio tra alcuni suoi delegati (Salvador Calderón Ramírez, Pedro José Zepeda, Horacio Portocarrero, Escolástico Lara), i rappresentanti del Partito conservatore e di quello liberale (rispettivamente David Stadthagen e Crisanto Sacasa) e membri del governo. Meno di un mese dopo, il 1° febbraio (mentre in El Salvador è fucilato Agustín Farabundo Martí) il Generale degli Uomini Liberi si reca a Managua e il 2 febbraio firma l’accordo di pace, che in buona sostanza prevede la dissoluzione dell’Esercito Difensore della Sovranità Nazionale. Segno inequivocabile che, pur partendo da posizioni assai distanti, quando si vuole dialogare seriamente e sinceramente una intesa si riesce a raggiungere. Se, invece, si vuole solo prendere tempo da entrambe le parti, come nel 2018…

Lo stesso sabato 4 febbraio 1933 La Prensa titola «Alle 11 e 55 minuti di ieri notte è stata firmata la pace con il gen. Sandino». In taglio basso a sinistra i lettori trovano «Nuestra entrevista con el Gral. Sandino». Due colonne di Adolfo Calero Orozco, che proseguono a pag. 6.

Nasce nel barrio San Antonio di Managua nel 1899, in una famiglia della classe media, e negli anni Venti del secolo scorso inizia l’attività di giornalista, pubblicando vari articoli, cronache e interviste in varie testate della capitale (tra le quali El Imparcial). Dirige la rivista Faces y Facetas e un programma radiofonico. Come militare, nel 1926 combatte a Bluefields, nella Costa Atlantica, contro le truppe liberali che innescano la cosiddetta Guerra costituzionalista, ottenendo il grado di capitano. Dal 1926 al 1930 lavora al ministero dell’Interno, nel periodo in cui il presidente è il generale conservatore Emiliano Chamorro.

Sulle pagine del quotidiano La Prensa redige una rubrica quotidiana. È l’unico giornalista che riesce a intervistare Augusto C. Sandino il mattino successivo alla firma dell’accordo di pace.

Nella Casa Presidenziale, ieri mattina, Doña América de Sandino è stata così gentile da presentarci a suo figlio adottivo come «un vecchio amico di famiglia».

«Giornalista conservatore?», domanda il Ribelle di Las Segovias e ci abbraccia aggiungendo: «Adesso tutti i nicaraguensi sono fratelli, orgogliosi padroni di una Patria che è già libera. Il liberale e il conservatore scompaiono davanti al Nicaragua».

Siamo di fronte all’uomo che per oltre cinque anni ha mantenuto, fucile in pugno, la ribellione autonomista più discussa nella storia dell’America ispano-americana. Sandino non corrisponde alla immagine che di lui ci eravamo fatti. È un uomo di poco più di un metro e mezzo di altezza e di circa centotrentacinque libbre di peso [60 kg]. Occhi piccoli, scuri, con uno sguardo vivace. Carnagione bianca, alquanto rossastra. La pelle malandata e una espressione severa, anche quando sorride.

Indossa stivali alti, pantaloni da equitazione giallo scuro, kaki e una camicia militare, impermeabile e verdastra. Non ha la cravatta. Il colletto aperto della camicia lascia vedere una sciarpa rossa intorno al collo, le cui estremità simulano la cravatta, scendendo per alcuni centimetri sul petto. Sopra queste estremità pende una medaglia d’oro, dono dei suoi ammiratori messicani, attaccata a uno spillo e, più in basso, una catena con un ciondolo d’oro rotondo, delle dimensioni di una moneta da dieci dollari.

Il generale è molto disponibile. Loquace. Ottimista.

«Voglio la pace in Nicaragua — ci dice — e sono venuto per farla. Per anni e anni io e i miei commilitoni abbiamo vissuto la vita del bivacco, perseguitati dall’aria e dalla terra, a volte calunniati dai nostri stessi concittadini, dei quali cercavamo la libertà, ma sempre pieni di fiducia nel trionfo della causa autonomista, che è la causa della giustizia. Quando i militari yankees uscirono dal territorio nazionale, avrei voluto fare la pace il giorno dopo, ma si erano frapposte incomprensioni, diffidenza e pessimismo».

«E quando ha preso la decisone di cercare la pace a tutti i costi?»

«Dal momento in cui il dottor Sacasa ha assunto la Presidenza e i marines se ne sono andati: e questa determinazione si è confermata quando ho ricevuto una lettera dal mio amico Don Sofonías Salvatierra, nella quale ha toccato la corda più sensibile del mio cuore: l’amore patrio».

«E Lei crede che non vi saranno difficoltà nel suo esercito per realizzare gli accordi di pace?»

«Confido che obbediranno alle mie parole con la consueta disciplina. Le prime virtù del mio esercito sono sempre state il patriottismo e la disciplina».

«Quando tornerà al suo accampamento?»

«Quanto prima possibile. L’aereo avrebbe dovuto essere già partito. Il mio ritorno è urgente; deve realizzarsi nei tempi indicati, poiché sarebbe pericoloso ritardarlo. Il mio esercito ha ordini specifici che sono molto pericolosi per la pace, nel caso non dovessi tornare; ecco perché mi interessa non fermarmi ulteriormente, poiché un ritardo potrebbe avere gravi conseguenze che non auspico».

Pronunciate queste parole, il generale Sandino si rivolge a uno dei presenti e gli domanda se è certo che partiranno prima delle dieci e mezza. E aggiunge: «Prima delle dieci e mezza, non dimenticarlo».

Insistiamo con le domande.

«Lei crede, generale, che nessun altro colpo verrà sparato a Las Segovias?»

«Non sarà sparato dall’esercito autonomista».

«Mi perdoni la domanda, generale. Che accadrà a quei capi che in talune occasioni sono stati accusati di aver commesso inutili atti di crudeltà?»

«Mi ascolti! – ci intima il ribelle –. Questa è l’ora della pace e della riconciliazione, in ogni caso, non ho alcun timore di fare riferimento a questi fatti, sempre esagerati e sempre attribuiti al mio esercito, sebbene in molte occasioni siano stati compiuti dai nostri stessi nemici o da gruppi indipendenti, i quali usavano la nostra bandiera per commettere atti punibili. L’esercito autonomista era in guerra contro una grande potenza straniera alla quale importava molto poco della vita dei nicaraguensi. Questa guerra doveva essere fatta come si fanno le guerre, e ci furono azioni sanguinose. Possa quel sangue restare come un tributo pagato alla libertà del Nicaragua, e che non ne venga più versata nemmeno una goccia tra fratelli».

Da: El pensamiento vivo de Sandino [a cura di Sergio Ramírez], Editorial Nueva Nicaragua, Managua 1984 [vol. II, pp. 281-3].

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

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