Aerials

Schermata 2015-03-18 alle 11.30.32Un racconto di Riccardo Dal Ferro

I miei occhi ora possono vedere.

In essi ho ancora l’immagine della marea dei Visitatori che avanza, noncurante delle bombe che cadono tutt’attorno. Avanzano, senza scudi deflettori, privi di poteri paranormali, a decine vengono abbattuti a ogni piccola testata atomica che piove dal cielo, lanciata dai governi all’unisono, bombe H strategiche per fermare quello spettacolo incomprensibile. Con le loro difformità, rachitici e diversi l’uno dall’altro, con le loro orbite cerchiate da occhiaie che tradiscono malattie, sono una moltitudine che avanza inesorabile, partorita da chissà quale vaso di Pandora.

Ho negli occhi i loro volti tumefatti, il loro orribile nanismo, le loro bocche storte, ghigni privi di felicità e teste calve popolate da bubboni osceni, la pelle riarsa da chissà quale terribile ustione. Sono gli alieni, eppure non sono quelli che attendavamo da secoli; sono il popolo dello spazio, ma esso non ha nulla a che vedere con quello prodotto dalla nostra fervida immaginazione.

Ho negli occhi i loro occhi, tutti diversi, tutti difformi e contorti, frutto marcio di un’estetica che non conosce simmetria, parte di un disegno che non avremmo mai definito “divino”. Sono diversi l’uno dall’altro, non sembrano un popolo. Sembrano una disperazione frammentaria.

Mentre avanzano, mentre ci convinciamo che stanno venendo a prenderci, a grappolo le testate atomiche cadono, piovono, si schiantano e li schiantano, esplodendo e uccidendone in gran quantità.

Ma sono sempre di più, escono da astronavi invisibili, sono un fiume che non riusciremo ad arginare.

Le loro mani butterate si tingono di sangue e brancolano verso di noi, che stiamo rintanati nelle case ermetiche, lontani dalla devastazione mostrataci solo dalla TV.

Stanno venendo a prenderci.

I miei occhi ora possono vedere.

Ora che sono gli stessi occhi dei Visitatori, ed eppure sono così differenti.

**

I Visitatori ci hanno insegnato che nel cambiamento c’è un seme di indicibile sofferenza.

Il secolo era iniziato con le solite folle che attendevano l’arrivo degli “uomini dallo spazio”. Oceani di persone celebravano il sogno di scorgere un’astronave nel cielo, quell’atteso segno del destino, perché intimamente speravano che la ricorrenza portasse con sé il conforto di non essere soli nell’Universo.

Mentre la terra sotto i nostri piedi ci sembrava sempre più avulsa ed estranea, noi ci proiettavamo oltre i confini degli spazi interstellari, ma senza avere i mezzi per intraprendere quel viaggio profetizzato da tanto cinema e tanta letteratura. Le missioni nel cosmo erano state abbandonate molto tempo prima, a causa dell’inedia, più che per la mancanza di mezzi, e a noi non rimaneva che sperare in qualcuno che venisse a prenderci.

Volevamo lasciare la Terra da autostoppisti.

Attendevamo speranzosi il nostro Godot dallo spazio.

In realtà, ciò che traspariva negli occhi delle persone, anche dei più giovani, era un’insostenibile stanchezza. Era come se, già a cinque anni di età, un bambino sentisse il peso dei millenni precedenti, dei secoli di guerre, carestie, odio e devastazione che, come un’eredità a lungo cumulata, gli veniva riversata senza colpa sulle spalle. Eravamo esausti dei nostri volti, stufi delle terre emerse così come degli oceani, e niente sembrava poter riportare quell’entusiasmo che, come ci avevano raccontato, era stato alla base delle mitiche Età dell’Oro vissute dalla nostra specie in tempi non sospetti. Le città ormai pullulavano di centrali nucleari e ciminiere fuligginose, costantemente ricoperte da una coltre di polveri pesanti che a malapena venivano neutralizzate dalle maschere in dotazione alla popolazione. I fiumi stagnavano e l’acqua dolce era ricavata in laboratorio, mentre il cibo e le coltivazioni erano frutto di terreni trattati chimicamente, confinati dentro immense ed ermetiche serre, come teche che esponevano la nostra impotenza.

Eravamo una civiltà accartocciata su se stessa, senza più prospettive, che si trascinava nel tempo rimastole da esistere, nauseata e drogata di rimpianti, inconsapevole del fatto che un domani era ancora possibile.

La Terra era diventata una prigione, ma in realtà il nostro animo rappresentava le sbarre più invalicabili.

Quando vennero i primi Visitatori, fummo colti impreparati.

Non vi furono astronavi interstellari dal cielo, né fragore di propulsori che avessero attraversato le galassie. Furono silenziosi passi nell’erba, indiscreti occhi fuori dalle finestre appannate, strane mani a toccare i davanzali.

Spuntarono senza far rumore, e ci colsero di sorpresa.

I primi testimoni non vennero creduti, dal momento che spesso i mitomani popolavano le cronache dei quotidiani, raccontando la loro solitudine attraverso storie inventate di sana pianta, denunciando la disperazione con menzogne mal costruite che venivano sempre smascherate. Costantemente si arrestavano persone che asserivano di aver conversato in lingue sconosciute con mostri alti tre metri, uomini convinti di essere stati rapiti per diventare cavie degli alieni. E la turbativa della quiete pubblica non era tollerata, soprattutto nelle città mantenute in stretto regime di quarantena, a causa delle fughe di liquidi radioattivi, gas chimici e sostanze pericolose.

La prima timida conferma di come potessimo essere davvero di fronte all’evento che tutta l’Umanità attendeva da secoli venne da un annuncio dell’Ente per la Ricerca Extraterrestre, uno dei più sovvenzionati dai governi in campo scientifico. L’annuncio recitava più o meno così: «Siamo lieti di annunciare che gli ultimi avvistamenti di esseri paranormali ci confermano un contatto con una civiltà diversa dalla nostra, con ogni probabilità proveniente dallo spazio.»

Inizialmente fu un tripudio timoroso, nessuno voleva in realtà mostrare agli altri entusiasti quanto temesse in realtà l’incontro con esseri provenienti da altri mondi. Come ci avrebbero visti? Eravamo così larvali, nelle rovine delle nostre polverose consuetudini. Ci sentivamo inadeguati, ma lo si doveva nascondere a ogni costo.

La felicità di chi mentiva anche a se stesso era contagiosa.

Ben presto il timido ottimismo si trasformò in grande diffidenza. Il contatto con le entità aliene risultò molto differente dalle nostre previsioni. Tutta l’iconografia degli artisti che inneggiavano alle “civiltà dallo spazio” sembrò essere ridicola, di fronte alla realtà dei fatti. Pittori del calibro di Joseph Anders, il quale affrescò il Palazzo di Giustizia della Città n°43 con l’immagine di un ominide muscoloso e possente, il quale dominava la piazza principale sovrastando le nubi tossiche, vestito con un’armatura lucente; scultori come Guglielmo Dovizio, che scolpì nel marmo la “Famiglia Spaziale”, un modello da seguire per chi desiderasse conformarsi alle fantasie prodotte dalla nostra solitudine. Tutta questa vastissima produzione artistica (l’arte ormai da decenni non raffigurava che mondi lontani, esseri stellari e astronavi iper-tecnologiche) impallidì e si sentì quasi presa in giro di fronte alle creature che la gente si trovò a incontrare, incredula.

Presto le strade iniziarono a pullulare di quelle strane forme, quelle ombre ricurve, quegli arti così dissimili ai nostri. Anche se essi ricordavano vagamente fattezze umane, rappresentavano l’indecifrabilità di ciò che non potevamo comprendere. Rappresentavano una sconfitta, ai nostri occhi disillusi, e si trascinavano stancamente attraverso città impreparate ad accoglierli.

«Mamma, ma quelli sono gli alieni?» Giuditta, la mia bambina, era cresciuta con i cartoni animati che parlavano di imperatori galattici e regine d’oltre-cosmo. Era così bella, e mi faceva male sapere che avrebbe dovuto vedere quelle aberrazioni che camminavano sulle nostre città, lei che era così bionda e innocente, con quegli occhi dolci. «Sì, cara, ma non sono che le briciole di coloro che aspettavamo.» Così le rispose la mamma, ma le nostre voci tremavano di un’angoscia che mai avremmo immaginato, mentre in televisione le immagini delle entità si facevano più nitide, mostrando le loro malformazioni, il loro aspetto puerile e terribile.

Come poteva quello essere il popolo che ci avrebbe salvati dalla nostra inedia? Come poteva essere anche solo un popolo, quello?

«Questa mattina, nel quartiere 7 della Città n°23, un passante ha aperto il fuoco contro uno dei Visitatori. Le immagini mostrano lo spavento dell’uomo nel vedere il volto dell’alieno, contorto in una smorfia spaventosa, gli occhi quasi scomparsi dietro il gonfiore di quello che stentiamo a definire un volto.» Lo speaker mostrò le immagini dell’alieno che veniva fermato a colpi di pistola, prima che potesse avvicinarsi a quello che all’unisono fu chiamato “la vittima”. Quell’orrendo brancolare, tendendo le mani artritiche e mutilate, quello sguardo che non era uno sguardo, tutto ciò ci spingeva a provare ribrezzo nei confronti di coloro che tanto avevamo atteso.

Ben presto ci accorgemmo che il popolo dello spazio (che non poteva essere un popolo, dal momento che tra i suoi innumerevoli membri non esisteva alcuna somiglianza) era più numeroso di ciò che era sembrato all’inizio, esso usciva da qualche cavità impronunciabile della Terra, forse aveva nascosto le proprie astronavi per l’invasione in un luogo sconosciuto. In qualche giorno decuplicarono di numero, sempre più deformi, sempre più orrendi.

Quando ci rendemmo conto che il sogno si era trasformato in incubo, chiudemmo a chiave le nostre case ermetiche, nelle nostre città contaminate, fiduciosi che i governi avrebbero scelto di sterminare quei piccoli mostri.

Ma erano troppi, e presto avremmo dovuto fare i conti con le nostre colpe.

**

Nei miei occhi conservo l’immagine dei Visitatori, falciati dai bombardamenti, inermi come solo i bambini sanno essere. Mentre avanzano, la TV manda immagini di olocausto atomico.

Giuditta è la mia bimba di 6 anni, osserva la televisione, guarda fisso quel marasma di rifiuti organici provenienti da chissà dove. Io so che lei è disgustata quanto me, ma presto devo rendermi conto che non è così. M’accorgo che le scende una lacrima, nel vedere l’ennesima dozzina di Visitatori i cui pezzi vengono sparpagliati da un piccolo ordigno che esplode. «Perché, papà?» mi chiede lei. E io non so risponderle, se non con le parole della televisione: «Perché sono diversi da come li immaginavamo. E sono pericolosi.»

Giuditta prende a correre, lanciandosi fuori dalla porta di casa, prima che io possa anche solo rendermi conto di quali sono le sue intenzioni. I miei occhi sono troppo rapiti da quei volti deformi, dai loro arti anchilosati, dalle loro schiene ricurve. La loro pelle sembra affetta dalla lebbra, i loro occhi mi mettono i brividi.

Ma la cosa peggiore, quella che non sappiamo ammettere a noi stessi, è che, a differenza degli uomini, i Visitatori sembrano uno diverso dall’altro. Alcuni di loro hanno tre braccia, altri solo una gamba, con la quale saltellano o si trascinano. Taluni mostrano di avere quattro occhi sparsi sul volto inguardabile, altri sono ciechi. Non sono un popolo, sono la materializzazione dei nostri incubi.

Di fronte ad essi, mi sento ancora più umano di prima.

Mi metto a correre dietro a mia figlia, appena riesco a staccare lo sguardo da quei mostri, e mi lancio fuori dalla porta, laddove i bombardamenti hanno ormai saturato l’aria di radiazioni letali. Mia figlia è spacciata, mi dico, sta correndo incontro alla morte, e io non posso lasciarla andare. Mia moglie dietro di me urla di tornare indietro, ma non ce la faccio, devo riprendermi Giuditta.

In lontananza scorgo la marea di alieni che fronteggia il confine con la nostra città, e vedo le luci dei piccoli funghi atomici che li devastano. Una, due, tre bombe cadono, ma loro sembrano moltiplicarsi. «Giuditta! Torna indietro!» Ma la mia bimba è veloce, la sua folta chioma mi ha ormai dato un centinaio di metri di distacco. Io corro, mentre respiro l’aria chimica, le particelle radioattive, sentendo la mia pelle che scotta, i miei occhi che bruciano. I Visitatori sfocano davanti a me, Giuditta è quasi arrivata al confine della città, correndo come una pazza, scompare in mezzo alla folla dei mostri che avanzano. Tutto è perduto, mi dico.

Tutto è perduto.

Poi inciampo, mentre nelle mie orecchie arriva ovattato il suono di un altro ordigno che deflagra di fronte a me, ma nessuna luce arriva ai miei occhi.

Inciampo, sbatto la testa e il buio mi agguanta.

Vedo esseri possenti tutt’attorno a me, i loro occhi rotondi emanano candida luce. Le teste ovali, l’epidermide bianca e pulita, lunghi arti affusolati che terminano in mani magre e delicate, la bocca è una fessura appena rugosa. Mi colpisce la loro perfetta simmetria, l’armonia di quelle forme, i corpi scolpiti nel marmo.

Sono loro i Visitatori, mi dico. Sono il Popolo dello Spazio venuto per salvarci! Il cielo è limpido e finalmente il Sole torna visibile. Mi parlano in una lingua che non conosco, io sono nudo, li osservo muto e assorto: sono in sette, le loro stazze e le loro voci si somigliano, mettendomi a mio agio.

Uno di loro mi porge una mano, scaldando il mio cuore con quegli occhi fatti di stelle, quelle mani fresche che hanno toccato gli angoli dell’universo. Si consultano, mi guardano benevolmente, poi uno di essi avvicina il suo bellissimo volto al mio e parla nella mia lingua: «Devi smettere di cercare te stesso.»

Quando riapro gli occhi, le macerie che mi circondano sono ricoperte di corpi esanimi, sparsi qua e là come pezzi di edifici crollati. La gola e i polmoni mi fanno male, l’aria che mi entra dentro sembra composta da lame arroventate, ma il rumore delle bombe è cessato.

Tossisco sangue, cercando di rialzarmi, ma non ne ho le forze. Giuditta non c’è, non la vedo correre in giro, non ne sento la voce, ma la mia vista è disturbata, come fossi mezzo cieco, il mio udito è ovattato. Il terreno mi preme contro un fianco e duole, così come ogni anfratto del mio corpo.

Un allarme in lontananza mi dice che le radiazioni nucleari hanno di gran lunga superato il livello di insostenibilità per l’organismo umano. Eppure sono ancora vivo.

Una mano si avvicina al mio sguardo sofferente, devo fermarmi un attimo per osservarne le forme stravolte. Tre delle cinque dita sono sostituite da bozzi informi che brancolano, le altre sono affusolate; una di esse, quella in corrispondenza dell’indice, sembra composta di quattro falangi, quindi è innaturalmente più lunga delle altre. La pelle è di colore bluastro, macchiato da sputi di un bianco malato, come una muffa. La mano mi viene porta con dolcezza, una qualche spinta che non dipende dalla mia volontà (pietrificata dal disgusto) mi spinge a stringere quell’arto deforme che mi aiuta a rialzarmi con grande fatica.

«Sei uno di noi, adesso.» La voce è quella di un bambino, timida ma risoluta come la mia non ha mai saputo essere. Ne osservo il volto, d’un tratto non provo più paura. È forse curiosità, quella che sento?

«Chi sei tu? Da dove vieni?» La mia domanda scatena quello che mi sembra essere un sorriso sulle sue labbra di indicibile deformità. I suoi occhi sono asimmetrici: mentre l’orbita destra è chiusa ermeticamente in una cicatrice, l’occhio sinistro è grande e limpido, l’iride azzurra mi scruta con caparbia benevolenza, mi sento nudo di fronte a quello sguardo ciclopico. È alto un metro e mezzo, privo di capelli, ma sono io quello che si sente piccolo in questo momento. «Tu credi io venga dallo spazio, ma ti sbagli. Noi tutti siamo gli abitanti delle periferie, quelli che stanno al di fuori dei confini delle città protette. Proveniamo da luoghi molto più vicini di quanto voi tutti abbiate pensato, i luoghi che non avete protetto con le vostre serre, con le case, i luoghi esposti alle modifiche atmosferiche dei vostri esperimenti. Noi siamo il frutto delle vostre azioni, siamo la nuova specie.»

Non è possibile. La mia mente rifiuta una tale aberrante verità. D’un tratto vedo lucidamente ciò che abbiamo fatto, trasformando il nostro pianeta nel laboratorio dei nostri capricci. Nessuno di noi era a conoscenza dell’esistenza di questi esseri, chiusi com’eravamo nelle nostre serre, nelle nostre case ermetiche.

«Q-quindi siete… siete umani?» La risata con la quale risponde mi fa sentire il più stupido essere del cosmo, ma la voce che popola quel riso è cristallina e mi mette d’un tratto serenità. Senza darmi risposta si incammina verso il centro della città, e mi accorgo che altre migliaia, forse milioni di Visitatori lo stanno seguendo, e mi circondano marciando ancora. La sua voce mi raggiunge quando è ormai lontano: «Non siamo più umani di quanto ormai non lo sia tu! Vieni con noi.»

La biondezza di Giuditta mi cattura lo sguardo, ma mia figlia è cambiata. Tiene per mano un arto anchilosato, e la mano di lei è priva di dita, ma lo sguardo è così sereno. Mi sorride, il suo volto è cambiato, ed è sereno.

Questo popolo è composto solo di bambini, per il momento, e ciò mi riempie di speranza.

Mi incammino con loro verso il centro città, e quando vedo il mio riflesso sulla lamiera di un’automobile abbandonata mi rendo conto che i Visitatori mi hanno portato effettivamente su un altro mondo. Il mio naso è scomparso, la bocca irriconoscibile, le mie fattezze hanno cominciato una lenta trasformazione che mi spingerà ad una nuova appartenenza.

Ora che i miei occhi sono quelli dei Visitatori, anche se siamo tutti quanti diversi, ora che le bombe dei governi sono finite e che le radiazioni preparano la trasformazione inconsciamente prodotta da noi stessi, mi rendo conto che una comunità non si riconosce dalle proprie somiglianze. Siamo un oceano, adesso, forte come l’Umanità non ha mai saputo essere, e marciamo nel centro della Città n°34, andiamo ad aprire le case ermetiche per formare il nostro nuovo popolo.

I miei occhi ora possono vedere.

Possono vedere che i mostri erano in realtà figli nostri, nel senso più crudo del termine.

Possono vedere che gli alieni, in realtà, eravamo noi.

Giuditta cammina davanti a me, entra nella nostra casa ermetica e va a prendere mamma.

Al di là della coltre di spesse nubi che da decenni nasconde il Sole, per la prima volta nella mia vita, so che un’alba si sta alzando. Non siamo più l’Umanità, e comprendo che il cambiamento pretende di passare attraverso un’indicibile sofferenza.

Ritrovare la nostra Terra è il cambiamento che stavamo aspettando.

Il cielo, in realtà, non ci sarebbe mai bastato.

(questo racconto è datato 2012 ed è apparso per la prima volta su Sotterfugi. L’illustrazione originale è opera del mio fraterno amico Marco Pasin)

Riccardo DAL FERRO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *