Buon viaggio, Global Sumud Flotilla!
scrivono Marco Aime, Chris Hedges e Mario Sommella, lo dicono i camalli di Genova, cantano Roger Waters e i Pink Floyd, Piergiorgio Odifreddi ricorda dati, cause e pretesti, l’International Association of Genocide Scholars (Iags) sancisce, senza ombra di dubbio, che quello di Gaza è un genocidio
Ringrazio i portuali di Genova per il lavoro sulla Global Sumud Flotilla: servono slanci concreti – Marco Aime
Non sono genovese, ma per 25 anni ho insegnato a Genova e proprio in questi giorni voglio ringraziare i lavoratori del porto e tutti i volontari, per lo splendido lavoro di raccolta e di spedizione di cibo con la Global Sumud Flotilla diretta a Gaza.
Grazie compagni portuali anche per essere stati gli unici ad avere fatto un gesto concreto: bloccare i carichi di armi verso Israele. In un mondo in cui tutti, soprattutto quelli che avrebbero il potere di cambiare qualcosa, si riducono a pronunciare banali frasi di circostanza, vuote, solo per comparire davanti a una telecamera, con espressione contrita. “Siamo vicini alla popolazione, non è possibile andare avanti, occorre fermare le armi…”. Il nulla più assoluto. Il tutto parlando in modo vago e impersonale delle vittime, ma prendendosi ben guardia dal citare gli assassini.
Non una sola iniziativa concreta, non una condanna. Una complicità mascherata e ipocrita, senza neppure avere il coraggio di dire che in fondo si sta dalla parte di Netanyahu.
Per questo il grazie a voi lavoratori di Genova e a tutti quelli che hanno contribuito e contribuiscono con coraggio a fare rispettare, peraltro, una legge, la 185/90, che vieta l’esportazione di armi e il loro transito verso Paesi in stato di conflitto armato per cui si sia dichiarato l’embargo o i cui governi siano responsabili di violazioni dei diritti umani.
Che da una città, Medaglia d’oro per la Resistenza, venga un nuovo slancio di civiltà, che le scelte coraggiose di queste donne e questi uomini vadano al di là del loro semplice valore e diventino uno stimolo per noi tutti. Basta indignarsi, occorre nel nostro piccolo fare qualcosa. Abbiamo strumenti civili per boicottare, almeno in parte, le azioni di violenza: non acquistare più prodotti dai Paesi oppressori, appoggiare le associazioni di aiuti umanitari, fare pressioni sui politici locali…
È poco? Forse, ma vale sempre ricordare la storiella del colibrì, che tenta di spegnere l’incendio della foresta, portando acqua nel suo piccolo becco. E quando l’elefante gli dice: “Come puoi pensare di farcela?”, lui risponde: “Faccio la mia parte”. Grazie Genova!
L’assassinio della memoria da parte di Israele – Chris Hedges
La distruzione di Gaza da parte di Israele non riguarda solo la Pulizia Etnica. Riguarda la Cancellazione di un popolo, di una cultura e di una storia che smascherano le menzogne usate per giustificare lo Stato israeliano.
Mentre Israele continua a spuntare la sua lista di atrocità di stampo Nazista contro i palestinesi, tra cui la Fame di Massa, si prepara a compierne un’altra: la demolizione di Gaza, una delle città più antiche del mondo. Pesanti macchinari e giganteschi bulldozer blindati stanno abbattendo centinaia di edifici gravemente danneggiati. Autobetoniere sfornano cemento per riempire i tunnel. Carri armati e aerei da combattimento israeliani bombardano i quartieri per spingere i palestinesi rimasti tra le rovine della città verso Sud.
Ci vorranno mesi per trasformare Gaza in un parcheggio. Non ho dubbi che Israele replicherà l’efficienza del Generale Nazista delle SS Erich von dem Bach-Zelewski, che supervisionò la distruzione di Varsavia. Trascorse i suoi ultimi anni in prigione. Che la storia, almeno per quanto riguarda questa nota a margine, si ripeta.
Mentre i carri armati israeliani avanzano, i palestinesi fuggono, con quartieri come Sabra e Tuffah ripuliti dai loro abitanti. C’è poca acqua pulita e Israele progetta di tagliarla fuori nel Nord di Gaza. Le scorte di cibo sono scarse o eccessivamente costose. Un sacco di farina costa 22 dollari (18,77 euro) al chilo, o la vita. Un rapporto pubblicato venerdì dall’Integrated Food Security Phase Classifications (Classificazioni Integrate della Fase di Sicurezza Alimentare), la principale autorità mondiale in materia di insicurezza alimentare, ha confermato per la prima volta una Carestia a Gaza. Afferma che oltre 500.000 persone a Gaza stanno affrontando “Fame, Miseria e Morte”, con “condizioni catastrofiche” che si prevede si estenderanno a Deir al-Balah e Khan Younis il mese prossimo. Quasi 300 persone, tra cui 112 bambini, sono morte di fame.
I capi di Stato europei, insieme a Joe Biden e Donald Trump, ci ricordano la vera lezione dell’Olocausto. Non è “Mai Più”, ma “Non ci Interessa”. Sono Complici a pieno titolo del Genocidio. Alcuni si torcono le mani e si dicono “inorriditi” o “addolorati”. Alcuni condannano la fame orchestrata da Israele. Alcuni affermano che dichiareranno uno Stato Palestinese.
Questo è teatro drammaturgico: un modo, quando il Genocidio sarà finito, per questi dirigenti occidentali di insistere di essere dalla parte giusta della storia, pur avendo armato e finanziato gli assassini Genocidi, mentre molestavano, mettevano a tacere o criminalizzavano coloro che condannavano il Massacro.
Israele parla di occupare Gaza. Ma è un sotterfugio. Gaza non deve essere occupata. Deve essere distrutta. Cancellata. Spazzata via dalla faccia della terra. Non resterà altro che tonnellate di detriti che verranno faticosamente portati via. Il paesaggio lunare, ovviamente privo di palestinesi, fornirà le basi per nuove colonie ebraiche.
“Gaza sarà completamente distrutta, i civili saranno inviati a Sud, in una zona umanitaria senza Hamas o terrorismo, e da lì inizieranno a partire in gran numero verso Paesi terzi”, ha annunciato il Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich in una conferenza sull’aumento degli insediamenti ebraici nella Cisgiordania Occupata da Israele.
Tutto ciò che mi era familiare quando vivevo a Gaza non esiste più. Il mio ufficio nel centro di Gaza. La pensione Marna in via Ahmed Abd el Aziz, dove dopo una giornata di lavoro bevevo il tè con l’anziana proprietaria, una rifugiata di Safad, nella Galilea settentrionale. I bar che frequentavo. I piccoli caffè sulla spiaggia. Amici e colleghi, con poche eccezioni, sono in esilio, morti o, nella maggior parte dei casi, scomparsi, senza dubbio sepolti sotto montagne di detriti. Durante la mia ultima visita alla pensione Marna, ho dimenticato di restituire la chiave della stanza. La numero 12. Era attaccata a un grande ovale di plastica con la scritta “Pensione Marna Gaza”. La chiave è sulla mia scrivania.
L’imponente fortezza di Qasr al-Basha nella Città Vecchia di Gaza, costruita dal Sultano Mamelucco Baibars nel tredicesimo secolo e nota per la sua scultura in rilievo raffigurante due leoni uno di fronte all’altro, non c’è più. Così come il Castello di Barquq, o Qalʿat Barqūqa, una moschea fortificata di epoca Mamelucca costruita nel 1387-1388, secondo un’iscrizione sopra il portale d’ingresso. La sua elaborata calligrafia araba vicino al portale principale un tempo recitava:
“Nel nome di Allah, il Clemente, il Misericordioso. Le moschee di Dio stabiliscano preghiere regolari, pratichino la carità regolare e non temano nessuno tranne Dio”.
La Grande Moschea di Omari a Gaza, l’antico Cimitero Romano e il Cimitero di Guerra del Commonwealth, dove sono sepolti più di 3.000 soldati britannici e del Commonwealth della Prima e Seconda Guerra Mondiale, sono stati bombardati e distrutti, insieme a università, archivi, ospedali, moschee, chiese, case e condomini. Il porto di Anthedon, che risale al 1100 a.C. e un tempo forniva ancoraggio a navi Babilonesi, Persiane, Greche, Romane, Bizantine e Ottomane, giace in rovina.
Lasciavo le scarpe su una rastrelliera vicino all’ingresso della Grande Moschea di Omari, la più grande e antica moschea di Gaza, nel quartiere Daraj della Città Vecchia. Mi lavavo mani, viso e piedi ai rubinetti comuni, eseguendo la purificazione rituale prima della preghiera, nota come wudhu. All’interno, nel silenzio assoluto, con il pavimento ricoperto di moquette blu, la cacofonia, il rumore, la polvere, i fumi e il ritmo frenetico di Gaza si dissolvevano.
La distruzione di Gaza non è solo un Crimine contro il popolo palestinese. È un Crimine contro il nostro patrimonio culturale e storico: un attentato alla memoria. Non possiamo comprendere il presente, soprattutto quando si parla di palestinesi e israeliani, se non comprendiamo il passato.
La storia è una minaccia mortale per Israele. Denuncia la violenta imposizione di una Colonia Europea nel mondo arabo. Rivela la spietata Campagna per de-arabizzare un Paese arabo. Sottolinea il Razzismo insito nei confronti degli arabi, della loro cultura e delle loro tradizioni. Sfida il mito secondo cui, come disse l’ex Primo Ministro israeliano Ehud Barak, i Sionisti avrebbero creato “una villa nel mezzo della giungla”. Si fa beffe della menzogna secondo cui la Palestina sarebbe una patria esclusivamente ebraica. Ricorda secoli di presenza palestinese. E mette in luce la cultura aliena del Sionismo, impiantata su una terra rubata.
Quando ho seguito il Genocidio in Bosnia, i serbi hanno fatto saltare in aria le moschee, ne hanno portato via i resti e hanno proibito a chiunque di parlare delle strutture che avevano raso al suolo. L’obiettivo a Gaza è lo stesso: Cancellare il passato e sostituirlo con il mito, per mascherare i Crimini israeliani, incluso il Genocidio.
La Campagna di Cancellazione bandisce la ricerca intellettuale e ostacola l’analisi imparziale della storia. Celebra il pensiero magico. Permette agli israeliani di fingere che la violenza intrinseca che è al centro del Progetto Sionista, risalente all’espropriazione delle terre palestinesi negli anni ’20 e alle più ampie Campagne di Pulizia Etnica dei palestinesi del 1948 e del 1967, non esista.
Per questo motivo, il governo israeliano vieta le commemorazioni pubbliche della Nakba, o Catastrofe, un giorno di lutto per i palestinesi che cercano di ricordare i Massacri e l’espulsione di 750.000 palestinesi perpetrati dalle milizie terroristiche ebraiche nel 1948. Ai palestinesi viene persino impedito di portare la loro bandiera.
Questa negazione della verità e dell’identità storica permette agli israeliani di crogiolarsi in un eterno vittimismo. Alimenta una nostalgia moralmente cieca per un passato inventato. Se gli israeliani affrontano queste menzogne, ciò minaccia una crisi esistenziale. Li costringe a ripensare a chi sono. La maggior parte preferisce il conforto dell’illusione. Il desiderio di credere è più potente del desiderio di vedere.
La Cancellazione isola una società. Soffoca le indagini di accademici, giornalisti, storici, artisti e intellettuali che cercano di esplorare ed esaminare il passato e il presente. Le società chiuse conducono una guerra costante contro la verità. Menzogne e dissimulazione devono essere costantemente rinnovate. La verità è pericolosa. Una volta stabilita, è indistruttibile.
Finché la verità sarà nascosta, finché coloro che la cercano saranno messi a tacere, è impossibile per una società rigenerarsi e riformarsi. L’amministrazione Trump è in sintonia con Israele. Anch’essa cerca di dare priorità al mito sulla realtà. Anch’essa mette a tacere coloro che sfidano le menzogne del passato e le menzogne del presente.
Le società isolate non possono comunicare con nessuno al di fuori dei loro circoli incestuosi. Negano i fatti verificabili, fondamento su cui si fonda un dialogo razionale. Questa comprensione era al centro della Commissione per la Verità e la Riconciliazione del Sudafrica. Coloro che hanno commesso le atrocità del Regime di Apartheid hanno confessato i loro Crimini in cambio dell’immunità. Così facendo, hanno dato alle vittime e ai carnefici un linguaggio comune, radicato nella verità storica. Solo allora è stata possibile la guarigione.
Israele non sta solo distruggendo Gaza. Sta distruggendo se stesso.
Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto
Studiosi del genocidio: “Israele ne sta commettendo uno a Gaza”. Leggi la risoluzione dell’associazione
Il documento è stato votato dai 500 membri dell’International Association of Genocide Scholars (Iags), la più autorevole associazione internazionale di studiosi e accademici del genocidio nei suoi aspetti storici e legali.
“Le politiche e le azioni di Israele a Gaza soddisfano la definizione giuridica di genocidio di cui all’articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio (1948)”. Lo dichiara, in una risoluzione votata il 31 agosto dai suoi 500 membri, l’International Association of Genocide Scholars (Iags), la più autorevole associazione internazionale di studiosi e accademici del genocidio nei suoi aspetti storici e legali. Il documento è stato approvato a larghissima maggioranza dall’86% dei membri, come si legge sui media del Regno Unito. Nella dichiarazione viene richiamato l’articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948), in cui vengono indicati gli atti che rientrano nella definizione di genocidio “commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”…
Caschi blu a Gaza: la via dell’ONU oltre il veto USA – Mario Sommella
L’emergenza umanitaria a Gaza ha superato la soglia dell’indicibile: assedi, carestia, bombardamenti, ospedali trasformati in obitori, nessun accesso garantito per gli aiuti umanitari. La governance israeliana, sempre più priva di contrappesi, opera sub specie militari, ignorando apertamente la legalità internazionale. E mentre le Nazioni Unite restano paralizzate dal veto sistemico degli Stati Uniti, emerge con forza un interrogativo: può l’Assemblea Generale aggirare questa impasse e agire?
La risposta esiste, è sul tavolo dal 1950, si chiama Uniting for Peace – ed è l’unica carta concreta che oggi l’ONU può giocare per difendere ciò che resta del diritto internazionale e della sua stessa credibilità.
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Gaza sotto assedio, la diplomazia sotto scacco
Il 10 agosto 2025, il Consiglio di Sicurezza si è riunito per affrontare l’esplicito piano di conquista totale di Gaza annunciato dal governo Netanyahu. Un piano di annessione de facto, considerato da più giuristi internazionali come genocidio in fieri, secondo i criteri della Corte Internazionale di Giustizia. Eppure, neppure un voto: il veto statunitense, ampiamente preannunciato, ha impedito anche solo una risoluzione interlocutoria.
Questo ennesimo fallimento ha rimesso al centro dell’attenzione una vecchia arma giuridica, ancora pienamente in vigore: la risoluzione 377 (A) V – Uniting for Peace, adottata nel 1950 proprio su iniziativa degli Stati Uniti, allora per contrastare i veti sovietici sulla guerra di Corea.
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Uniting for Peace: lo strumento esiste, manca il coraggio
La risoluzione 377 afferma che, quando il Consiglio di Sicurezza “viene meno al proprio dovere” a causa di un veto, l’Assemblea Generale può intervenire, convocando un’assemblea d’urgenza e adottando raccomandazioni vincolanti per l’uso di misure collettive, anche armate, per mantenere o ristabilire la pace.
Questo meccanismo non è una chimera: è stato attivato in 11 casi, incluso il conflitto di Suez nel 1956, l’invasione sovietica dell’Ungheria, e più recentemente, nel 2022, per condannare l’invasione russa dell’Ucraina.
Tuttavia, mai è stato applicato al conflitto israelo-palestinese, nonostante le ripetute escalation e le gravi violazioni del diritto umanitario. La domanda è dunque politica, non giuridica.
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Francesca Albanese e la mobilitazione per una forza di protezione
Il rilancio è arrivato da più parti: la relatrice speciale ONU Francesca Albanese ha chiesto esplicitamente l’attivazione del meccanismo, suggerendo una “forza protettiva internazionale composta da soldati amici”. L’ONG DAWN ha appoggiato questa proposta, sottolineando come l’inazione ONU stia contribuendo alla complicità passiva nello sterminio in corso.
Nei giorni tra l’8 e il 10 agosto, la delegazione palestinese ha formalmente avanzato la richiesta all’Assemblea Generale, invocando l’articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite e la procedura Uniting for Peace. Ma nessuno, finora, ha osato raccoglierla.
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Un consenso larvato, ma nessuna volontà politica
Il quadro all’interno del Consiglio di Sicurezza è eloquente: Slovenia, Francia, Regno Unito, Danimarca, Grecia, Pakistan, Panama, Somalia, Algeria, Corea del Sud, Guyana, Sierra Leone – tutti hanno condannato apertamente il piano di occupazione israeliano. Ma nessuno ha promosso formalmente l’attivazione della 377 A.
Cina e Russia, pur critiche verso Israele, restano silenti. I motivi sono geopolitici: Pechino teme che una spaccatura netta con gli USA possa ripercuotersi su Taiwan, Mosca guarda all’Ucraina. Anche le diplomazie europee, pur favorevoli alla Palestina nei toni, preferiscono un approccio graduale e simbolico, evitando lo scontro frontale con Washington.
Nel frattempo, la “rassegnazione connivente” – per usare le parole di Gian Giacomo Migone – si espande tra le istituzioni internazionali.
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Oltre la retorica: serve un mandato ai caschi blu
A Gaza non servono più solo dichiarazioni, ma azioni concrete: corridoi umanitari, protezione dei civili, accesso a viveri e medicinali, verifica indipendente dei crimini di guerra. Tutto ciò può essere garantito da una forza internazionale sotto mandato ONU, sul modello delle missioni UNIFIL o MINURSO.
Il mandato dei caschi blu non può più essere ostaggio dei giochi di potere del Consiglio. Come ricordava lo stesso António Guterres, “la legalità internazionale non è opzionale”. Ma se resta lettera morta, il rischio di implosione del sistema multilaterale diventa reale.
Nel 1938, la Società delle Nazioni fallì nel suo scopo primario: prevenire un nuovo conflitto globale. Oggi, l’ONU rischia la stessa sorte se non reagisce. Gaza non può essere il nuovo fallimento di Ginevra.
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Direzione di marcia: quale mobilitazione possibile?
L’Assemblea Generale, come corpo rappresentativo delle Nazioni Unite, può e deve agire. Serve il voto favorevole di due terzi dei membri presenti e votanti: un obiettivo realisticamente raggiungibile, vista la larga maggioranza di paesi che sostengono i diritti dei palestinesi.
Anche azioni simboliche, come l’ipotesi suggerita da alcuni diplomatici italiani di boicottare l’intervento di Netanyahu lasciando vuota l’aula, possono avere un valore politico forte. Ma la priorità resta operativa: l’implementazione immediata di una forza internazionale di protezione civile e umanitaria.
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Conclusione: oltre la rassegnazione, la responsabilità collettiva
L’ONU è a un bivio. Gaza è oggi la cartina al tornasole della sua capacità di incidere nella realtà, non solo nella diplomazia. Se l’Assemblea Generale non interverrà, la storia la giudicherà corresponsabile di un’ecatombe annunciata.
Per questo oggi, richiamando il principio stesso che fondò le Nazioni Unite – “Mai più” – occorre agire, senza più alibi.
Missione delle fonti
• Risoluzione 377 (V) “Uniting for Peace” (3 novembre 1950): https://digitallibrary.un.org/record/111019
• DAWN MENA – Proposta di forza di protezione internazionale: https://dawnmena.org/un-general-assembly-deploy-international-protection-force-to-gaza/
• Francesca Albanese – Interventi pubblici e dichiarazioni ufficiali: https://www.ohchr.org/en/special-procedures/sr-palestine
• Riunione ONU del 10 agosto e posizionamenti nazionali: resoconti da volerelaluna.it, ejiltalk.org
• Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza 2720, 2728 (2023–2025): https://digitallibrary.un.org
• Analisi parallele: Janine Di Giovanni su The Atlantic e Newlines Magazine
• Finanziamenti italiani all’UNRWA e politica estera: https://it.wikipedia.org/wiki/Italia_e_Palestina