La deriva nera dalle piazze alle periferie

di Linda Di Benedetto (*). A seguire un articolo di Manuela Foschi sulla manifestazione di «Remigrazione» a Ravenna.

Gruppi storicamente divisi da rivalità territoriali sono ora accomunati dalla volontà dichiarata di “porre un argine deciso all’immigrazione incontrollata”, che – secondo loro – minaccia la coesione sociale e la sopravvivenza stessa dei popoli europei.

Dalla pagina Facebook “Remigrazione e Riconquista” (26.248 follower)

La parola d’ordine è sempre la stessa, ripetuta come un mantra che deve entrare nella pelle del Paese: remigrazione. L’hanno srotolata su striscioni di quattordici metri davanti al Castello di San Giorgio a Mantova; l’hanno gridata in piazza Kennedy ad Avellino, dove tre militanti sono stati denunciati mentre, secondo il loro racconto, gli spacciatori continuavano indisturbati; l’hanno portata ad Ancona, sotto la contestazione degli antifascisti; a Trieste come simbolo della “prima tappa in Friuli”; a Verona come “prova della strada giusta”; a Brescia come data simbolica per il varo del progetto nazionale; a Novara e a Cassino; ad Anzio in provincia di Roma, a Lavinio Stazione, nel cuore di un quartiere che diventa il manifesto della narrazione identitaria.

Tutte queste attività fanno capo al Comitato Remigrazione e Riconquista, nato come iniziativa congiunta di quattro realtà fondatrici: CasaPound Italia, Rete dei Patrioti, Veneto Fronte Skinheads e Brescia ai Bresciani, gruppi storicamente divisi da rivalità territoriali, ora accomunati dalla volontà dichiarata di tradurre in azione concreta la proposta programmatica sulla remigrazione e di “porre un argine deciso all’immigrazione incontrollata”, fenomeno che secondo loro minaccia la coesione sociale e la sopravvivenza stessa dei popoli europei. Una campagna sincronizzata, calibrata, ripetuta città dopo città, come un rosario laico che cerca di convincere gli italiani che il declino abbia un solo volto: quello dello straniero. E la soluzione è una sola: farlo tornare indietro.

A rendere tutto più esplicito è la promessa che attraversa ogni comunicato del Comitato Remigrazione e Riconquista: non più solo protesta, ma una legge di iniziativa popolare per introdurre un rimpatrio sistematico, esteso, organizzato. Una versione italiana, più grezza, più ideologica, dei discorsi sul “mass deportation” che negli Stati Uniti Donald Trump ha riportato nel centro del dibattito politico; una declinazione casalinga dell’idea che la stabilità interna passi da un gigantesco trasferimento di popolazioni, qualcosa che ricorda più operazioni da Stato autoritario che politiche migratorie occidentali.

Edi Rama, presidente albanese con Giorgia Meloni (Imagoeconomica, Andrea Di Giagio)

In questa Italia, il modello non è la gestione ordinaria, ma il gesto plateale, muscolare, quello che trasforma milioni di persone in un problema aritmetico: si sottraggono e via. Il governo Meloni, pur senza proporre espulsioni di massa, ha contribuito a ridefinire l’immaginario politico sull’immigrazione.

Il centro di permanenza per i rimpatri a Gjadër, in Albania (Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

Il CPR in Albania ne è il simbolo più evidente: uno specchio della deriva della destra radicale italiana, in cui la teoria della “remigrazione” diventa pratica coercitiva, spostata in luoghi lontani dallo sguardo pubblico e dove i diritti dei migranti risultano più vulnerabili. Quella struttura funziona come un laboratorio politico: uno spazio in cui la retorica dell’espulsione di massa, agitata per anni nelle periferie italiane trova una sua prima applicazione concreta. Non risolve i problemi, ma marginalizza le persone, normalizzando l’idea che la forza e la detenzione siano strumenti ordinari di governo. Ed è così che la pressione ideologica, presentata come “sicurezza”, finisce per ridefinire il concetto stesso di legalità nel Paese.

Così ad Anzio (RM), dalla pagina Fb “Remigrazione e Riconquista”

Il terreno è fertile, perché negli ultimi anni il dibattito pubblico si è spostato sempre più a destra. La remigrazione nasce proprio in questo interstizio: nella zona in cui la destra istituzionale normalizza l’idea che l’immigrazione sia un’emergenza permanente, e la destra radicale offre la soluzione estrema da applicare nei quartieri reali, nelle piazze, sulle serrande abbassate delle periferie. Così, ad Anzio in provincia di Roma nel quartiere Lavinio Stazione, diventa non più un luogo complesso, con disoccupazione, marginalità e assenza di servizi, ma il simbolo narrativo perfetto: un laboratorio dove dimostrare che il “degrado” ha un’origine unica e semplice. Lo schema è sempre lo stesso: prendere un territorio fragile, sovraccaricarlo di significati allarmistici, trasformarlo in prova vivente del fallimento dell’integrazione. Nessuna analisi socioeconomica, nessun approfondimento sulle responsabilità istituzionali; solo la promessa che, togliendo gli stranieri, tutto possa magicamente tornare come prima.

Matteo Salvini, Viktor Orban, Santiago Abascal (Vox) e Marine Le Pen al meeting dei patrioti, febbraio 2025 (Imagoeconomica)

È una formula che ha funzionato nella Francia di Le Pen e Zemmour, nei Länder orientali della Germania dove l’AfD avanza, nelle campagne austriache che hanno dato ossigeno all’estrema destra. In Italia prende la forma della “riconquista”: una parola che non riguarda l’amministrazione, ma il controllo simbolico, quasi militare, di spazi sociali. In questo quadro, la presenza di Luca Marsella, portavoce di CasaPound Italia — uno dei responsabili del movimento dei «fascisti del terzo millennio», guidato sempre dal presidente Gianluca Iannone, abituato all’attivismo aggressivo sul territorio — serve a dare solidità e riconoscibilità.

Luca Marsella, CasaPound (Imagoeconomica, Canio Romaniello)

Marsella diventa l’anello di congiunzione tra la vecchia estetica neofascista e la nuova retorica identitaria, più social, più contemporanea, più presentabile ai media. La sua figura è un segnale: chi guida la remigrazione non è un fronte spontaneo di cittadini indignati, ma un’operazione politica costruita da realtà che da anni lavorano per radicarsi nei territori dove lo Stato arretra. Le manifestazioni di Mantova, Ancona, Trieste, Avellino, Verona e Brescia, Latina non sono episodi isolati: sono tappe di un’unica strategia nazionale. Le adesioni di piccoli amministratori locali, le foto con il tricolore sventolato come unica bandiera possibile, la retorica dell’“Italia che non si arrende”, l’idea di un Paese occupato da riconquistare: tutto costruisce una narrazione che sposta l’asticella politica verso ciò che fino a ieri sembrava impensabile.

Dalla pagina Facebook “Remigrazione e Riconquista”

Ed è proprio qui che sta il punto: in un’Italia in cui la destra al governo ha già spostato il baricentro culturale del Paese, la destra radicale può permettersi di fare un passo avanti e proporre — non più in forma clandestina, ma plateale, rivendicata — un progetto di ingegneria sociale che rimuove persone, identità, generazioni intere. Ciò che questa campagna racconta, città dopo città, non è solo un disagio reale o una rabbia popolare, che esistono, ma la scelta politica di indirizzarli verso la soluzione più ruvida, più spiccia, più esplosiva: eliminare lo straniero dal quadro, come se fosse una macchia da cancellare. È un’idea che piace perché è semplice, perché non richiede visione, investimenti, politiche urbane, lotta alle disuguaglianze, riforme educative. È molto più facile dire “via loro” che dire “via ciò che ha prodotto questo”.

(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

E così la remigrazione si presenta come l’ennesima scorciatoia identitaria, un’illusione di ordine che rischia di diventare la nuova grammatica della destra italiana: prima suggerita, poi tollerata, poi normalizzata. Fino al punto in cui non sarà più un tabù, ma un’opzione. Ed è proprio allora che diventerà troppo tardi.

(*) Testo e foto originali: https://www.patriaindipendente.it/servizi/remigrazione-e-riconquista-la-deriva-nera-dalle-piazze-alle-periferie/

A Ravenna: corteo di «Remigrazione e Conquista» in centro, alla stazione contro-manifestazione di studenti e antifascisti

di Manuela Foschi

Sabato 22 novembre è sbarcato Aravenna il Comitato «Remigrazione e Riconquista» formatosi a Brescia il 15 novembre, composto da esponenti di Casa Pound, Veneto fronte Skinhead e Rete Patrioti.

Super scortato e super protetto dalle “forze dell’ordine”, il corteo è arrivato alle 16 in piazza Mameli, un parcheggio a pagamento sgombrato per l’occasione. Nei giorni precedenti erano usciti i comunicati di Anpi provinciale, Cgil, Arci e Alleanza Verdi e Sinistra che chiedevano di vietare il corteo neofascista. I gruppi della maggioranza Pd, M5S, Ama Ravenna, Progetto Ravenna e il Pri che amministrano la città si sono detti «fortemente contrari al corteo neofascista di Remigrazione» e hanno chiesto alle autorità competenti «di valutare con estrema attenzione le tensioni che un corteo del genere avrebbe potuto generare in città». Su change.org è nata una petizione per chiedere il divieto del corteo fasciorazzista, creata da varie associazioni locali che si battono per la difesa dei diritti umani, e che in poco più di due giorni ha raccolto più di 1800 firme.
Alla fine non è scattato alcun divieto e i (pochi) fascisti sono scesi in piazza. Vien da chiedersi se una grande manifestazione cittadina antifascista sarebbe stata la risposta migliore, anche per ricordare e riaffermare “Ravenna Medaglia d’oro della Resistenza”.

Ad attendere i neofascisti, dalle 15 ai Giardini Speyer, davanti alla stazione, c’erano i promotori della contro-manifestazione tra cui Potere al popolo, Rifondazione Comunista, Partito Comunista italiano e un bel gruppo di studenti di OSA e di Cambiare Rotta. Marisa Iannucci di Potere al Popolo ha ricordato nel suo intervento che «Ben vengano tutti i comunicati delle forze antifasciste della città ma è necessaria la presenza fisica delle persone, delle voci e dei corpi nelle piazze che esprimano il dissenso verso questo tour dell’odio che parla esplicitamente di espulsione, deportazione, di riconquista etnica. Si tratta di un progetto di pulizia etnica mascherato dalle politiche di sicurezza. Ma la discriminazione verso le persone è reato e viola l’articolo 3 della Costituzione, calpestata dal governo di destra e dall’ideologia suprematista di questo corteo». Carlo Alberto Biasioli, il ravennate della Global Sumud Flotilla, ha aggiunto: «State facendo una cosa davvero molto importante, essenziale. Siatene orgogliosi, perché nel 2025 non è accettabile vedere che in una democrazia venga lasciata libertà di fare una manifestazione razzista. L’avanzamento del fascismo è causata dall’instabilità economica che fa paura e spinge molti a fare scelte politiche sbagliate. Siate capaci di fronteggiare questa ondata di razzismo che va fermata». 

Appena partito il corteo multicolore antifascita e antirazzista è stato bloccato da un nutrito schieramento di celerini a metà del viale della stazione, mentre l’altro corteo al grido di «Camerati avanti in fila» ha sfilato indisturbato come una parata militare, sventolando il tricolore.

A disturbare il loro comizio fino al termine, i pacifici antifascisti che li hanno accerchiati nelle varie entrate della piazza. Una passante – che si dichiara né di destra né di sinistra – rabbrividisce nel vederli sfilare e nel sentirli parlare. C’è chi invece, per tragiche vicenda familiari, non può fare a meno di ricordare le violenze e gli agguati fascisti nel territorio ravennate a partire dal 1921. 

Tahar Lamri, scrittore e intellettuale di Ravenna attivo per anni sulle tematiche multiculturali e di integrazione in città, esprime la sua delusione su Fb: «Mi aspettavo una discesa spontanea in piazza di tutta la città per dire: ‘I nostri problemi li sappiamo risolvere da soli. Non abbiamo bisogno di una prova di forza’ … La remigrazione non è un’opinione politica, è pulizia etnica, è genocidio e quindi un crimine contro l’umanità. La libertà di espressione non include il diritto di predicare genocidi in nessuna democrazia degna di questo nome. Questo comitato non è un fenomeno italiano. E’ un movimento internazionale che sta conquistando l’Europa. Questo non è il momento dell’educazione istituzionale. E’ il momento della Resistenza».

Il giorno dopo la manifestazione il Comune di Ravenna adotta la «Carta di Ravenna» approvata dalla Giunta, per migliorare la gestione dei flussi migratori e le politiche di accoglienza in un’ottica transnazionale. Un impegno sottoscritto fra Comuni e Regioni, parlamentari italiani ed europei, funzionari Onu e organizzazioni non governative come Emergency, Mediterranea Saving Humans, Open Arms, ResQ, Sea Watch, Solidaire, SOS Mediterranèe. Questa esigenza di coordinamento nasce in seguito agli sbarchi di migranti che al porto di Ravenna avvengono dal 31 dicembre 2022 e che hanno accolto fino ad oggi 2088 profughi.

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