«Chi fa una rivoluzione a metà….
… non fa altro che scavarsi una tomba»: chissà se aveva ragione Saint-Just… Una recensione – in ritardo – a «L’armata dei sonnambuli» di Wu Ming (*)
Compro raramente i libri dei grandi editori ma per Wu Ming ho sempre fatto volentieri eccezione. Così, in un normale giorno di merda del 2014, eccomi a leggere «L’armata dei sonnambuli» (Einaudi, marzo 2014: 800 pagine per 21 euri). L’ho divorato, appuntato, apprezzato; poi, impicciato in altre faccende, non ne ho parlato qui in “bottega”. A mia scusante anche un’ovvia constatazione: molte/i seguono il collettivo Wu Ming, una rec in più o in meno cambia poco. Ma per mio gusto – e spero per invogliare altre/i a leggerlo – eccomi qua.
«L’armata dei sonnambuli» è aperto da due citazioni. Una di Michel Foucault è sul corpo e sull’isteria. L’altra di «Gracco» Babeuf bisognerà tenerla ben presente quando la Rivoluzione si incamminerà verso il Terrore: «Furono i supplizi d’ogni genere, la tortura, i roghi, le forche a darci feroci abitudini. I governanti invece di educarci ci hanno reso così barbari perché essi lo sono. Ora raccolgono i frutti».
Le vicende scivolano fra il 1793, il 1784, la notte fra il 3 e il 4 settembre 1792, il 1791, il fatidico 1789 sempre sullo sfondo, il 1794. Non entrerò nei risvolti della trama (molto bella, forse la più simile per intrecci e profondità a «Q», esordio dei Wu Ming anche se allora si firmavano Luther Blissett) ma segnalerò solo alcuni passaggi e annesse riflessioni, qua e là «arrotando parole come baionette».
Contadini: «era la fatica che non trovava le parole per ribellarsi e allora luna piena, influssi sottili, suggestioni, evocazioni: il mondo magico del passato diveniva il bacino ove sfogare energia repressa, negata».
La rivoluzione come spettacolo: «I parigini erano sempre interessati al teatro ma il teatro era divenuto grande come Parigi. I migliori oratori della Convenzione prendevano lezione da attori consumati […] Gli spettacoli più emozionanti erano quelli dove la gente perdeva la testa davvero, i cannoni tuonavano e poteva capitare, da un momento all’altro, che gli spettatori si trovassero a recitare».
La rivoluzione come Carnevale: «la rivoluzione, diceva, è un carnevale più lungo del consueto, che si slunga fino a contenere la quaresima, la resurrezione, tutto quanto».
Attori: «la battuta si prestava a una doppia interpretazione. “Rappresentare il popolo” significava agire per suo conto ma significava pure “metterlo in scena” […] la rappresentanza più genuina, altro che elezioni […] Non era un caso se la rivoluzione aveva concesso agli attori il sacrosanto diritto di essere eletti».
I diavoli in noi: «sapeva che il demonio è monarca assai più difficile da spodestare di un Capeto».
«Senza le donne la rivoluzione manco incominciava».
«Piangersi addosso è il balsamo degli inetti».
«Sentinelle, guardiani, mura, cancelli: è una buona metafora della Francia. Sorveglianti che sorvegliano altri sorveglianti che ne sorvegliano altri ancora. Mura che cingono altre mura. A volte viene spontaneo chiedersi se è per questo che è stato fatto ciò che è stato fatto».
«Un solo odore: quello della sottomissione».
«La follia è materia di studio indispensabile per chi voglia conoscere ed esercitare il potere. Un’incognita che può entrare in gioco in qualsiasi momento, nelle vicende personali e in quelle collettive».
«A buon gatto buon ratto».
«Il giorno prima era il 5 ottobre 1793 e il giorno dopo era il 15 vendemmiaio dell’anno II. Sulle prime questa cosa a noialtri sanculotti garbava pure […] Ecco che il giorno di riposo […] arrivava dopo 9 giorni di travaglio, 3 volte in un mese anziché 4. Insomma questa storia del calendario è stata come azzannare una bella brioche dorata e trovarci dentro uno stronzo».
«Non puoi affermare un diritto mentre conservi un privilegio».
«Ci si lamentava che non accadeva nulla in Francia, e si è messo il mondo sottosopra».
«Se non cambiamo tutto, dopo è tardi, non capita un’altra volta di poterlo fare».
Il libro è dedicato a Stefano Tassinari: ottimo scrittore e gran compagno.
(*) Questa sorta di recensione va a collocarsi nella rubrica «Chiedo venia», nel senso che mi è capitato, mi capita e probabilmente continuerà a capitarmi di non parlare tempestivamente in blog di alcuni bei libri pur letti e apprezzati. (db)