Agricoltura sostenibile, profitti, mercato…

… ovvero appunti sul recente convegno di Mani tese

di David Lifodi

Il consumatore è sovrano? Siamo noi che spingiamo il carrello o è il carrello a spingere noi? A chiederselo, e a riflettere su queste due provocazioni di Andrea Segré (preside della Facoltà di Agraria all’Università di Bologna e animatore di Last Minute Market), la platea di Mani Tese e gli altri relatori intervenuti al convegno “Siamo quel che mangiamo: il diritto al cibo, la democrazia, il mercato”. Inserita nel programma fiorentino di Terra Futura, la due giorni di Mani Tese ha sollecitato una profonda riflessione sulla sovranità alimentare, tema sul quale da anni l’associazione ha impostato una parte consistente del proprio lavoro e delle proprie campagne.

Direttore commerciale del Pastificio Lucio Garofalo, Emidio Mansi ammette che  per una qualsiasi ditta è impossibile non spingere il consumatore all’acquisto, ma è possibile perseguire un giusto profitto senza per questo togliere le tutele ai lavoratori o imporre pubblicità e messaggi ingannevoli. Mansi lo chiama “market garbato”, un’espressione curiosa ma che rende bene l’idea di un modo diverso di fare comunicazione e pubblicità: mettere in rilievo i parametri del livello di qualità di un prodotto e farlo conoscere a consumatore. Un po’ come fa il mensile Altreconomia quando parla di una piccola cooperativa di pescatori di Genova Nervi piuttosto che della tradizione legata alla produzione del formaggio in Alta Valle Imagna, nella bergamasca. Il ruolo del consumatore allora, argomenta Segré, dovrebbe essere appunto quello di recuperare la propria sovranità per difendersi dai condizionamenti esterni. In un certo senso, prosegue il presidente di Last Minute Market, la rivoluzione dovrebbe partire di consumatori stessi, in modo tale che gli esempi virtuosi del “market garbato” non restino confinati ad un ruolo di nicchia. Su questo emerge con chiarezza il compito dei Gas. Interviene Davide Biolghini (di Rete Gas Nazionale Distretto Economia Solidale Parco Sud di Milano) per invitare i gruppi d’acquisto non solo a costruire sui territori delle realtà locali in grado di mettere in discussione i comportamenti standard del consumatore, ma anche a lavorare per un futuro diverso e sostenibile nei loro luoghi di provenienza. Quale ruolo, dunque, per piccoli agricoltori ed esperienze di agricoltura partecipata? E ancora, come conciliare il diritto al cibo con il tema del no spreco e della sobrietà di cui Mani Tese da sempre si è fatta portavoce? Durante i due giorni di dibattito il confronto entra nel vivo con le esperienze e le valutazioni provenienti dai relatori che si alternano sul palco. Tutti concordano con l’esposizione di Luca Colombo, coordinatore della Fondazione Italiana per la Ricerca in Agricoltura biologica e biodinamica, quando parla degli effetti devastanti della crisi alimentare del 2007 e sul fatto che le politiche agrarie stanno distruggendo modalità interessanti di agricoltura sostenibile. Come reggere una sfida di questo tipo partendo dai movimenti nati dal basso, soprattutto da quelli contadini? Un’esperienza interessante è quella descritta da Andoni García Arriola, portavoce del coordinamento europeo di Via Campesina, protagonista di tutte le mobilitazioni in occasione dei vertici del Wto e capace di aggregare realtà quali contadini, pastori, pescatori e tutti i soggetti realmente produttori di cibo. L’agricoltura non può essere soggetta alle speculazioni di carattere finanziario, chiarisce Arriola. Non solo: i round negoziali del Wto non dovrebbero escludere i movimenti contadini dal diritto di prendere decisioni politiche sull’agricoltura. Una proposta interessante proviene da Maryam Rahmanian, iraniana, vicepresidente della Commissione per la sicurezza alimentare della Fao: se la crisi finanziaria è servita per riscrivere le regole in merito alla sicurezza alimentare a vantaggio dell’agricoltura industriale e a danno di movimenti contadini e indigeni è altrettanto innegabile che proprio da loro possono arrivare proposte innovative, a partire dall’accesso alla terra. Acquisire enormi appezzamenti di terreno  e concentrare gli utili in poche mani è ciò che sta avvenendo in tutto il mondo, soprattutto in Africa, racconta Famule Karanja Muhunyu, coordinatore keniota del Network for Ecofarming, convinto che la produzione locale sia fondamentale per recuperare l’essenza della biodiversità e contrastare una pericolosa corsa all’accaparramento delle risorse dei paesi del sud del mondo, da quelli più poveri agli emergenti ed in via di sviluppo. L’accesso al cibo, in India, rappresenta una vera e propria lotta: le classi urbane cercano di trarre il massimo profitto dalla liberalizzazione. Drammatica, in tal senso, l’esperienza raccontata da Amita Baviskar. Docente di sociologia all’Institute of Economic Growth di Delhi, Amita parla di una preoccupante crescita dei suicidi tra i piccoli agricoltori e della fatica quotidiana nel trarre sostentamento dalla loro terra: cercano di spostarsi  in cerca di condizioni più favorevoli, ma spesso finiscono per trasformarsi in profughi ecologici. Tra le cause di questa difficile situazione la scelta operata dal governo indiano, che privilegia la crescita urbana e industriale. Inoltre il land grabbing rappresenta un fenomeno in crescita ovunque, purtroppo di nuovo a scapito delle comunità indigene e contadine, dove il concetto di proprietà privata non esisteva fin quando non sono arrivate le solite multinazionali con il preciso compito di monopolizzare le risorse esistenti, osserva Gianni Tamino, docente di Biologia generale all’Università di Padova.

In conclusione, l’agroecologia dovrebbe essere basata sul rispetto dei criteri ambientali e, più in generale, agricoltura e cibo non dovrebbero essere fondate su criteri economici e sullo scambio finanziario, ma poste alla base della vita e delle relazioni umane. Utopia o possibilità concreta di raggiungere questo traguardo? Il dibattito è aperto.

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