All’origine della fantascienza
di Mauro Antonio Miglieruolo
Nonostante la pagina che segue sia prelevata da un romanzo che non mi ha particolarmente affascinato (Carlo Sgorlon – La Carrozza di Rame, Club degli Editori, 1979), la presento ugualmente per sollecitare su di essa l’attenzione del lettore,
in quanto a mio parere rappresenta quanto di più esemplare possa esserci rispetto gli umori, gli entusiasmi e le curiosità che l’invasione tecnologica dell’Ottocento ha provocato nelle larghe masse.
Ci penserà il Novecento, con la più larga e capillare diffusione e intensificazione della proposta tecnologica, con i molteplici progetti di ingegneria sociale, l’abbandono del romanzesco e il recupero del millenarismo, a trasformare quegli umori in quel fenomeno straordinario costituito dalla fantascienza, inedita proposta letteraria e sintesi ideologica delle caratteristiche salienti del XX secolo.
Eccone il contenuto:
“…appena passato il ponte di Galvaro scorsero la stranezza, che sembrava aver cambiato tutto il paesaggio: una fuga di pali scuri e di fili a perdita d’occhio, che fiammeggiavano nella luce della sera, correndo verso la pianura, fin dove arrivava la vista. Emilio era passato di lì solo pochi giorni prima, col calesse del nonno, e non c’era ancora niente. I fili erano pieni di passeri e di rondini. Emilio picchiò su un palo con lo zoccolo di legno, e lo sentì vibrare sotto le mani. Accostò l’orecchio, udendo un ronzio che pareva venire da lontano e andare chissà dove. Forse quel ronzio, ora più forte ora più lieve, era un modo di spedire le notizie. Oppure le lettere della gente, invece di metterle nei sacchi e di caricarle sul treno, le facevano correre lungo i fili, legate a piccole carrucole…
A quelle strambe fantasie Ettore scosse il capo con decisione. No, non era e non poteva essere così. C’era sotto qualche altra cosa, un mistero che adesso non conosceva, ma che presto avrebbe saputo. Ettore era fortemente attirato dalle novità. Esse gli spalancavano improvvise prospettive nel futuro, gli provocavano dentro come un luccichio di specchi illuminati dal sole, e sentiva in esse un brulichio ridondante di promesse. Ma era l’unico. In casa invece tutti scuotevano la testa, pieni di diffidenze imbrividite. Ubaldo a pensarci si sentiva come un improvviso male allo stomaco, una nausea balorda e un senso deciso di rifiuto. Fortuna che quei pali della malora non correvano nei suoi campi. Gli pareva che i fili, dentro i quali si diceva passasse l’elettricità, dovessero provocare qualche influsso negativo. Forse il raccolto calava o andava malamente, oppure le nuvole avrebbero cominciato a girare al largo e a non mollar giù neppure una goccia di pioggia. Chi poteva sapere tutte le conseguenze delle cose? Ubaldo era così robusto che alzava un sacco da un quintale come fosse una zucca, ma di fronte a quelle diavolerie moderne, il telefono, il telegrafo, l’elettricità, si sentiva impotente e vulnerabile come un passero.
Brigida non ebbe dubbi quando Emilio le parlò del vento che sentiva dentro i pali. «È il respiro del diavolo» affermò cupamente, e non cambiò idea mai più. Del resto erano in molti a Malvernis e un po’ dappertutto a pensarla allo stesso modo.
(corsivo mio)
Son proprio le diavolerie di cui parla Sgorlon, tramite le riflessioni di Ubaldo, a determinare quella necessità di riflettere sulle conseguenze che nella vita comune avrebbero avuto; e a distogliere le persone dalla interpretazioni magiche e superstiziose con cui le masse solevano accogliere ogni fenomeno che sfuggiva alla loro capacità di interpretarne le ragioni profonde. O meglio, sono le spiegazioni razionali che offre la fantascienza e le ideologie scientifiche delle quali la fantascienza si nutre, o offrire a quelle stesse superstizioni il linguaggio scientifico che ha permesso di tradurle nei miti che hanno caratterizzato il secolo scorso; e che probabilmente continuano a predominare nel secolo attuale.
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