Bolivia: l’assassinio del processo di cambiamento
Oggi si vota per il primo turno delle presidenziali. La guerra tra Arce e Morales ha dilaniato la sinistra. Evo si appella ad un discutibile voto nullo e si rischia un ballottaggio tra i vecchi arnesi della destra boliviana interessati a svendere il paese alle transnazionali.
di David Lifodi
“La giostra boliviana”: quasi ventidue anni fa, il 19 ottobre 2003, il manifesto titolava così un articolo di Eduardo Galeano sulla rinuncia, e la conseguente, precipitosa, fuga, del presidente Sánchez de Lozada da La Paz.
Oggi, 17 agosto 2025, in Bolivia si vota per il primo turno delle presidenziali e, quella che allora era una giostra, oggi è un rompicapo dai contorni incerti. Nelle ultime settimane prima del voto sono accadute molte cose. A venti giorni dalle elezioni Eva Copa, sindaca di El Alto ed ex figura di spicco del Movimiento al Socialismo (Mas), ha deciso di ritirarsi dalla contesa elettorale dopo aver fatto campagna elettorale per il Movimiento de Renovación Nacional (Morena). La motivazione risiede nelle crescenti minacce ricevute dalla donna.
Dalle elezioni, in precedenza, era stato escluso anche il cosiddetto Milei boliviano, Jaime Dunn, del partito Nueva Generación Patriótica. Restano quindi otto i candidati in corsa per Palacio Quemado: Jorge Quiroga (Libre), Samuel Doria Medina (Unidad), Andrónico Rodríguez (Alianza Popular), Rodrigo Paz Pereira (Partito Democratico Cristiano), Manfred Reyes Villa (Súmate), Eduardo del Castillo (Mas), Pavel Aracena (Acciòn Democrática Nacionalista) e Jhonny Fernández (Unidad Civica Solidaridad).
Di questi, a destra, sono dati per favoriti, secondo i sondaggi, vecchi arnesi quali Jorge Quiroga, Samuel Doria Medina e Manfred Reyes Villa. Se nel campo neoliberista la situazione è confusa, a sinistra regna il caos, soprattutto a seguito del discutibile appello di Evo Morales, escluso dalle elezioni dal Tribunale Supremo Elettorale, per il voto nullo.
In occasione delle celebrazioni per il Bicentenario della Bolivia del 6 agosto scorso, l’ex presidente boliviano ha definito il voto nullo come un atto di “ribellione democratica” poiché, secondo lui, il voto di oggi finirà per dare di nuovo voce al vecchio blocco elitario ed escludere le organizzazioni popolari contrarie alla svendita delle risorse naturali del paese, a partire dal litio. Secondo Evo votare scheda bianca è l’unica possibilità che hanno gli elettori per delegittimare il prossimo inquilino di Palacio Quemado.
Ad alimentare la confusione a sinistra hanno contribuito il riposizionamento di Andrónico Rodríguez (Alianza Popular), presidente del Senato, allontanatosi di recente sia da Morales sia da Arce, e una figura più legata alla burocrazia che ai movimenti sociali quale è il masista Eduardo Del Castillo, ex ministro dell’Interno.
La guerra tra l’arcismo e l’evismo è tale che la sinistra ha finito per essere dilaniata e i movimenti sociali e sindacali profondamente divisi al loro interno. Evo, in seno al campo popolare, sembra riscuotere un seguito assai maggiore di Arce, su cui pende l’accusa di essersi impadronito indebitamente, del simbolo del Mas, e ritiene il voto nullo necessario per denunciare un sistema politico che ha finito per escludere quei settori che si erano affacciati alla politica fin dal suo primo mandato presidenziale.
Al tempo stesso, si tratta di una scommessa fortemente rischiosa che, insieme alla scarsa appetibilità dei due candidati di sinistra, potrebbe spalancare le porte agli esponenti più retrogradi della destra boliviana che, già in passato, ha distrutto il paese. Se si verificherà questa eventualità, i vari Quiroga, Doria Medina o Reyes Villa cancelleranno in un attimo lo Stato plurinazionale della Bolivia, ridisegneranno la politica estera e trasformeranno il territorio boliviano in praterie per le transnazionali interessate al litio, agli idrocarburi e a ristabilire gli accordi con Fondo Monetario internazionale e Banca mondiale.
Jorge Quiroga, il creolo già vicepresidente al tempo di Hugo Banzer e che ha contribuito a far asservire la Bolivia agli Stati Uniti, punta tutto sulle privatizzazioni, Samuel Doria Medina intende riproporre uno dei suoi cavalli di battaglia, i trattati di libero commercio con Usa e Ue e Manfred Reyes Villa, uno dei separatisti dell’Oriente boliviano nei primi anni delle vittorie eviste, tornerà alla carica con i suoi progetti escludenti e razzisti nei confronti degli indigeni. La vittoria di un candidato di destra è altamente probabile proprio perché, aldilà dell’appello di Morales al voto nullo, gli elettori non si sentono rappresentati dai candidati di sinistra e, soprattutto, non comprendono quella che resta una guerra per il potere tra Morales e il presidente uscente Arce, da cui ad uscire sconfitte saranno le classi popolari boliviane.
Tuttavia, al primo turno, difficilmente sarà eletto il presidente. I sondaggi indicano come certo il ballottaggio, previsto per il prossimo 19 ottobre. Attualmente, i favoriti sono proprio i tre candidati di una destra altrettanto frammentata, ma non in guerra tra loro come invece accade sul versante opposto. A Samuel Doria Medina è attribuito il 21,5% delle intenzioni di voto, a Jorge Quiroga il 19,6% e a Manfred Reyes Villa l’8,3% delle preferenze. Uno scenario plausibile potrebbe essere quello di un ballottaggio a destra.
Già a fine 2024, commentando lo scenario che si andava configurando, Raúl Zibechi aveva scritto un articolo dal titolo assai significativo, Bolivia, o las miserias del poder, evidenziando lo sconcerto degli intellettuali della sinistra boliviana e latinoamericana di fronte alla guerra fratricida tra Arce e Morales e ricordando il pensiero critico dello zapatismo sulla conquista del potere come strumento per cambiare radicalmente lo Stato, a cui l’Ezln ha, da sempre, opposto il concetto del cambiare il mondo senza prendere il potere.
Raúl Prada Alcoreza, già membro dell’assemblea costituente tra il 2006 e il 2007, ha definito la crisi tra evismo e arcismo come uno dei principali motivi della distruzione del tessuto sociale delle organizzazioni popolari boliviane, denunciando, al tempo stesso, la disputa tra Evo e Arce come un assassinio del processo di cambiamento.
Il voto di oggi, purtroppo, non sembra fornire una via di fuga ad un elettorato che non vede alcuna via d’uscita e, anzi, vedrà rafforzato il clientelismo elettorale e l’improvvisazione di programmi politici rivolti esclusivamente a compiacere elites e multinazionali. Lo stesso voto nullo, soprattutto in caso di vittoria della destra, certo servirà a delegittimare il nuovo presidente nel caso in cui sia eletto da un numero esiguo di votanti, ma la crisi di rappresentanza nel Mas e nei movimenti sociali vicini non sarà certamente risolta.