Breviario 10 – Una storia d’amore

di Mauro Antonio Miglieruolo (*)

Presi atto che la vicina di casa non era monaca di clausura ma una casalinga – come ce n’erano tante – all’incirca intorno ai quattordici, forse quindici anni. Leggevo non so quale romanzo di fantascienza acquistato sul carrettino collocato nelle vicinanze del cinema Appio, immerso fra le pagine nel solito modo smemorato, coinvolto dai piedi fino alla cima dei capelli (che allora avevo).

Il giorno volgeva al tramonto, il sole illuminava ancora, nonostante fosse reso invisibile dalla linea dei palazzi, sterminata distesa di costruzioni che uccide e caratterizza le città. Eravamo nel momento più bello dell’estate, quando la frescura del Ponentino, ancora libero dalle prigioni delle edificazioni selvagge tra Roma e il mare, iniziava a dare sollievo ai vicoli, alle strade, ai terrazzi.

Seduto in terra sul balconcino posto a metà di via Lavinio, con l’anima viaggiavo dalle parti di Alpha Centauri o più lontano ancora: nelle inviolate distese dei 50 Soli, nella galassia M33 che Van Vogt esplorava per chiunque fosse disponibile a intraprendere insieme a lui il vertiginoso viaggio.

Il rumore di un secchio pieno di panni da stendere poggiato in terra mi costrinse a sollevare lo sguardo dalle pagine, per rendermi conto chi fosse responsabile della profanazione dei miei pensieri. La vecchia della porta accanto, in realtà una cinquantenne di bell’aspetto, si accingeva – operazione ch’era la prima volta che le vedevo fare – a stendere il bucato.

Ho detto cinquanta, ma forse ne aveva quaranta. Data la mia tenera età non ero in grado, per pregiudizio e assenza di elementi certi sul quale fondare un giudizio, di valutare con certezza. Inoltre allora gli anni contavano il doppio di quelli di oggi: raggiunti i 40 nella considerazione di tutti si veniva cestinati, finis vitae.

Lei sbrigò l’incombenza con dita veloci, inaspettatamente abili. Come non avesse fatto altro nella vita.

Non era corpulenta, come la sua età induceva ad aspettarsi. Maestre, mamme, arcigne signore dietro il bancone dei dolci, degli affettati o del bancone del pane, tutte quante unificate dal medesimo destino: i chili di troppo. Si lasciavano andare. Probabilmente anche per aver meno a che fare con mariti che non amavano più.

Lei si muoveva svelta. Era apparentemente ignara di me, che la stavo a guardare, stupito. Ignoro le ragioni di quello stupore come le ragioni per le quali continuai a guardarla. Quasi me l’avesse chiesto. Quasi che il gesto di lasciar cadere il secchio sul balcone costituisse un segnale che in qualche modo interpretavo.

La guardavo in modo inconsueto, come non avrei dovuto. Diversamente da come osservavo tutto ciò che mi circondava, passando a volo radente su tutto, tratteggiando mappe sempre mentali (mai emozionate) degli accadimenti. Tenendo la realtà lontana da me. L’esistenza era una pestifera congerie di trappole, delle quali non volevo sapere nulla. Lei non la guardai con il medesimo spirito ma come avrei voluto essere guardato e guardare le persone a me vicine: amiche, solidali, pronte a offrire aiuto. E se del caso chiederlo.

La guardai con la seria intenzione di capire chi, come, cosa fosse. Eravamo, credo, intorno al 1956. In quattro anni che ero a Roma, riservato e schivo come io ero (e lei era) non avevo avuto occasione di incontrarla; parlo di veri incontri fra persone… se non i secondi necessari, sul pianerottolo, per pronunciare un cortese «buongiorno»; o rispondere con un affannato (avendo salito di corsa le scale) «buonasera».

Non ebbi il tempo di completare l’esame. Il secchio venne svuotato in fretta e la donna tornò dentro, senza voltarsi neanche per un istante per rendersi conto se avessi effettivamente sollevato lo sguardo dal romanzo di Urania appena iniziato. E più ancora per rendersi conto dell’esito di quell’esame. Se avesse lasciato qualcosa nel mio animo; qualcosa di leggibile sul viso.

2

Dopo di allora capitò che il mio prozio o, più spesso, la prozia – sono i miracoli della vita – mi mandassero dalla vicina per assolvere a piccole incombenze. Che lei prima non sollecitava e poi chiese il favore. Portare caffè, zucchero, una bottiglia d’olio, una camicetta stirata e roba simile.

Seguitai a guardarla senza riuscire a vederla. Era impossibile. Il resto del mondo si esponeva alla luce, lei sempre nella penombra di un ingresso nel quale per altro raramente avevo accesso. Conoscevo i suoi lineamenti per averli visti, come ho detto, qualche volta davanti all’ascensore o un paio di volte sul balcone di casa. Dove non poteva nascondersi. Ma in casa faceva a modo suo. Tirava su di sé una specie di lapide di buio e diceva addio alla vita.

Si era chiusa nella tomba, dopo aver sotterrato il marito, morto prematuramente. Per lo stesso motivo aveva lasciato la scuola, l’insegnamento, sembrandole inutile e persino impossibile insegnare qualcosa a qualcuno. Non aveva accesso al più importante insegnamento. Come sottrarsi al dispotismo del dolore.

Poiché le visite ebbero una certa regolarità finì che acquisimmo anche un poco di confidenza. Lasciò entrassi nel sancta sanctorum dell’ingressetto; e mi tenne a discorrere del più, quasi mai del meno. Una volta riuscii a penetrare in camera da letto, per depositarvi un comodino affidato dal falegname alla custodia dei vicini. Lo depositai brancolando quasi nel buio. In camera da letto non era più questione di penombra ma di vera e propria fuga dalla luce.

Sì, ero nella parte più interna della tomba: ricostruzione nel Condominio dello spazio ridotto che ospitava il marito. Non mi parlò mai di lui, né le chiesi. Né aleggiò – ed è veramente singolare – tra noi e questo proprio non riesco a spiegarmelo. A meno che, sin dall’inizio, l’anima sua avesse deciso: quel che doveva si sarebbe verificato, per poi approdare alla conclusione sconclusionata: non venire più

3

Il salto di qualità avvenne nell’unico modo possibile. Con la richiesta di leggere la sua vertiginosa libreria di romanzi sistemata proprio accanto all’ingresso, sulla destra entrando.

Non mi resi conto di quanti fossero, causa la penombra. Anzi, nemmeno che ci fossero. La mia fame di letture intuì ben presto – e poi vide – la possibilità insperata che rappresentavano. Decine e decine di libri, settimane di letture smemorate, sollievo dalla pesantezza del mondo. Non si trattava, ne ero certo, di romanzetti quali quelli che prediligevo, si trattava comunque di libri. Della sacralità dell’atto di leggere. Di leggere e rileggere (non potevo stare un giorno senza la “fuga” rappresentata dai Van Vogt, Sturgeon, Heinlein, Williamson e di tutti gli altri benedettissimi che mi confortavano). Quasi sempre gli stessi libri. Letti e riletti. Non avendo possibilità effettive di procurarmene altri, essendo le uniche entrate quelle in cui, durante fortunati giorni di sole, risparmiavo il costo del biglietto del tram che da piazza dei Re di Roma mi portava in viale Manzoni, alla scuola di avviamento commerciale «Pietro della Valle» (dove ottenni il diploma di Computista Commerciale: credo che nessuno oggi sappia cosa effettivamente sia: nemmeno io saprei spiegare cosa è, dubito persino che il titolo esista ancora). Comunque si trattava di 10 lire all’andata, 20 al ritorno. Risorse limitate, dunque. E lì invece, oceani di possibilità, migliaia di pagine, centinaia di volumi.

Ma prima iniziò l’amicizia. Una sorta di riconoscimento reciproco. Io riconoscendole il generoso atto di liberalità di gratificarmi di un poco d’attenzione; lei rendendosi conto di non aver a che fare con il solito adolescente senza altri interessi che il calcio e le vanterie sulle imprese (presunte) del sabato sera. Capitò chiedesse la mia opinione su quel che accadeva intorno. Fornii una risposta che l’incuriosì. Credo che la domanda riguardasse cosa ne pensavo su certi atteggiamenti in voga. Ad alcune domande risposi. Su altre non ebbi nulla da dire. Sugli spettacoli televisivi, esattamente. Ma sui princìpi risposi, eccome! Avevo le idee abbastanza chiare in merito. Le parlai di lealtà, amicizia, affetto, relazione, rispetto e riservatezza. Tutto quello che, pur cercando con il lanternino, non trovavo nel costume che si andava formando.

La conversazione sui valori non si esaurì in un giorno, ma pur non essendo arrivata a una conclusione arrivò quello in cui si interruppe. Fu quando trovai il coraggio di chiederle un libro in prestito. Credo se lo aspettasse, non era stupida. Tergiversò. Non sapeva se quelle letture erano adatte a un quattordicenne; e nemmeno se avrei tenuto il libro con la cura che riteneva fosse d’obbligo adoperare.

Chiesi di essere messo alla prova. Insistei. Scelse lei stesso il libro. Raccomandando cura e considerazione. Glielo riportai il giorno seguente, nello stesso stato in cui me lo aveva dato.

«Lo ha già letto?» meravigliò. Rigirandolo tra le mani. Non le sembrava possibile. E io gliene snocciolai il contenuto, con parole efficacemente brevi, fornite dalla freschezza della lettura.

Restò silenziosa a lungo, fissando il libro forse per non guardare me. Cercando nello stato del fascicolo l’ispirazione su che cosa dovesse pensare e quel che fosse opportuno fare. Ritengo che in qualche parte del volume – sulla costa, sulla copertina o nelle pagine che aprì a caso – dovette trovarmi. Mi trovò comunque nello stato di integrità complessiva del volumetto. Lo confesso: a quell’età e per lungo tempo sui libri nutrii un amore senza limiti. Che propriamente definirei: feticismo.

«Va bene» concluse. Annuendo, quasi inseguendo un segreto pensiero. Non è difficile immaginare che molto più delle condizioni nelle quali avevo restituito il libro contasse il rispetto della parola data. Nonché la lealtà con la quale mi comportavo.

4

Da quel giorno fu tutto un giornaliero andirivieni di libri, sui quali lei aveva concesso libertà di scelta. Ne avrei volentieri portati via tre o quattro insieme ma lei era inflessibile: uno alla volta, ogni volta parlandone, prima e dopo.

Ne rammento uno, che suscitò i miei entusiasmi: «Il Padrone delle Ferriere». Anni dopo vidi un filmato ispirato al romanzo. Niente di che. Al contrario del libro che a varie riprese mi feci prestare per poterlo rileggere. Lei, sorridendo (non sembra vero), lo concedeva.

«Le piacciono gli amori impossibili» m’interrogò, affermando, l’ultima volta che lo ebbi in mano.

«Mi piacciono le persone che sanno viverli con entusiasmo – spiegai – Coloro che per amore sanno vivere, non morire».

Troppo tardi mi accorsi della gaffe. Avrei voluto tornare indietro, cancellare quel che avevo detto. Istintivamente andai avanti invece. Mi salvai citando nomi e cognomi: da Giulietta e Romeo a Lancillotto e Ginevra. Ma lei era impallidita. Del pallore non mi accorsi, ma dalla postura del corpo lo dedussi. Diede un passo indietro. E ancora uno per aprire la porta socchiusa. Mi alzai e me ne andai, senza libro, con le mani in mano. A testa bassa.

5

Per alcuni mesi non successe nulla. O meglio, credo succedette tutto quello che doveva succedere. La maturazione che portò alla fine degli eventi.

Un pomeriggio le persiane del balconcino accanto si aprirono e la vicina tornò ad affacciarsi. Dalla volta della stenditura dei panni non lo aveva più fatto.

«Non l’ho più vista, è stato male, per caso?».

«No, no, è che temevo di disturbare…».

«Si sente tanto importante, da non poter chiedere un libro senza provocare subbuglio?».

«Lei è una persona tanto discreta e io invece tanto rozzo da provarne vergogna».

Rispose con un sorriso. Ancora uno. Discreto quanto inusitato.

«Venga più tardi, allora. Venga quando crede, ma venga. Altrimenti la libreria si offende».

Dopo cinque minuti ero lì, a pigiare il campanello.

«Huuuu! Quanta fretta» commentò aprendo.

Entrando notai che la solita penombra era stata attenuata dalla luce di un abat-jour che, piccolo com’era l’ambiente, lo illuminava a giorno. Illuminava anche la sua figura. La notai per la prima volta. La postura nobile, schiena dritta, la persona sicura di sé. Regale nella sua compostezza. Sulle labbra un filo di rossetto. La trovai mirabile. Il cuore accelerò i battiti.

Che divennero tumulto nel momento – un momento magico – in cui invece di lasciare la porta socchiusa, come soleva, spinse fino a far scattare la serratura. Chiuso il battente. Poggiò poi la testa sul legno e sembrò astrarsi dal presente.

Mi accorsi che tremava. Tremavo anche io. La gola secca, le forze che rifluivano dal corpo. Volli dire qualcosa, non trovai parole. A quel punto non servivano. Neanche lei ne aveva. Stava lì, immobile, sola, regina abbandonata dai suoi sudditi. Dal suo antico suddito… e il nuovo che non si decideva a inchinarsi!

La porta del terzo appartamento del piano si aprì e si chiuse, clamorosamente. La vicina sussultò. Io no. Mi limitai a ritrovare l’uso della parola. A evocare un fantasma. Uno terribile. Il fantasma della gioventù.

«Deve essere Carla – commentai – Fa sempre così».

«Sì, certo, Carla… una brava ragazza».

«Non so perché ma mi ha in antipatia…».

«Davvero?».

«Mi insulta, mi aggredisce, alza persino le mani, senza ragione».

Sollevò un sopracciglio.

«Senza ragione?».

Ripetei con fermezza: «Senza ragione». Fissandola negli occhi.

Mi fissò negli occhi. Mi accorsi che non tremava più. Invece io peggio di prima.

«Forse…» articolò. Rimase immobile su quel forse, riflettendo. Sui quindici anni di Carla, probabilmente. O sui quattordici che attraversavo?

«Forse è per qualcosa che NON le ha fatto».

Lo disse regalandomi un terzo sorriso. Un sorriso che non era un sorriso. Un sorriso che era un’amara presa d’atto della realtà.

«Forse è per qualcosa che dovrebbe decidersi a fare…».

Desiderai fuggire, mettermi a piangere, inginocchiarmi e chiedere pietà.

Non me ne diede il tempo. Riaprì il battente.

«Se ne vada» pronunciò con voce dura, che minacciava di diventare sgradevole:«e non torni più».

Cosa le avevo fatto? Nulla. Forse proprio per quello. Per non aver detto nulla dopo aver fatto nulla.

Me ne andai e non tornai più.

6

Morì qualche settimana dopo. La trovò il padre di Carla, la mattina presto, uscendo per andare al lavoro. Si accorse della porta socchiusa. Chiamò. Inutilmente. Tornò a chiamare affacciandosi all’uscio socchiuso. Non ricevendo risposta si rivolse ai carabinieri.

La trovarono pettinata e raccolta in ordine sul letto. Sopra le coperte. Le mani giunte sul petto.

Un attacco di cuore, si disse.

Sì certo, un attacco di cuore. Un continuo attacco di cuore.

Tutta una vita di continui attacchi di cuore.

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(*) Avete presente quel vecchio film «Cinque pezzi facili»? Ecco, il nostro Mauro Antonio ci ha regalato… 10 pezzi facili. Evviva. Uno ogni sabato. E se poi saranno di più chi si lamenterà potrebbe ricevere a casa l’Opera Omnia di Veltroni, così si impara.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

2 commenti

  • Mariano Rampini

    Restare impassibili dopo aver letto queste righe è impresa da monaci zen. Di quelli veri. Quelli che sono riusciti a sollevarsi, levitando, sopra le miserie e le gioie del samsara. Non sono capace di astrarmi dalle cose. Anzi, lascio che il cuore continui ad attaccarmi disperato cercando poi di dar voce a quei continui richiami alla fame di vita, di esistenza. Gli stessi, forse?, chissà?, che minarono con la loro feroce costanza il cuore della maestra. Insomma il cuore – non il muscolo ma il suo concetto astratto – non fa che instillare il dubbio sulle nostre scelte. Ho fatto questo. Ma sarà giusto? È la decisione che mi condurrà per la strada che vorrei percorrere? Così facendo, giorno dopo giorno, si trasforma in una sorta di meccanismo abrasivo che, pian piano, lima la nostra vita. Fino all’ultimo battito. All’ultimo attacco alla nostra coscienza… Grazie Mauro, come al solito!!!

  • Un commento che conforta, del quale avevo bisogno. Non si scrivono racconti così senza paura di rompersi l’osso del collo. Sembra non me lo sia rotto. Per questa volta, almeno per questa volta, è andata bene.
    Grazie

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