Carceri: incubo (la strage di Modena) e piccole utopie

il dossier del «Comitato Giustizia e Verità sulla strage del Sant’Anna di Modena». A seguire una proposta di Maurizio Portaluri e Vito Totire

8 marzo 2020 – È inutile che vivi fuori se muori dentro

Dossier sulla strage al carcere sant’Anna-

Introduzione

L’8 marzo del 2020 è una domenica, l’aria è primaverile come la stagione alle porte che nessuno si godrà. Il fumo che si alza da quel lembo di terra dietro alla Sacca è nero e carico di presagi. Il carcere di Sant’Anna è in rivolta. È una tragedia annunciata. Una tragedia che si compirà sotto gli occhi di tutti e nel più vile tra i silenzi. Un silenzio che solo l’opportunismo più provinciale è in grado di partorire e Modena, nonostante tutta la sua ostentata vocazione internazionale votata al turismo e all’ “eccellenza” manifatturiera, quello rimane: una città di provincia. Sono giorni particolari, siamo agli inizi della pandemia, le scuole sono già chiuse da due settimane in alcune regioni, la Lombardia e altre 14 province stanno per diventare zona arancionee la sera del 9 marzo il Presidente del Consiglio Conte annuncerà il lockdown. Nei mesi successivi, da più parti, verrà tirata in ballo anche la democrazia, o meglio la sua assenza, per via delle forti limitazioni imposte alla libertà personale inflitte a colpi di decreti. Nell’immaginario medio italiano il cittadino verrà confinato agli “arresti domiciliari”, questo l’infelicissimo paragone che andrà per la maggiore in quei mesi. Eppure, alle persone realmente private della libertà nessuno o quasi ha badato e, forse, tutti quei bei discorsi riguardanti la “democrazia ferita” avrebbero potuto trovare facilmente riparo proprio in quanto accaduto quei primi giorni di marzo dentro a quelle celle come avvisaglie di incubi passati tornati a declinarsi brutalmente nel presente. C’è chi ha sostenuto che quanto avvenuto a marzo nelle carceri sia una sorta di “rimosso”, di delitto fondativo del “nuovo ordine” pandemico in Italia che deve rimanere segreto. E per dare un’idea circa la dimensione di questo “rimosso” ci basta dire che a distanza di un anno esatto da quella strage, non è ancora chiaro e definitivo il numero delle vittime. Sulla stampa si leggono ancora cifre altalenanti, a volte i morti sono 13, a volte 14, a seconda di chi scrive e del testo che si cita perché di informazioni ufficiali su questa storia ne sono uscite davvero poche. Nove a Modena, uno a Bologna e tre o quattro a Rieti. I nomi stessi delle vittime sono emersi nonostante il silenzio più totale del D.A.P. e del Ministero di Grazia e Giustizia, raccolti e pubblicati da volontari, associazioni e giornalisti che si occupano di carceri e non di certo da qualche autorità statuale. Anche questi piccoli dettagli dovrebbero già essere eloquenti e far riflettere oltre che definire i contorni di quel “rimosso” che è materia di questo dossier. La pandemia è globale e nelle carceri di tutto il mondo si accendono rivolte legate agli effetti devastanti che il Covid-19 potrebbe avere su prigioni sovraffollate e con scarsissima assistenza medica. Migliaia di detenuti in tutto il pianeta vengono rilasciati per evitare un’inutile strage, anche paesi come la Turchia (90.000) e l’Iran (70.000) lo fanno, in Italia invece non se ne parla nemmeno e la protesta lascia sul campo, in due soli giorni, 13/14 morti. I media del paese ripetono in coro che dietro alla rivolta ci sarebbe una “regia esterna” (anarchici o mafiosi a seconda della testata) come se quanto avviene contemporaneamente nel resto del mondo non avesse alcuna rilevanza. In fin dei conti, anche l’Italia stessa, nonostante il suo “ingegno” e le sue “eccellenze” “riconosciute in tutto il mondo” è un paese provinciale, che non ha esitato un solo istante a mostrare il pugno duroe a far scattare rappresaglie verso persone, private della propria libertà, che in fin dei conti domandavano soltanto attenzione sanitaria.

L’8 marzo 2020, fuori dal carcere di Sant’Anna, i familiari dei detenuti accorsi immediatamente sul posto per capire cosa stesse succedendo, dopo aver visto una fumana nera salire e macchiare il cielo della città, ripetevano proprio questo. Perché è vero, era in corso una rivolta, una dura rivolta da parte della popolazione carceraria, ma sono stati pochi i media che hanno dato voce alle motivazioni che stavano alla base di quanto stava accadendo, eppure la piccola folla che si era precipitata angosciata nel piazzale antistante al Sant’Anna le conosceva benissimo. Chiunque poteva dirti che la sospensione dei dei colloqui con i familiari per via del Covid, e l’interruzione di tutte le attività con educatori e psicologi poteva essere interpretata facilmente come la classica goccia che faceva traboccare il vaso. Nessuno, in questa situazione di emergenza, si è reso conto di quanto questi provvedimenti abbiano pesato sulla condizione già difficilissima vissuta dai detenuti. Sono le voci dei familiari dei detenuti presenti nel piazzale a raccontare le condizioni dei propri cari rinchiusi allinterno del penitenziario. Solo tre giorni prima della rivolta, infatti, il 5 marzo, il Ministero della Giustizia aveva proibito le visite ai detenuti a causa del coronavirus mentre il giorno dopo, il 6 marzo, veniva trovato il primo positivo tra le fila della polizia penitenziaria. Quella domenica pomeriggio intanto scorre in un clima surreale. Come documenterà il giorno successivo il Carlino, fuori dal Sant’Anna si ammassano i reparti antisommossa arrivati da Bologna e Milano, poi i vigili del fuoco con 8 automezzi, la polizia municipale, la protezione civile e i militari, in un dispiegamento di forze imponente ma che non è in grado di rispondere anche solo una volta alle legittime domande dei familiari che si stanno interrogando sullo stato di salute dei loro cari, se sono presenti casi di contagio o se qualcuno è rimasto ferito durante la rivolta. Solo verso le 17 unagente della polizia penitenziaria prova a rassicurare le famiglie:La situazione si sta stabilizzando, non ci sono feriti. Il fumo che vedete proviene dal tetto e non dalle celle che non sono state intaccate durante la rivolta. Dovete stare calmi però. Se urlate rischiate di fomentare ancora di più i detenuti presenti in struttura. Eppure i familiari sono arrabbiati, non si fidano, e la loro rabbia non si placa di certo verso sera quando, all’arrivo di decine di pullman della polizia penitenziaria che entrano allinterno del carcere sfrecciando a tutta velocità fra la folla (donna accusa anche un malore dopo aver rischiato di essere investita), osservano impotenti la scena del pestaggio di alcuni detenuti già ammanettati mentre vengono condotti sui dei pullman che li trasferiranno in altre carceri. Una vista ben presto coperta da altri pullman posizionati abilmente di fronte all’ingresso in modo tale da impedire lo sguardo alle persone all’esterno. Il giorno successivo, sulla stampa cittadina, si poteva leggere invece di eroi, di agenti feritie di fobia” del virus, ma, soprattutto, si poteva già leggere la causa dei decessi che di lì a poco sarebbero saliti di ora in ora; vale a dire quella overdose, che si ripeterà, nei giorni successivi, di telegiornale in telegiornale, di articolo in articolo, di bocca in bocca, trasformandosi in verità già acquisita e percepita ancora prima dell’informativa di tre giorni dopo, l’11 marzo, con la quale il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, riferirà della situazione in aula semivuota del Senato. Ne riportiamo alcuni stralci a distanza di un anno: Permettetemi innanzitutto di ringraziare la Polizia penitenziaria e tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria (Applausi), perché ancora una volta stanno dimostrando professionalità, senso dello Stato e coraggio nell’affrontare, mettendo a rischio la propria incolumità, situazioni molto difficili e tese, in cui ciò che fa la differenza è spesso la capacità di mantenere i nervi saldi, la lucidità e l’equilibrio nell’intuire e scegliere in pochi istanti la linea di azione migliore per riportare tutto alla legalità. Mi piace sottolineare che in tutti i casi più gravi le istituzioni si sono dimostrate compatte: magistrati, prefetti, questori e tutte le Forze dell’ordine sono intervenuti senza esitare, rendendo ancora più determinato il volto dello Stato di fronte agli atti delinquenziali che si stavano consumando. Vorrei soffermarmi un attimo su questo punto. Fuori dalla legalità e addirittura nella violenza non si può parlare di protesta; si deve parlare semplicemente di atti criminali. Lo dico anche per sottolineare che le immagini dei disordini e gli episodi più gravi sono ascrivibili a una ristretta parte dei detenuti. La maggior parte di essi, infatti, ha manifestato la propria sofferenza e le proprie paure con responsabilità e senza ricorrere alla violenza. [] Il bilancio complessivo di queste rivolte è di oltre 40 feriti della polizia penitenziaria, a cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di pronta guarigione, e purtroppo di 12 morti tra i detenuti, per cause che, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini.Dodici morti dunque, per lo più riconducibili all’abuso di sostanzecon quella formulaper lo più”, che già allora, a tre giorni dalla strage, lasciava poco spazio ai dubbi. E in città le cose non vanno affatto meglio. Nessuno parla, nemmeno l’ultimo dei consiglieri comunali oserà rompere la cappa di silenzio. Solo verso la serata di lunedì (9), quando il conto delle vittime era già salito a sei, il sindaco di Modena, Giancarlo Muzzarelli, si degnerà di commentare laccaduto, esprimendo un’immediata solidarietà alle Forze dellordine e ammonendo: chi fa polemiche non dimostra senso dello Stato”. In città regna un silenzio che assume su di se tutte le tonalità più cupe dellinquietudine. Dai giornali si apprende che cinque detenuti sono morti a Modena, mentre per altri quattro lagonia si sarebbe protratta per ore, durante il loro trasferimento nelle carceri di Parma, Alessandria, Trento ed Ascoli. Di questi ultimi si occuperanno dunque le Procure delle rispettive città. Sempre sui giornali escono i primi nomi delle vittime, si parla di overdose da stupefacentiper due detenuti, di cause ancora da chiarire per un terzo detenuto ritrovato cianotico, di un generico attacco cardiacoper un quarto mentre il quinto non viene nemmeno menzionato. Sempre dalle pagine dei giornali, il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio, annuncia che l’intenzione della Procura è di fare immediatamente luce sui decessi; successivamente si indagherà anche sulla rivolta e i danni che ha provocato.Si indagherà per omicidio colposo «contro ignoti» al fine di avviare le prime autopsie sui cadaveri. Il silenzio della città è però eloquente già di suo e se qualcuno delle istituzioni apre bocca, lo fa solo per scagliarsi addosso a dei volantini e a delle scritte contro il carcere apparsi sui muri della città, come fa il sindaco Muzzarelli per, a suo dire, restituire decoro e dignità alla città”. Dignità della città che, a quanto pare, è stata intaccata più da volantini che da una strage, dopotutto per il primo cittadino democratico di Modena l’urgenza è quella del ripristino del carcere (semidistrutto dalle proteste) al più presto per una questione di sicurezza per la città e per il territorio.

A rompere la cappa di silenzio, compatta come un fascio littorio sarà, inaspettatamente, l’11 marzo la Camera Penale di Modena CarlAlberto Perroux la quale, in un comunicato che denunciava la grave assenza della politica, denuncerà: Le uniche informazioni che abbiamo ottenuto su quei fatti sono quelle fornite dalla Polizia Penitenziaria, giacché l’Autorità Giudiziaria (requirente e di sorveglianza) non ha inteso divulgare notizie di dettaglio sullo svolgersi degli accertamenti. I morti nelle rivolte del carcere di Modena sono saliti a 9, un numero enorme che lascia sgomenti, ancor di più per il fatto che risulta difficile comprendere come molti di loro siano deceduti nel corso della traduzione o presso listituto di destinazione. Anche il Gruppo Carcere-Città, prenderà parola, il giorno dopo, con un comunicato stampa ad hoc che non lascia spazio ai dubbi circa le condizioni della struttura alla vigilia della pandemia: I dati sono allarmanti: con una capienza regolamentare di 369 posti, al 29 febbraio 2020 erano presenti a Modena 562 detenuti e, al 6 febbraio, quattro funzionari della professionalità giuridico-pedagogica e una sola esperta ex art. 80 O.P. per 38 ore mensili. A questo si sommano le responsabilità di chi ostacola la fruizione di misure alternative al carcere per chi ne ha i requisiti. I primi nomi delle vittime invece, si sapranno solo 10 giorni dopo, pubblicati sul Corriere della Sera da Luigi Ferrarella. Poi più nulla. I primi di aprile, stando a quello che si scoprirà successivamente grazie a un telefonata registrata e consegnata a giornali e mezzi d’informazione, 300 agenti della penitenziaria, provenienti dall’esterno entrano a volto coperto dal casco, da foulard o mascherine, rendendone difficile lidentificazione video nelle celle del carcere di Santa Maria Capua Vetere per una perquisizione straordinariache sfocerà in episodi di inaudita violenza; calci, pugni, manganellate e abusi di ogni tipo, perfino su un detenuto disabile. Le testimonianze e le denunce dei detenuti sarebbero ora confermate dai video agli atti dellinchiesta, che mostrerebbero immagini di reclusi inginocchiati, trascinati e picchiati da più poliziotti contemporaneamente. Anche in questo caso dal Ministero faranno sapere solamente che gli agenti coinvolti rimarranno al loro posto nonostante i 44 indagati mentre, in una nota del 6 aprile, il Sottosegretario Vittorio Ferraresi faceva sapere che si era trattato solamente di una doverosa azione di ripristino della legalità” confermando ancora una volta il pugno durodel Ministero guidato da Alfonso Bonafede. Le parole del Sottosegretario Vittorio Ferraresi: «è stata disposta lesecuzione di una perquisizione straordinaria allinterno del reparto Nilo. Si è trattato di una doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità dellintero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dellistituto, anche unaliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi». A maggio, invece, la Procura di Modena farà sapere che in base alle risultanze autoptiche i decessi di cinque dei nove morti del carcere di Modena (tutti quelli trovati in loco, gli altri quattro moriranno durante il trasferimento nelle carceri di altre città) erano tutti attribuibili a overdose di metadone e psicofarmaci. Punto. Contemporaneamente il can-can mediatico è tutto rivolto al finto scoop di Repubblica sui boss mafiosiai domiciliari rispetto ad un possibile provvedimento svuota carcerilegato alla pandemia. Ad agosto la cortina fumogena del silenzio verrà squarciata timidamente dalla pubblicazione di lettere anonime, di due testimoni che raccontano di pestaggi nel carcere di Modena durante la rivolta. Nelle due lettere pubblicate da AGI-agenzia Italia, dalle giornaliste Manuela DAlessandro e Lorenza Pleuteri, le quali, a loro volta, verranno successivamente interrogate dalla Procura di Modena come persone informate dei fatti, si parla apertamente di pestaggi come per Santa Maria Capua Vetere: Ci hanno messo in una saletta dove non cerano le telecamere. Amatavano (ammazzavano?, ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a unaltra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dellordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non lha mantenuta.” Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa. E anche qua – dice – veniva la squadra. Come aprivi bocca per chiedere qualcosa, prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce. Il secondo detenuto conferma che Sasà stava malissimo e sul bus lo hanno picchiato, quando è arrivato non riusciva a camminare. “Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato.”Passano altri mesi e il silenzio intorno alle 13/14 vittime di marzo prosegue la sua azione. Nel paese non ci si interroga affatto su quei morti né su quanto accaduto mentre in città, in molti, ignorano persino che sia successo. Il 7 novembre in Piazza Grande a Modena si tiene una prima iniziativa pubblica intitolata Dietro le sbarre: testimonianze e riflessioni sul carcere, organizzata dal Consiglio Popolare proprio per cercare di accendere i riflettori su quanto successo in città solo 9 mesi prima, con 9 morti transitati nella più totale indifferenza di una città e di un paese ormai votati all’apatia. Quel giorno, in piazza, dopo aver letto una lettera dal carcere di Torino di Dana Lauriola, attivista NoTav, condannata a due anni di reclusione solo per aver parlato al megafono, e aver ascoltato in collegamento telefonico le due giornaliste che per prime avevano pubblicato le lettere anonime denuncianti i pestaggi, si ascolterà la testimonianza di un ex detenuto del carcere di Modena, il quale ribadirà come la richiesta principale dei detenuti, in quel tragico 8 marzo, fosse una richiesta sanitaria: “Modena era per me un concentrato di violenza da parte dello Stato sulla pelle dei detenuti. Soltanto che a marzo è successo qualcosa che andava ben oltre. [] La sanità era un punto fermo delle loro richieste, era uno dei messaggi della rivolta. Questo è un punto fondamentale da dire e da far comprendere alle persone: la sanità. Può essere che qualche detenuto abbia abusato di farmaci, non dico di no, ma è normale quando educhi le persone per anni alla tossicodipendenza. Ovvio, che cosa cerca una persona che sta male e che ha accesso ai farmaci, che gli somministrano ogni giorno, più volte al giorno senza problemi, come fossero biberon? Può darsi che possa essere così. Così come sappiamo che i carabinieri sono andati sul parapetto del carcere e hanno sparato, questa è la realtà dei fatti. Quando non si sa chi di preciso della polizia penitenziaria o dei carabinieri sono entrati dentro, il primo che hanno avuto per le mani lo hanno ammazzato di botte davanti a tutti e hanno detto Adesso vi facciamo questo”. C’è gente a cui sono arrivati i proiettili vicino alla testa ed è solo per miracolo che non hanno preso il piombo in testa o in altre parti del corpo.”

Il mese successivo, a dicembre, i pestaggi già denunciati dai racconti anonimi affidati a delle lettere, diventano ufficiali con cinque detenuti che trovano il coraggio e firmano un esposto alla Procura di Ancona per i pestaggi, gli spari, le torture e i soccorsi negati a Salvatore Piscitelli (Sasà) una delle nove vittime di Modena, deceduto nel carcere di Ancona. I cinque denuncianti (tutte persone che non si potevano né vedere né incontrare per mettersi d’accordo) confermano quanto già raccontato sostanzialmente ad agosto tramite lettera dagli altri due altri detenuti, ossia pestaggi di massa, di mancati soccorsi e di spari ad altezza uomo. Il 10 dicembre tutti e cinque vengono riportati nel carcere di Modena per essere interrogati dai Pm una settimana dopo. Il carcere di Modena li accogliein regime d’isolamento sanitario, in celle con i vetri delle finestre rotti (a dicembre) e consegnando loro coperte bagnate. Dopo gli interrogatori i 5 vengono nuovamente trasferiti, verso altrettante destinazioni. Questa volta escono un paio di articoli sulla stampa locale, e anche qualche risonanza a livello nazionale ma poco più. Il D.A.P. non commenta, la Procura di Modena, sempre per bocca del procuratore Di Giorgio non si pronuncia se non dietro un neutro si faranno i necessari approfondimenti e ribadendo, ancora una volta, che le autopsie delle quali non si sa ancora nulla confermerebbero la morte per overdose anche per Piscitelli come per le altre 8, 12 o 13 vittime.

Quello che questo dossier cercherà di raccogliere, nelle pagine seguenti, oltre ad alcuni approfondimenti, è quanto descritto sommariamente in questa introduzione, ciò che pubblicamente è stato detto e scritto sulla strage dell’8 marzo nel carcere di Modena oltre alle doverose domande che questa vicenda tragica porta inevitabilmente con sé. Perché quanto accaduto nel carcere di Modena e il silenzio che l’ha circondato è un messaggio che non può essere ignorato tanto facilmente. Perché se è vero che lo Stato in quei giorni, ha pestato, sparato, torturato e omesso di soccorrere persone detenute considerandole alla stregua della monnezza o dei tossici buoni a nulla (nell’indifferenza totale dell’opinione pubblica, bisogna dirlo). Non è detto che un domani non sia disponibile ad allargare l’utilizzo di quei mezzi anche ad altre fette della società come ci ricorda il famosissimo sermone di Martin Niemöller:

Prima vennero…

marzo-il fatto

Articoli:

Cronache epidemiche

di Giovanni Iozzoli-carmillaonline

Si scorgeva in lontananza una striscia di fumo nera…

Coronavirus, rivolta in carcere a Modena: cinque detenuti morti, uno è in fin di vita.

Ultima ora: sono cinque i detenuti morti nella rivolta del carcere di Modena, un altro è in fin di vita. Sarebbero tutti decessi per overdose. Dopo avere tentato una evasione di massa, i carcerati hanno assaltato linfermeria e fatto razzia di metadone e altri farmaci. La casa circondariale è stata messa a ferro e fuoco ed è devastata. Fonti dellamministrazione penitenziaria confermano come due decessi sarebbero riconducibili alluso di stupefacenti, uno morto per abuso di sostanze oppioidi, laltro di benzodiazepine, mentre un altro detenuto è stato rinvenuto in stato cianotico, ma non si conoscono le cause del decesso. Un incendio è scoppiato verso le 14 in carcere, al SantAnna, a seguito di una rivolta, definita molto “violenta”. Il fumo si vedeva comunque uscire dalla struttura detentiva, a bruciare sono stati alcuni materassi. Dalle prime informazioni molti sarebbero i detenuti coinvolti e i danni alla struttura. Alla base della rivolta la protesta dei detenuti per questioni relative alla protezione per il Coronavirus, e molti avrebbero tentato la fuga senza riuscirci. Tutta la popolazione carceraria è stata coinvolti nella vicenda. A scatenare le proteste anche la sospensione delle visite. Ci sono persone rimaste ferite, un agente della penitenziaria e sette sanitari (impiegati nellassistenza ai detenuti) finiti in ospedale ma con lesioni lievi, sul posto il 118. Il contenimento della situazione ha richiesto ore, enorme lo spiegamento delle forze dellordine impiegatoSono infatti ancora barricati dentro il carcere i detenuti che hanno fatto scoppiare la rivolta e tentato una fuga definita di massa. Il personale del carcere, una ventina di persone, fra poliziotti e sanitari, sono tutti usciti. Davanti al carcere le forze di polizia schierate. Alcuni detenuti si sono barricati dietro la portineria. Sul posto anche il prefetto di Modena Pierluigi Faloni. Si va verso un trasferimento dei detenuti, dopo la conta dei danni, perchè la struttura potrebbe non essere più idonea. (Modena in diretta 9 marzo 2020)

Vignetta:

La stampa locale ad un giorno dalla strage ha già tirato le somme, attribuendo come causa delle morti l’overdose da metadone. Senza prendere in considerazione le cause che hanno portato alla rivolta.

Intervista:

L’otto marzo siamo arrivati in 3 davanti ai cancelli del carcere di Modena intorno alle 14:30. Una mezz’ora prima ci trovavamo in centro per alcuni lavori al Lab. Scossa e, sentendo da qualche ora il suono di un’elicottero abbiamo iniziato a cercare subito se dai social si poteva capirne il motivo, nelle ore precedenti avevamo già visto le notizie di rivolte in più penitenziari e dopo una rapida ricerca troviamo un’agenzia dell’ansa (se ben ricordo) che ci conferma che anche nel carcere di Modena è in corso una rivolta. Partiamo immediatamente. All’arrivo davanti al carcere è evidente l’imponente schieramento di forze dell’ordine, con già numerosi blindati sia dentro al perimetro del carcere che all’esterno, il dispiegamento continuerà ad aumentare mano man durante tutta la giornata. Sul posto troviamo numerosi familiari di detenuti che già dal mattino presto avevano avuto notizia di una protesta in corso e si erano precipitati davanti alla struttura per sincerarsi delle condizioni dei propri cari. Una breve parentesi senza la quale non potrei proseguire il racconto: davanti al carcere in quelle ore si parla anche delle motivazioni della rivolta: si conoscono e sono piuttosto chiare. Che il virus sia un pericolo si è capito, in altri paesi con carceri pure non sovraffollate come quelle italiane, proprio in nome della sicurezza sanitaria si stanno facendo uscire molti detenuti. Questo va specificato anche perchè nei giorni immediatamente successivi in numerose dichiarazioni istituzionali si parlerà dei danni alle strutture delle 14 morti (quasi come danni collaterali) senza mai accennare ai disagi del covid, ai contagi che iniziavano a confermarsi anche all’interno delle strutture e soprattutto alle richieste di indulto che già da giorni venivano richieste da quella che nei fatti è stata la prima mobilitazione nel nostro paese che in un modo o nell’altro rivendicava chiaramente alcune necessità sociali nell’affrontare la pandemia e il lockdown: in primo luogo emergeva già con chiarezza, come nelle giornate successive nelle carceri di tutta Italia, lo strumento dell’amnistia come risposta immediata all’emergenza. un famigliare accennerà anche l’analisi a caldo Qua siamo in Emilia e vogliono dimostrare efficienza, gli stan facendo massacrare per dare un monito a tutti gli altri detenuti Il giorno seguente le voci della politica modenese erano unitamente hanno ringraziato gli agenti coinvolti per il celere ripristino dell’ordine in un momento difficile e augurato alla struttura carceraria una pronta guarigione e un rientro in funzione il prima possibile. Torniamo alla cronaca. Da ore non viene fornita ad alcun parente alcuna informazione, l’unico modo per capire cosa succede è la visibile tensione della celere, il fumo che si alza da due differenti parti della struttura e le urla dall’interno. C’è chi dice che durante la mattinata si sono sentiti rumori di spari. La tensione aumenta anche nel parcheggio del carcere, col passare delle ore si susseguono le ambulanze in uscita e in entrata e alle continue domande rivolte alle guardie al cancello la risposta è sempre e solo che “è tutto sotto controllomentre è evidente il contrario. Mentre i familiari continuano a chiedere di avere informazioni chiare dalla direttrice della struttura dallo smartphone trovo la notizia dell’ansa che al carcere di Modena c’è stato un decesso, ne parlo con le persone intorno, cerchiamo insieme di fare pressione, ancora nulla. Il periodico aggiornamentoda parte di alcune guardie continua a ripetersi e acquista mano a mano sempre più l’aspetto di una presa in giro. A quest’ora del pomeriggio tutti noi presenti sappiamo che una persona è morta, non se ne conosce il motivo e nessuno sa se il proprio/i propri cari sono in salute. Più tardi anche la direttrice uscirà dal cancello ma ripetendo solo le solite frasi di rito: certamente i vostri parenti stanno bene, vi daremo informazioni al più presto, è tutto sotto controllo, ecc.. Pochi minuti dopo si alzerà una nuova colonna di fumo dalla sezione femminile. Il pomeriggio prosegue nello stesso modo, via vai di blindati della celere e dalle agenzie di stampa la conta dei morti aumenta. Periodicamente qualche detenuto viene scortatoin diversi casi sanguinante nell’edificio laterale dal quale poi inizieranno a partire pullman e blindati della penitenziaria per i trasferimenti, quasi tutti i veicoli si esibiranno in parziali caroselli sfiorando il nutrito gruppo di persone nel parcheggio, una signora verrà urtata a una spalla e avrà un mancamento. Nel tardo pomeriggio ci dividiamo e una parte di noi (dettaglio che dimenticavo: per noi” intendo gli amici e i familiari presenti e i/le pochissim* compagn* presenti, nella giornata del 8 marzo davanti al carcere c’erano in un tutto una cinquantina di persone) cerca di comunicare con qualcuno all’interno spostandosi nei campi a fianco del carcere. Si riesce a urlare con un detenuto alla finestra dell’ultimo piano che racconta: noi ora siamo ancora qui ma sembra che tutti gli altri li abbiano presi e massacrati, se riuscite chiamate i giornali e dite che stanno facendo un massacro”. Continua la pressione e il tentativo di documentare quanto possibile, è ormai sera quando si vede il primo sacco da morto che viene appoggiato nel parcheggio interno ormai illuminato dai fari della struttura. Nelle ore seguenti abbiamo potuto vederne appoggiare a fianco altri due prima che la visuale venisse coperta da teli. Quello che ormai è diventato un presidio fisso davanti alla struttura proseguirà senza soste per tutta la settimana seguente mentre, in molti dei presenti nei giorni successivi avranno la possibilità di sapere dove fossero stati trasferiti i propri cari, in pochi avranno la possibilità di comunicarci direttamente per diverse settimane. Intanto continueranno a le proteste e le rivolte in gran parte del paese con le medesime richieste. In città, con l’aggravarsi della pandemia e i disagi del lockdown calerà il silenzio sulla vicenda per mesi e il carcere riprenderà piano piano il proprio funzionamento, solo dopo mesi (quanti?) due detenuti trasferiti al carcere di Ascoli tramite una lettera testimonieranno parte dei pestaggi avvenuti all’interno contraddicendo la versione ufficialeche negava violenze e lesioni già dalle prime ore.

A marzo il consiglio popolare non esisteva ancora; alcuni compagni sono stati contattati da familiari di detenuti a Modena durante la rivolta. Cercavano aiuto perché a distanza di 4 giorni, non avevano ancora avuto notizie sulle condizioni dei loro parenti. In maniera del tutto spontanea chi ha potuto si è messo a disposizione. Non sapevano se fossero vivi o morti, quali fossero le loro condizioni di salute, e se fossero stati trasferiti in un altro carcere.


aprile-i nomi delle vittime

Articoli:

Rouan, Artur, Marco, Salvatore e gli altri. Ecco chi erano le 13 persone morte in carcere durante le rivolte. Di alcuni detenuti si conoscono pochissimi dati. Per altri familiari e conoscenti aggiungono qualche tassello in più, ma c’è anche chi ha paura a chiedere verità e giustizia.  Le istituzioni carcerarie continuano a negare informazioni e aggiornamenti. Devono  dirmi come è morto e perché. Era un ragazzo sveglio, non avrebbe mai rischiato la vita. Non ha preso volontariamente la droga o le pastigli. Non può essere. C’è qualcosa che non convince. La mamma di Rouan  Ourrad (meno probabilmente Abdellah o Abdellha, i cognomi con cui compare negli elenchi ufficiosi), chiusa nella sua casa di Casablanca, riesce solo a piangere.  Ripete, da giorni, le stesse due domande. Come? Perché? A raccontarlo è l’imam che guidava le preghiere nel carcere di Modena, Abouabid Abdelaib, diventato un punto di riferimento per la famiglia dorigine delluomo. Rouan aveva 34 anni e origini marocchine. Era uno dei 13 detenuti che tra l8 e il 10 marzo hanno perso la vita durante e dopo le rivolte scoppiate nelle case di reclusione di mezza Italia, azioni di protesta innescate dalla compressione dei diritti minimi, da timore della diffusione del coronavirus e dalla coabitazione forzata,  dal blocco dei colloqui con i parenti e delle uscite in permesso o per lavoro, dalla sospensione delle attività trattamentali e dei servizi garantiti dai volontari, dal mancato afflusso di droga dallesterno e da chissà che altro. Il suo cuore si è fermato mentre lo trasferivano al carcere di Alessandria. Al SantAnna gli restavano meno di due anni da scontare, il residuo di una somma di piccole pene per spaccio da strada. Avrebbe potuto chiedere una misura alternativa alla detenzione, ma fuori non aveva appoggi solidi.  Il fratello più piccolo era ed è in cella, una sorella abita in Germania e un fratello in  Francia, un altro ancora era rientrato in Marocco quando il padre è morto. A una trentina di chilometri da Modena sta un fratello gemello, El Mehdi, sconvolto,  preoccupato, spaventato. Quando Rouan è stato arrestato  –  si sfoga, al primo contatto –  nostra madre ha perso il sonno. Non ci dormiva la notte. Per questo ero molto arrabbiato con lui. E poi cerano problemi con i documenti, complicazioni da risolvere. Non ho fatto abbastanza per aiutarlo. Adesso non si può tornare più indietro”.  E ora lui ha paura di ricadute negative, per se stesso e per la famiglia, tanto da supplicare di cancellare i commenti usciti di getto. Almeno due detenuti  – dal poco che si è saputo, aggirando il muro di silenzio alzato dalle istituzioni carcerarie e dai referenti istituzionali avevano figli. Ariel Ahmad, cittadino marocchino di 36 anni, era padre di una ragazzina di 12 anni, avuta dalla ex convivente italiana. Non la vedeva da tempo. Non riusciva a togliersela dai pensieri e dal cuore. Era un uomo timido, carino, gentile dice Paola Cigarini, storica volontaria del carcere modenese, da settimane impossibilitata ad entrare in istituto   – Ringraziava sempre, anche per le piccole cose. Non era una persona cattiva. Non riesco a pensarlo come uno che promuove una rivolta, un trascinatore. Condannato in via definitiva per resistenza, spaccio e false attestazioni sullidentità (in occasione di un arresto fu registrato come Erial), sarebbe tornato in libertà il 14 gennaio 2022.  Anche Agrebi Slim, quarantenne di origine tunisina, aveva una figlia. Ritenuto responsabile di un omicidio a Bologna, con la bimba e la madre in Francia, non aveva potuto vederla crescere. La ex compagna era venuta in Italia per testimoniare a suo favore ricorda lavvocata di allora, Donatella Degirolamo  – e così aveva fatto una amica. Poi io non le ho più viste. E nemmeno lui, credo. Mi è rimasta limmagine di lui come di un uomo solo. Della bimba gli era rimasta una foto, scattata quando aveva un anno”. Dal Sant’Anna  sono usciti con i piedi davanti, destinazione tavolo delle autopsie e morgue, anche Hafedh Chouchane (o Hafedeh Chouchen, 36 anni, tunisino, pochi giorni alla scarcerazione), Ben Mesmia Lofti (o Mesmia, 40 anni, tunisino) Alì o Alis Bakili (52 anni, pure lui tunisino). Per loro e per Agrebi e Ariel lo ha scritto la Gazzetta di Modena i primi esami post decesso confermano la tesi delloverdose di un cocktail di psicofarmaci e metadone, disponibili in gran quantità. Non sono state rilevate tracce di una ingestione forzata del mix letale. Nessun segno di lesioni né di azioni violente. Il reato per cui la procura ha aperto un fascicolo, omicidio colposo plurimo, al momento si conferma una scelta tecnica, formale, necessaria per svolgere una serie di approfondimenti. Non risultano indagati, in questa fase pare non si prospettino scenari alternativi. Si attende lesito degli esami tossicologici per confermare o smentire la direzione presa dallinchiesta penale, cui si affianca uninchiesta ministeriale. Forse convergeranno al Palagiustizia di  Modena anche gli atti dei primi accertamenti sulla fine tragica degli altri detenuti modenesi”, spirati dopo la decisione di smistarli in penitenziari non andati fuori controllo: oltre a Rouan,  Ghazi Hadidi (o Hadidi, tunisino di 35 anni  con una condanna definitiva per una violenza pesante, deceduto sulla strada per Verona), Artur Iuzu (moldavo di 31 anni, in custodia cautelare, arrivato a Parma senza vita) e Salvatore Cuono Piscitelli (mandato a Ascoli). Pure di questultimo, sebbene fosse italiano, non si è saputo quasi nulla: aveva 40 anni compiuti in gennaio e il fine pena il 17.8.2020. Ghazi era assistito dallavvocato Alberto Emanuele Boni, lo stesso difensore di Rouan. Se è vero che questi ragazzi stavano male per aver ingerito metadone e pasticche ed erano cianotici  – rimarca non si capisce perché non li abbiano portati e subito negli ospedali più vicini al carcere, consentendo di curarli per tempo, di salvarli . Invece no. Hanno fatto una cosa insensata. Hanno deciso di spedirli in penitenziari di città lontane, non è dato sapere se in ambulanza o su blindati. Sono morti durante il viaggio. Lo Stato li aveva in custodia. Lo Stato, se vuole dirsi civile, dovrà dare spiegazioni. Perché non si sono prevenute le rivolte? Perché i disordini non sono stati contenuti, prima che arrivassero alle conseguenze costate la vita a tutti questi detenuti? E perché c’era tutto quel metadone disponibile? Si è sentito dire che si trattava di non pochi litri ”. Kedri Haitem, 29enne tunisino, stava da pochi mesi alla Dozza di Bologna ed è morto lì, quando si sono spenti i fuochi e gli echi della rivolta. Arrestato nel 2019 per delle rapine, reduce da una lunga condanna per altre vicende scontata a Reggio Emilia, era in custodia cautelare, per legge non colpevole. In patria faceva il sarto, dentro laiuto cuoco e laddetto a quella che nel gergo interno si chiama Mof, la manutenzione ordinaria fabbricato, piccole riparazioni, tinteggiature, interventi da muratore e idraulico. Sempre nel carcere reggino aveva percorso altre tappe di un cammino positivo ed era riuscito a conquistare un lavoro esterno, di pubblica utilità. Gli operatori avevano scommesso su di lui, la comunità esterna pure. Si prendeva cura di aree verdi e piante in un piccolo comune di provincia. Poi un inciampo, la liberazione a fine pena, il ritorno dietro le sbarre. Alla Dozza era seguito dai mediatori culturali. Alle prime avvisaglie del rischio coronavirus, a fine febbraio, i loro servizi non sono stati considerati essenziali pur essendolo per molti detenuti stranieri e di conseguenza per il personale interno stremato e il comune ha deciso di tenerli a casa, abilitandoli poi a lavorare via Skype e per telefono solo dal 25 marzo. Non è stato più dato laccesso ai volontari, altre figure fondamentali. Alcuni reparti sono stati espugnatidai detenuti in rivolta, altri sono rimasti inviolati. Probabilmente anche Kedri ha ingerito psicofarmaci, saccheggiati in infermeria, e forse del metadone. La procura, per confermare o smentire che la causa del decesso sia una overdose e accidentale, chiede tempo. Devono essere depositati e valutati i risultati delle analisi tossicologiche. Non solo. Qualcosa sembra non tornare. Loppioide, dopo i disordini di Modena e i primi morti, doveva essere messo in un posto ultra sicuro in tutte le case di reclusione. Radio carcere ipotizza che non sia andata così, non a Bologna, e che il ragazzo tunisino e i compagni lo abbiano trovato e bevuto, miscelato con il resto. Ed era della Dozza lanziano recluso per mafia  – posto agli arresti domiciliari in ospedale pochi giorni prima del decesso stroncato dal coronavirus. Altro istituto, altre devastazioni, altre tragedia. I carri funebri hanno portato via dal carcere di Rieti i cadaveri di Carlo Samir Perez Alvarez (nativo dellEquador, 28 anni), Ante Culic (41 anni, croato, fine pena il 27.5.2024) e Marco Boattini (40enne della zona di Pomezia, in attesa di processo dappello). Per il primo non si trova nessuno disposto a parlare, neppure al consolato. Purtroppo nemmeno il nostro ufficio è riuscito ad avere altri dati. E non abbiamo alcun contatto con le famiglie di origine”, è costretto ad ammettere Stefano Anastasia, il Garante delle persone private della libertà per la  Regione Lazio. Per il secondo, chiamato Baja dagli amici, il giornalista Inoslav Besker ha saputo che in patria aveva una ex moglie e dei figli. Del decesso è stata informata la madre, Ljubica. Il padre Stirpe è morto da anni.Per Marco i giornalisti del Venerdì di Repubblica hanno trovato qualche brandello di storia e una cugina. Rosa. Era entrato in carcere dopo una sentenza per una rissa aggravata, oltre che per questioni di droga. E la droga aveva caratterizzato gli ultimi passi della sua esistenza: la morte della madre lo aveva sconvolto. Il resto lo avevano fatto i rapporti sempre più sottili con il padre che da tempo viveva allestero e con il fratello. La sua casa, nella zona di Pomezia, era diventata una sorta di comune: occupata da un gruppo di suoi amici balordi, in realtà spacciatori, che riempivano Instagram di filmati di Marco impegnato in cose demenziali, alle volte umilianti. Lavorava in una tipografia, aveva anche incontrato una ragazza che gli voleva bene. (Lorenza Pleuteri)

Ora sono nove i morti dopo la rivolta del carcere di Sant’Anna. Ieri sono stati scoperti i corpi senza vita di altri due detenuti. E ci si interroga come questo inferno, senza precedenti, sia potuto accedere; anche se c’è chi punta il dito sull’assenza, per altro ventennale, di una regia operativa, di telecamere, di barriere efficaci e di strumenti tecnologici opportuni per vigilare e prevenire. Dopo il saccheggio all’infermeria, alla farmacia e al deposito medicinali si allunga dunque il bollettino di guerra con altri due uomini trovati senza vita all’interno della struttura carceraria. La polizia penitenziaria infatti, una volta che i disordini sono rientrati nel pomeriggio di lunedì, ieri ha iniziato le ispezioni, i passaggi accurati nei vari piani e blocchi della ala nuova del Sant’Anna. Quella, come riferiscono gli addetti ai lavori, dove maggiormente vi sono detenuti con problemi legati alla droga. E nel corso di queste ispezioni ieri, verso le 10:30, è stato trovato un primo detenuto privo di vita. Si tratta di Alì Bakidi, 52 anni, tunisino. In base ai primi accertamenti, parrebbe che il decesso sia sopraggiunto per un malore, ipotesi avvalorata dal fatto che l’uomo sarebbe stato cardiopatico. Un malore notturno dunque. Ma la DAP, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha ufficialmente diffuso la notizia che si tratterebbe di morte per overdose, alla stregua delle altre. Ovvero delle altre 3 avvenute sempre tra le mura del Sant’Anna e delle altre 4, avvenute dopo il trasferimento dei detenuti alle carceri di Parma, Verona ed Ascoli. Ma non è finita qui: nel primo pomeriggio il nono decesso, sempre nella nuova ala del carcere, durante le ispezioni. È ancora una volta i mezzi delle onoranze funebri Gianni Gibellini hanno dovuto provvedere per il recupero e il trasporto in medicina legale. In questo caso, almeno così si presume, si tratterebbe di un cocktail di farmaci che ha stroncato la vita di Ben Mesmia Lofti, tunisino di 41 anni. Rimangono, invece, stazionarie le condizioni dei sei detenuti ricoverati nelle terapie intensive di Baggiovara, Policlinico e Carpi per intossicazione da medicinali. Ma come è stato possibile, a Modena in particolare che si sia arrivati a questa situazione? Un carcere distrutto in quasi tutti i suoi spazi e che ora verrà chiuso per il tempo necessario ai lavori. Secondo il segretario nazionale del Sappe, Francesco Campobasso, due sono i motivi di fondo: assenza di strumenti e un sistema di reclusione che ha fallito. “I disagi che hanno interessato la struttura della casa circondariale di Modena, evidenziano ancora di più di come l’attuale politica gestionale con i metodi di vigilanza adottati dall’Amministrazione Penitenziaria siano fallimentari – dice Campobasso – Da tempo evidenziamo di come la sicurezza interna delle carceri è stata annientata da provvedimenti scellerati come la vigilanza dinamica e il regime aperto. Da quando sono stati introdotti questi due regimi, infatti, il numero degli eventi critici in carcere, a cominciare dalle aggressioni ai danni dei poliziotti, sono aumentati”. E da qui le accuse del Sappe: “Pur in presenza di un reparto di elevato spessore come quello in servizio alle dipendenze del comando della struttura modenese, non si può non puntare il dito su chi da anni, pur a conoscenza delle mancanze strutturali del carcere, non ha consentito il ripristino funzionale di una sala di regia (da quasi vent’anni fuori uso) e dei sistemi di anti intrusione ed anti scavalcamento, presupposti basilari per la salvaguardia della sicurezza dell’istituto, di chi vi opera e di chi è recluso”. “Sono state smantellate le politiche di sicurezza delle carceri preferendo una vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto, con detenuti fuori dalle celle per almeno 8 ore al giorno con controlli occasionali. Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non fare nulla. La politica di tenere una elevata percentuale di ristretti fuori dalle camere detentive non è percorribile. A tutto questo si aggiunga il dilagare del fenomeno di sovraffollamento che anche a Modena riflette in pieno. I gravi danni hanno risaltato la necessità di una diversa disciplina di custodia”. Ma non sono solo gli addetti ai lavori a porsi interrogativi e chiedere interventi. Ieri mattina in città hanno fatto la loro comparsa numerose scritte che chiedono giustizia e sollevano dubbi sulla versione ufficiale delle morti da overdose. Interrogativi che arrivano anche in consiglio comunale, investendo la politica e le istituzioni. È il caso di un’interrogazione del gruppo Sinistra per Modena che chiede al sindaco “se l’amministrazione si è informata per quanto possibile nelle scorse settimane rispetto a quali azioni fossero state disposte dalla struttura carceraria per affrontare questa fase a seguito delle disposizioni governative, sia dal punto di vista sanitario rispetto alla prevenzione del contagio, sia rispetto alle condizioni dei detenuti in termini più generali”. Si chiede anche di sapere “quali e quanti danni ha subito la struttura e quali eventuali costi verranno posti a carico della comunità modenese”. E anche il sindaco ribadisce la necessità di risposte chiare su quanto si è verificato domenica e per le prospettive dei prossimi mesi. Modena di fatto non avrà il carcere. “Il carcere va ripristinato al più presto, è una questione di sicurezza per la città e il territorio”. (Stefano Totaro – la gazzetta di Modena 11 marzo)

Vignetta:

Il 2 aprile, a quasi un mese di distanza dalle morti, Lorenza Pleuteri pubblica tutti i nomi e le storie delle vittime dell’8 marzo. La stampa locale è ferma al 11 marzo ed è concentrata a liquidare la morte di 7 (e non 9) detenuti per overdose…e a parlare di ripristino urgente della struttura.

Intervista:

Ciao Clà, come stai?”.

Sono state le prime parole che ho detto a mio fratello quando finalmente lho potuto sentire dopo il suo trasferimento a Ascoli Piceno, parole allordine del giorno che ormai sembrano scontate, ma per me valevano veramente molto. Sentire la sua voce, avere un contatto con lui dopo le rivolte di Modena mi hanno fatto sentire di nuovo vivo.

Quando l8 Marzo venni a sapere delle rivolte di Modena e di alcuni morti ero con amici, stavamo mangiando e ci raccontavamo a turno le nostre storie più belle pensando a come sarebbe andata a finire questa storia del covid-19 quando allimprovviso ho letto la notizia: rivolte nella C.C. di Modena, alcuni morti tra i detenuti. Le notizie che uscirono nei giorni successivi erano poche e confuse, io ero nervoso, avevo paura che tra quei morti ci fosse anche mio fratello e che noi lo avremmo scoperto tramite i giornali. La mia unica fortuna fu quella di avere intorno me persone che mi vogliono molto bene, e in poco tempo, tramite i loro contatti riuscii a mettermi in collegamento con chi a Modena aveva già un discorso sociale e politico sul tema carcere. Finalmente potevo sapere di più, e forse anche con un podi egoismo chiesi subito se mio fratello era tra i deceduti. Mi sentii sollevato quando ebbi la risposta negativa ma avevo comunque paura, sapevo che queste situazioni sono sempre la scusaper far male a qualcuno invocando il nome della Giustizia. Cosi passavano i giorni e di lui nessun contatto, quando capimmo che erano ad Ascoli Piceno al 41bis ci sembrò tutto molto più chiaro, dovevamo aspettare che le autorità si decidessero. Mi domando spesso quanto le strutture carcerarie siano riabilitative, quanto possano aiutare chi per un motivo o per un altro è stato sbattuto in cellama resto sempre deluso dalla loro inefficienza, la gestione di Modena è solo la punta delliceberg e quello che avevo potuto leggere dai giornali o sentito dalle voci di corridoio era solo una piccolissima parte di quello che oggi sappiamo sia avvenuto. Non mancò molto che ricevetti la prima lettera dopo quel8 Marzo fatidico, ancora piango a ricordare quello che mi veniva descritto. Scene degne di uno dei migliori film distopici, in cui i detenuti venivano trattati come bestie. Prima lasciati a loro stessi e poi brutalmente picchiati ed uccisi di botte. Leggendola, ricordo che, mi sembrava di sentire il frastuono e il sibilio dei colpi che venivano sparati ad altezza uomo, il suono delle ossa che si rompevano sotto le scariche di manganellate, le grida di chi chiedeva aiuto per il compagno ormai morente che non riusciva manco a salire sul cellulare. Storie di repressione ne avevo sentite molte per questo sapevo che andando avanti con la lettura non avrei trovato nulla di buono. Quello che è avvenuto dopo è forse anche peggio del comportamento avuto dalle autorità di Modena. Una volta arrivati ad Ascoli Piceno la situazione ha del paradossale: medici che non controllano i detenuti visibilmente tumefatti dalle botte, guardie che vanno a trovarein modo randomico i detenuti invocando una nuova Diaz, Garante dei detenuti totalmente assente e la dichiarazione di morte in un posto anziché di un altro del Detenuto Piscitelli.

Il bello è che Claudio, nonostante tutto, riesce sempre a strapparmi un sorriso e darmi speranza. Come quella volta ad inizio di settembre che mi disse: Io ormai sono carcerato, sono qui e voglio pagare tutti gli sbagli che ho fatto nella vita, ma vorrei che io e chi come me vive il carcere possa sognare una vita migliore, possa capire cos’è una vita dignitosa e in questo modo non essere più recidivi, ma ti rendi conto che quando usciamo da qui non siamo nulla e quando siamo qui siamo solo dei numeri su cui fare profitto?. Si, il carcere fa profitti per centinaia di migliaia di euro sulle spalle del detenuto e non il contrario, provate a fare voi la spesa allo spaccio e provatela a fare senza una famiglia che con 1000 salti mortali vi gira qualche soldo a fine mese. Da quella videochiamata capii che avevano già le idee chiare, che volevano denunciare quello che avevano visto e subito durante la rivolta di Modena, volevano giustizia per tutt* soprattutto per i morti. Così, da li è nata la denuncia da parte di 5 detenuti verso le autorità, denuncia che ha portato ad un loro tempestivo trasferimento che li ha riportati a Modena (strano, vero?) per tenerli in isolamento circa dieci giorni, finestra rotta e coperta bagnata. Ditemi voi se la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo non aveva ragione quando ha quindi condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante allinterno delle carceri. Lunica risposta da parte dello stato è stata separarli, rendergli difficili o quasi impossibili le comunicazioni verso lesterno e diffamare a mezzo stampa la morte di Salvatore Piscitelli.

Ad oggi i 5 detenuti sono in 5 C.C. diverse, ma sono ancora fermamente convinti di quello che hanno fatto. Mio fratello (lunico che posso vedere tramite videochiamata) sorride mentre mi parla della lotta che stanno portando avanti. Di botte en hanno prese tante, non saranno quelle che verranno a fargli paura. Io ancora un popiango perché il mondo fuori non è bello e quando provo a immaginarmi nel mondo dentro ahimè lo vedo senza uscita. Senza un supporto esterno, senza laiuto di qualcuno il reinserimento è quasi impossibile per questo chiedo a tutt* di non guardare il detenuto come un reietto ma come una risorsa, non come un numero o unentità ma come un essere umano. Restiamo umani.

La sera stessa dell’8 marzo una di noi è stata contattata da amici di Napoli, per cercare di capire da qui se il fratello, detenuto a Sant’Anna, fosse vivo o morto e dove fosse stato trasferito. Il 9 marzo, grazie ad un’amica avvocata, abbiamo potuto rassicurare la famiglia sul fatto che fosse vivo. Dopo alcuni giorni abbiamo capito che era stato trasferito nel carcere di Ascoli Piceno. Si tratta di Claudio Cipriani, uno dei coraggiosi firmatari dell’esposto ora di dominio pubblico.

Maggio-le famiglie

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Potete raccontare che avete visto domenica scorsa, qui davanti al carcere di SantAnna, durante la rivolta? Referente dei familiari (RF): Noi domenica scorsa da Modena abbiamo visto del fumo alzarsi dal carcere e siamo venuti direttamente qui. Abbiamo visto che cera molto subbuglio. Sono arrivati un sacco di poliziotti. Vedevamo il fumo uscire. Abbiamo chiesto notizie in merito ai detenuti, ma non ci hanno dato nessuna comunicazione. Ci dicevano di stare tranquilli e che era tutto a posto. Abbiamo visto partire diversi bus blindati contenenti diversi detenuti. La sera abbiamo sentito, dallinterno del carcere, detenuti che si lamentavano perché erano stati picchiati e cerano stati dei deceduti. Il fatto che la direzione uscisse e ci dicesse di stare tranquilli perché era tutto a posto è stata solo una gran presa per il culo, che tuttora sta proseguendo.

Cosa è venuto a mancare rispetto alle comunicazioni di quella giornata? RF: È venuta a mancare la loro disponibilità nel dare comunicazioni tempestive ai familiari dei detenuti, perché era loro nostro diritto sapere che fine avessero fatto i nostri cari. Eravamo tutti molto preoccupati. Ci hanno tenuti alloscuro di tutto. Ci siamo dovuti muovere chi con lavvocato, chi mettendosi direttamente in contatto con il carcere. Ma a tuttoggi, giovedì, solo tre o quattro di noi hanno ricevuto notizie sul trasferimento in un altro carcere del proprio familiare detenuto. Noi altri non abbiamo avuto alcuna notizia. Non sappiamo come stanno. Niente. Non siamo stati contattati da nessuno. Stiamo qui davanti al carcere e continuiamo a lottare per loro. E la nostra presenza qui sarà sempre più forte. Altra familiare: Non vogliamo che vengano qui ad aiutarci. Noi chiediamo solo la giustizia. Sapere la verità. Vogliamo che le istituzioni ci permettano di fare ai nostri cari almeno una chiamata per saper come stanno. Noi siamo qui dalla scorsa domenica, senza dormire. Veniamo qui tutti i santi giorni, non per fare pic-nic ma per avere qualche notizia. Dal carcere arrivano sempre le stesse risposte.

Sono morti nove detenuti. Che cosa volete dire a chi dice “uno in meno” e che alla fine se la sono andata a cercare? RF: Noi come referenti dei familiari ci sentiamo di dire che in primis sono esseri umani e che comunque non è giusto che siano entrati in carcere per scontare una pena e che siano usciti dentro una cassa da morto. Secondo me il Magistrato avrebbe dovuto prendere provvedimenti diversi.

Che cosa volete dire a chi ha decretato che le nove morti sono dovute solo ed esclusivamente ad overdose da farmaci? RF: La prima notizia è stata su una morte naturale. Per noi un ragazzo giovane difficilmente può morire di morte naturale. La seconda versione è stata quella delle morti di overdose. Prima 2 litri, poi 20 litri e alla fine addirittura 200 litri di metadone bevuto. Io non credo che una struttura come il Sant’Anna possa tenere fino a 200 litri di metadone in infermeria. Mi sembra veramente un’eresia. Comunque non penso che siano morti tutti di overdose. Chiedo giustizia e spero le autopsie siano effettuate a modo.

Pensate che questa situazione potesse essere evitata? RF: Poteva essere evitata se in carcere entrambe le parti avessero dialogato meglio. Il carcere doveva dare notizie su eventuali contagi da coronavirus con maggiore trasparenza. I detenuti informarsi (o essere informati) meglio.

Secondo te potevano essere applicate misure alternative al carcere? In vista dell’emergenza sanitaria in corso i referenti, ovvero la direzione del carcere e il Garante dei detenuti, potevano preventivare tali misure? RF: L’esubero dei detenuti nelle carceri è un problema nazionale. Secondo me era ragionevole pensare a qualche misura alternativa: braccialetti, arresti domiciliari, avvio al lavoro…io non pretendo che facciano uscire la gente che ha sette/otto anni di pena da scontare. Ma chi ha la possibilità, ed ha anche una casa, un lavoro, una famiglia che lo può appoggiare, dovrebbe avere diritto a due/tre anni di misure alternative e di non essere costretto a stare in situazioni così pericolose. Sono tutte valutazioni che, secondo me, il Magistrato dovrebbe iniziare a fare.

Come sono state accolte da parte vostra le dichiarazioni fatte dai politici? Ci siamo sentiti risentiti. La dichiarazione di qualche esponente che l’opzione migliore sarebbe stata chiudere e buttare vie le chiavi, non è stata affatto piacevole. Se avessero qualche familiare in carcere forse si comporterebbero diversamente.

Pensate ci siano responsabilità da parte del governo? In diverse carceri d’Italia in questi giorni sono sorte rivolte. Al Dozza di Bologna, ad esempio, hanno appeso striscioni che invocano amnistia e indulto. Anche noi chiediamo amnistia e indulto. In più chiediamo le dimissioni di Buonafede, che non è capace di fare il proprio mestiere. Per la cattiva gestione delle cose, dovrebbe essere il primo a trovarsi in galera, dentro un istituto penitenziario. È vero che non ci finirà mai, ma gli auguro solo una settimana dentro per fargli cambiare idea sui detenuti. Di recente abbiamo avuto notizia da due persone uscite dal Sant’Anna dello stato in cui si trovano i detenuti. Noi chiediamo giustizia, perché sono trattati male e le condizioni igieniche non sono adeguate. La direzione del carcere, i magistrati ed anche Buonafede devono prendere provvedimenti migliorativi. Sarebbe meglio andasse a zappare la terra. (Senza quartiere-12 marzo)

La stampa locale non ha voluto occuparsi della situazione dei familiari dei detenuti, l’unico che lo ha fatto è stato senza quartiere.

Intervista:

Nel mese di maggio stavo ancora lavorando in smartworking. Una mattina rispondendo al telefono del centralino della cooperativa sociale per cui lavoro, ho preso la telefonata di una donna che mi chiedeva aiuto; cercava una struttura di accoglienza per il proprio figlio, che era stato trasferito a San Giminiano in seguito alla rivolta dell’8 marzo, e stava telefonando a tappeto a tutte le associazioni e cooperative sociali della regione. Questo ragazzo aveva praticamente finito di scontare la propria pena, ma doveva trovarsi (da solo!) un luogo protetto, in cui poter andare a vivere al suo rilascio. La madre era molto preoccupata perché raccontava condizioni di detenzione alquanto inadeguate. Mi ha detto che durante le videochiamate era sempre vestito nello stesso modo, che non si poteva lavare e cambiare, perché di fatto non aveva altri indumenti da indossare e che lamentava condizioni di vita molto precarie. Tra l’altro pare che fosse detenuti ad un regime più rigido rispetto a quello che gli era stato fissato. Ci siamo sentite quasi quotidianamente. Io purtroppo non ho potuto aiutarla direttamente, ma ho cercato di metterla in contatto con volontari di quel carcere, che mi hanno confermato la versione di questa donna.

 

I familiari abbandonati e spaesati hanno continuato a chiedere aiuto ad organizzazioni extra istituzionali. Una compagna ad esempio è stata contattata dalla madre di un detenuto, trasferito a San Giminiano dopo la rivolta. Questa donna chiedeva aiuto per il figlio che era detenuto in un regime di sicurezza più severo da quello previsto per la sua pena. Anche in questo caso i compagni si sono attivati in maniera autonoma, attraverso la rete di conoscenze per poter supportare le richieste d’aiuto.

 

Giugno-autonomia penitenziaria

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Carcere Santa Maria Capua Vetere, agenti indagati protestano sui tetti: passerella di Salvini.

Alcuni di loro sono saliti sui tetti, altri hanno protestato nel piazzale antistante il carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Mattinata di tensione quella che ha visto protagonisti gli agenti di polizia penitenziaria dopo la notifica di 44 avvisi di garanzia relativi a una inchiesta della procura sammaritana su presunti pestaggi verificati nella struttura carceraria lo scorso aprile, in piena emergenza sanitaria. LA VICENDA – I fatti risalgono allo scorso 5 aprile quando nel carcere casertano esplose la protesta di oltre 150 detenuti dopo la notizia che uno di loro era risultato positivo al coronavirus. Protesta domata a notte fonda dallintervento della polizia penitenziaria e delle forze dellordine. Nei giorni successivi sono state diverse le denunce dei familiari dei detenuti sulle violenze commesse dagli agenti. Li sono andati a picchiare cella per cellaha raccontato una donna. Uno di loro, scarcerato dopo qualche giorno, mostrò le foto delle presunte violenze presenti sul suo corpo. IL BLITZ DEI CARABINIERI – “Nella mattinata di oggi i poliziotti penitenziari in divisa di Santa Maria Capua Vetere, allingresso del carcere e mentre si accingevano ad entrare in istituto per iniziare il servizio, sarebbero stati fermati dai carabinieri per controlli e, addirittura, avrebbero sequestrato dei telefoni cellulari. Tutti i poliziotti sono usciti nel piazzale del carcere perché si sarebbero sentiti abbandonati dal comandante che sembra non esserci. Così il Sippe, Sindacato di polizia penitenziaria. I poliziotti penitenziari si sentirebbero offesi per le modalità in cui sarebbero stati trattati, considerato che questa azione sarebbe avvenuta in presenza dei familiari dei detenuti, dichiara Michele Vergale, dirigente nazionale del Sippe. LASCIATI SOLI” – Che aggiunge: Durante il blocco non erano presenti sul posto nessun funzionario della polizia penitenziaria e neanche il direttore, giunti solo dopo il controllo quando i carabinieri sarebbero andati via; questo avrebbe fatto scatenare la rabbia di tanti colleghi che si sarebbero trovati davanti a questa imbarazzante situazione e si sarebbero sentiti abbandonati. Milano, 11 giu. (LaPresse) – “Pare che sul posto, dopo il controllo, siano arrivati anche dei magistrati. Non è ancora chiaro afferma Vergale se trattasi di unoperazione di polizia oppure di un normale controllo del territorio. Si sarebbe registrata anche una fila chilometrica di auto e ritardi nelliniziare un pubblico servizio della polizia penitenziaria. Il Sippe conclude Vergale chiederà chiarimenti a chi di dovere per comprendere che cosa davvero sia successo e se potevano essere adottate altre modalità per svolgere leventuale operazione di polizia, anche a tutela della dignità non solo della polizia penitenziaria ma dei poliziotti stessi”. LA TESTIMONIANZA – La moglie di un detenuto, Daniela Avitabile, ha raccontato quanto visto stamani. Sono arrivata alle 7 e cerano parecchi carabinieri che fermavano le auto in arrivo al carcere; io sono stata fermata e mi hanno fatto passare, mentre gli agenti li trattenevano per identificarli. Gli altri agenti della Penitenziaria già dentro sono stati fatti uscire dalla struttura; c’è stata tensione LA VISITA DI SALVINI  – Nel pomeriggio, poco dopo le 16, è arrivata la visita di Matteo Salvini, segretario della Lega, che ha espresso solidarietà agli agenti indagati. Avevo qualche appuntamento oggi pomeriggio, ho chiuso lufficio e disdetto gli appuntamenti perché non si possono indagare e perquisire come delinquenti 44 servitori dello Statoqueste le sue parole davanti allingresso di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Se uno su mille sbaglia, paga. Ma non esiste nein cielo nein terra ha aggiunto venire a perquisire i poliziotti davanti ai parenti dei detenuti”. PISTOLE ELETTRICHE – “Le rivolte non le tranquillizzi con le margherite. Le pistole elettriche e la videosorveglianza prima arrivano e meglio è” ha aggiunto Salvini. Incredibile! 44 poliziotti in servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) sono indagati come violenti torturatori per aver bloccato la rivolta dei detenuti del 6 aprile scorso, che provocodanni per centinaia di migliaia di euro IL GARANTE DEI DETENUTI –  “Intendo mantenere il più stretto riserbo sullinchiesta in corso dichiara in una nota il Garante dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello -. Per quanto mi riguarda posso dire che abbiamo lavorato con massima scrupolosità e nel rispetto della nostra funzione di tutela e garanzia, segnalando alla magistratura episodi e denunce su cui è necessario, a garanzia di tutti, che si faccia chiarezza. Ciò nellambito del ruolo istituzionale che ricopro che mi impone di svolgere con terzietà e imparzialità la mia funzione di Garante delle persone ristrette. Chi ha operato correttamente non ha nulla da temere, allo stesso tempo le carceri non devono essere luoghi oscuri sottratti al controllo della giustizia. Spetta alla magistratura, del cui lavoro abbiamo pieno rispetto, verificare fatti e responsabilità. Più volte ho manifestato apprezzamento per il lavoro svolto dagli agenti di polizia penitenziaria e non ritengo che siano venuti meno gli elementi su cui ho da sempre fondato il mio giudizio. Nellinteresse di tutti esprimo la mia fiducia nelloperato della Magistratura e confido nellaccertamento della verità, condizione essenziale per il rafforzamento della giustizia”. (Il riformista 11 giugno 2020)

RIVOLTA AL CARCERE DI SANTANNA, ANCORA UNA VOLTA SI PONE IL PROBLEMA SICUREZZA NELLE CASE DI RECLUSIONE

La governance del sistema penitenziario del nostro paese oggi presenta tutti i suoi limiti.
Ogni giorno si registrano aggressioni nei confronti dei poliziotti penitenziari e con larrivo del Covid 19 sono iniziate anche le rivolte dei detenuti.
Ieri una rivolta al carcere di Salerno, oggi sono i detenuti della casa circondariale di Modena che hanno messo a ferro e fuoco la struttura.
Da tempo il sindacato Fp Cgil denuncia lo stato di abbandono e la lontananza del dipartimento dellamministrazione penitenziaria dagli istituti penitenziari e tutte le figure professionali che ci lavorano.
Siamo molto preoccupati della deriva in cui sta andando a finire il sistema penitenziario italiano.
La fp Cgil esprime piena solidarietà a tutti i poliziotti e alle altre forze dellordine che stanno lavorando allinterno del carcere SAnna di Modena.
Chiediamo al governo e alle forze politiche di prendersi carico dellattuale difficile situazione in cui versano le carceri italiane affinché s intervenga per una riforma del sistema penitenziario ormai non più rinviabile. (Comunicato FP Cgil Modena 8 marzo 2020)

 Intervista:

É dallo scorso marzo che, come attivisti di Acad, ci ritroviamo a operare su un terreno assai difficile, contiguo ma per altri versi distante, da quello che abbiamo esplorato in questi anni durante i quali ci siamo quotidianamente dedicati alla lotta agli abusi e alle violenze delle forze dell’ordine. L’8 marzo 2020 in ventuno carceri italiane sono scoppiati disordini di vario genere ed entità, a causa dell’enorme paura da parte dei detenuti per il dilagare dell’epidemia di Coronavirus, della scarsità di informazioni fornite dalle autorità penitenziarie rispetto all’andamento dei contagi, della sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. Il sistema carcerario evidenziava in quelle ore tutta la propria impreparazione nellaffrontare lemergenza in luoghi perennemente sovraffollati e dove le dinamiche di comunicazione dentro-fuori sono sempre estremamente complicate. Alle sollevazioni dei detenuti, il personale di polizia (talvolta esterno agli organici delle carceri) ha risposto con una violenza brutale, intervenendo con pestaggi e percosse sui detenuti. Violenze perpetrate come vere e proprie vendette anche a distanza di giorni, botte che risultano ancor più ingiustificabili rispetto ad una situazione di sommossa in atto. I rappresentanti dello stato, tutori delle persone detenute, diventavano corresponsabili di quattordici decessi avvenuti nelle carceri di tutta Italia. Grazie ad alcune informazioni filtrate dall’interno delle prigioni e al lavoro di inchiesta di pochi ed ostinati cronisti, quello che stava accadendo in carcere ha raggiunto, faticosamente, gli onori della cronaca. L’opinione pubblica è stata travolta dalle notizie prima sui disordini e poi sulle violenze da parte delle forze dellordine. I famigliari dei detenuti hanno cominciato a cercare ulteriori notizie, si sono ritrovati in presidi e sit-in spontanei allesterno di quelle invalicabili mura. Da quell’8 marzo sono state decine le segnalazioni di abusi nelle celle, nei reparti e nei padiglioni, negli spazi comuni e in quelli di isolamento, perfino sulle ambulanze da parte di varie categorie: agenti di polizia penitenziaria, del Gruppo Operativo Mobile, del fantomatico e neonato Gruppo di Intervento Rapido e via dicendo. Segnalazioni che ci hanno trovati un po’ impreparati, a causa delle contingenze particolari dell’universo carcere, dove è quasi impossibile trovare disponibilità di filmati e telecamere, testimoni oculari esterni ai fatti o referti medici veritieri. Luoghi nei quali è estremamente difficile provare le violenze e dove le uniche possibili sponde istituzionalisono costituite dai legali e dai garanti dei detenuti. L’estrema solitudine che esprimono tutte quelle persone che gravitano (da detenuti e da familiari) attorno al mondo delle prigioni italiane è stata amplificata dallemergenza Coronavirus. Volenti o nolenti, anche noi di Acad ci siamo sentiti in dovere di provare a dare un supporto a chi ci chiedeva una mano, denunciando, raccontando, presentando esposti e chiedendo di segnalare quel che stava accadendo attraverso i nostri contatti tra la stampa. Prima di allora la nostra associazione non si era mai occupata prettamente di carcere. In questo stato di isolamento forzato abbiamo provato a fare il possibile, consapevoli delle difficoltà e dei limiti logistici ma anche politici con cui devono confrontarsi tutti quelli che hanno il compito di rompere il muroe dare voce a queste storie (i garanti dei detenuti, su tutti, ma anche il mondo della giustizia penale, che non sempre ha la capacità e la volontà di prendere posizione). La violenza che ha avuto cittadinanza nelle carceri italiane a distanza anche di quarantottore dalle proteste dei detenuti ci dà l’idea di come il problema sia strutturale allintero universo delle forze dellordine. La narrazione dominante della teoria delle mele marce” è ben lontana dalla realtà dei fatti; basterebbe leggere i quotidiani con regolarità per comprendere che non si tratta di casi isolati. La storiella del singolo agente impazzito” è strumentale al mantenimento dello status quo e si rende necessaria ogni qual volta la pentola sugli abusi viene scoperchiata. Anche il sol pensiero, in questo caso specifico, che un potere dello stato possa perseguire la vendetta piuttosto che la giustizia, ci dà l’idea di quanto il problema sia intrinseco al sistema stesso; è questo lallarme che avrebbero dovuto lanciare i fatti di Pavia, Milano, Modena, Santa Maria Capua Vetere, Foggia e tutte quelle altre carceri dItalia dove per settimane sono andate avanti violenze finalizzate con il pretesto del ripristino dellordine (come abbiamo accennato allinizio, quando già il disordine non cera più) – alla vendetta e alla punizione. La vergognosa gestione di quello che è successo chiama in causa però non solo gli agenti, identificati solo in minima parte e solo grazie alle telecamere interne ai penitenziari (e qui potremmo aprire la parentesi sulla battaglia per i numeri identificativi, una sfida allapparato di cui la politica non vuole prendersi la propria responsabilità), ma anche le catene di comando che hanno permesso che gruppi armati e con volto coperto entrassero in carcere per blitz e perquisizioni che si sono trasformati in vere e proprie rese dei conti, riportando alla mente il triste passato del nostro paese. Forte è arrivata la conferma che fare reteci fa sentire meno soli di fronte allatrocità. Mettere a disposizione le nostre conoscenze, la nostra esperienza e i nostri contatti, ci ha inserito nella realtà di donne che hanno trovato il coraggio di denunciare, sia a livello giudiziario sia a livello mediatico, quello che stava succedendo ai loro mariti, compagni, fratelli, padri, allinterno delle carceri. Da gruppi spontanei di parenti di detenuti sono partite verso di noi decine di richieste daiuto ma anche semplici segnalazioni; decine di donne che non hanno mai avuto dubbi sul fatto che i diritti di un uomo vengano prima delle sue colpe, e che chi indossa una divisa per tutelare il prossimo non può diventarne il carnefice. Sono loro ad aver dato nuova linfa al nostro percorso, ad averci aiutato a intraprendere un cammino paralleloa quello che da anni percorriamo ,e ad averci dato la forza di affrontare un mondo con il quale non ci eravamo mai confrontati appieno. Ed è oggi, quando il tema della violenza della polizia in carcere buca gli schermi della televisione nazionale in prima serata, che dobbiamo trovare la forza per continuare a cercare una crepa nel muro, e a far risuonare ancora più forte la nostra voce, raccontando gli abusi in ogni luogo e in ogni tempo. È di un paio di giorni fa la notizia della condanna di un poliziotto penitenziario per tortura nei confronti di un detenuto. Questo è quanto successo a Ferrara ed è una cosa che ci fa ben sperare: non ci soffermiamo sulla pena, ma sulla sentenza, che diviene storica essendo la prima volta che in Italia un giudice riconosce la crudeltà e la violenza grave. Lottiamo insieme perché un giorno, speriamo il più vicino possibile, gli abusi in divisa non accadano più.

Luglio: iniziano le indagini

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Carceri: a 4 mesi dalle rivolte, 13 morti senza verità

Con 5 detenuti morti all’interno e altri 4 morti durante il trasferimento, il carcere di Modena fu quello dove la rivolta dal 7 al 10 marzo provocò una strage. Sono 40 gli agenti della polizia penitenziaria feriti. Il Garante nazionale delle persone detenute o private della liberta’, Mauro Palma, nella relazione al Parlamento ha annunciato, il 26 giugno scorso, che per i 13 deceduti seguira’ le indagini in corso attraverso la nomina di un proprio difensore e di ‘un consulente medico legale per le analisi degli esiti autoptici’. Per i nove morti detenuti a Modena, il consulente legale del Garante nazionale e’ Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina Legale all’Universita’ degli Studi di Milano e direttore del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense della stessa Universita’. Una scienziata gia’ molto nota per i tanti casi sui quali e’ stata chiamata a fare luce e per il progetto, portato avanti da anni, di restituire un nome ai migranti morti in mare. Anche in questa vicenda i nomi hanno un significato importante. Dopo le rivolte, per molti giorni non si e’ saputo i nomi di chi era morto. E ancora oggi non sono note le cause. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, intervenendo l’11 marzo al Senato aveva affermato che ‘dai primi rilievi, sembrano per lo piu’ riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini’. Sarebbero morti per overdose di metadone. Una spiegazione che non soddisfa, nemmeno in parte, il desiderio di giustizia e verità espresso dalle famiglie delle vittime. Tanti gli interrogativi senza risposta, e i più forti da lasciare senza risposta, riguardano proprio Modena.  Come è possibile che ben quattro detenuti del carcere di Modena siano deceduti durante il trasporto in altri istituti penitenziari? Chi ha stabilito che potessero affrontare il viaggio invece di essere ricoverati in ospedale? C’e’ infine il capitolo delle presunte violenze sui detenuti da parte degli agenti della Polizia penitenziaria dopo che le rivolte erano cessate. Quindi violenze non per sedare la ribellione, ma per punire. L’associazione Antigone ha presentato quattro esposti ad altrettante Procure. E anche il Garante dei detenuti di Milano, Raffaele Masto, ha inviato un’informativa alla Procura della Repubblica dopo aver ricevuto diverse segnalazioni da parte di parenti dei reclusi del carcere di Opera. I nomi dei detenuti morti, diffusi dall’agenzia Dire sono: Salvatore Piscitelli Cuono (40 anni), Hafedh Chouchane (36 anni), Slim Agrebi (41 anni), Alis Bakili (53 anni), Ben Masmia Lofti (40 anni), Erial Ahmadi (36 anni), Arthur Isuzu (30 anni), Abdellah Rouan (34 anni), Hadidi Ghazi (36 anni), Marco Boattini (35 anni), Ante Culic (41 anni), Carlos Samir Perez Alvarez (28 anni), Haitem Kedri (29 anni). (La pressa 10 luglio 2020)

Quattro mesi fa la morte di 13 detenuti durante le rivolte. Tanti gli interrogativi

Non era mai accaduto dal secondo dopoguerra ad oggi che morissero così tanti reclusi. Parenti e associazioni di volontariato chiedono verità e giustizia. Perché sono morti? Perché non sono stati resi pubblici i loro nomi? Perché quattro sono morti durante il trasferimento in altre carceri? Il Garante nazionale ha chiesto la consulenza dell’antropologa forense Cristina Cattaneo

09/07/2020

Domenica scorsa in un cimitero in provincia di Varese è stato dato l’ultimo saluto a uno dei 13 detenuti morti durante le rivolte scoppiate nei giorni dal 7 al 10 marzo in 49 carceri. Sono passati quattro mesi e parenti e volontari delle associazioni impegnate nei penitenziari chiedono che sia fatta chiarezza.
Cinque detenuti sono morti nel carcere di Modena e altri quattro mentre venivano trasferiti, una volta finita la rivolta, in altre carceri. Tre sono morti invece nel carcere di Terni e uno in quello di Bologna. Quei morti sembrano dimenticati. Eppure non era mai accaduto, nella storia d’Italia dal secondo dopoguerra ad oggi, che si consumasse nelle carceri una simile tragedia. Su dirittiglobali.it è possibile firmare una petizione-appello, in cui viene proposto alle associazioni, agli avvocati, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà e alla rete dei media sociali di costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di quei giorni e che si proponga nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali di fare piena chiarezza sullaccaduto”.

Le rivolte sono scoppiate nel pieno della pandemia da Covid-19 e sono da collegare a due fattori: il sovraffollamento e la tensione crescente in quei giorni per il rischio di contagio e per la sospensione dei colloqui con i parenti e di ogni attività trattamentale. Un mix esplosivo, che in molte carceri ha trovato sfogo in proteste pacifiche, mentre in altre in barricate, incendi, devastazioni e saccheggi. A Foggia sono anche evasi 72 detenuti (poi tutti rientrati, alcuni spontaneamente). Il carcere di Modena è stato chiuso perché inagibile e i detenuti trasferiti in altre città. Sono 40 gli agenti della polizia penitenziaria feriti.

Il Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà, Mauro Palma, nella relazione al Parlamento ha annunciato, il 26 giugno scorso, che per i 13 deceduti seguirà le indagini in corso attraverso la nomina di un proprio difensore e di un consulente medico legale per le analisi degli esiti autoptici. Per i nove morti detenuti a Modena, il consulente legale del Garante nazionale è Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina Legale all’Università degli Studi di Milano e direttore del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense della stessa Università. Una scienziata già molto nota per i tanti casi sui quali è stata chiamata a fare luce e per il progetto, portato avanti da anni, di restituire un nome ai migranti morti in mare.

Anche in questa vicenda i nomi hanno un significato importante. Dopo le rivolte, per molti giorni non si è saputo i nomi di chi era morto. Sono poi emersi solo grazie all’impegno di due giornalisti, Luigi Ferrarella, del Corriere della Sera, e di Lorenza Pleuteri (www.giustiziami.it), che con l’aiuto delle associazioni sono riusciti a rendere pubblico nomi, cognomi, età e qualche aspetto della loro vita.

La domanda principale ora è: perché sono morti? Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, intervenendo l’11 marzo al Senato con un’informativa sull’attuale situazione delle carceri, ha affermato che dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini. Sarebbero morti per overdose di metadone. Parenti, associazioni, ma in realtà lo Stato e ogni cittadino, hanno bisogno di sapere, non basta quel per lo più”. Una tragedia di queste dimensioni avrebbe bisogno di un dibattito parlamentare, di una commissione d’inchiesta. Per rispondere anche a questa domanda: come è potuto accadere?
Ci sono altri interrogativi a cui bisognerà dare una risposta. Come è possibile che ben quattro detenuti del carcere di Modena siano deceduti durante il trasporto in altri istituti penitenziari? Chi ha stabilito che potessero affrontare il viaggio invece di essere ricoverati in ospedale?

C’è infine il capitolo delle presunte violenze sui detenuti da parte degli agenti della Polizia penitenziaria dopo che le rivolte erano cessate. Quindi violenze non per sedare la ribellione, ma per punire. L’associazione Antigone ha presentato quattro esposti ad altrettante Procure. E anche il Garante dei detenuti di Milano, Raffaele Masto, ha inviato un’informativa alla Procura della Repubblica dopo aver ricevuto diverse segnalazioni da parte di parenti dei reclusi del carcere di Opera.

I nomi dei detenuti morti sono: Salvatore Piscitelli Cuono (40 anni), Hafedh Chouchane (36 anni), Slim Agrebi (41 anni), Alis Bakili (53 anni), Ben Masmia Lofti (40 anni), Erial Ahmadi (36 anni), Arthur Isuzu ( 30 anni), Abdellah Rouan (34 anni), Hadidi Ghazi (36 anni), Marco Boattini (35 anni), Ante Culic (41 anni), Carlos Samir Perez Alvarez (28 anni), Haitem Kedri (29 anni). (dp)

 

Per la prima si riunisce il Consiglio Popolare in piazza Grande a Modena, tra le tematiche e gli argomenti affrontati c’è la verità sulla strage al carcere di Sant’Anna. Il Consiglio Popolare chiede chiarimenti in merito al consiglio comunale di Modena.

Agosto testimonianze

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Due testimoni hanno raccontato di pestaggi nel carcere di Modena durante la pandemia

In un due lettere, di cui l’AGI è in possesso, danno la loro versione, negata dalla polizia penitenziaria. Al di là delle presunte violenze, sono tanti i dubbi su come siano morte 13 persone, di cui 9 a Modena, 1 a Bologna e 3 a Rieti. Alcuni, come Salvatore Piscitelli, decedute nel trasferimento da un carcere all’altro

di Manuela D’Alessandro

AGI – L8 e il 9 marzo, mentre gli italiani iniziano la fase più dura della pandemia chiudendosi in casa, una settantina di carceri da nord a sud viene attraversata dalle violente proteste dei detenuti innescate dal divieto di colloquio coi familiari per evitare che il contagio dilaghi tra le mura. Nella bolgia degli istituti incendiati e devastati perdono la vita 13 persone, nove nel carcere di Modena di cui quattro durante il trasporto da qui ad altri istituti, uno alla Dozzadi Bologna e tre nella prigione di Rieti. La maggior parte di loro sono giovani e tossicodipendenti che stavano scontando condanne per reati legati alla droga, stipati in celle di pochi metri.

Dai primi riscontri emerge che il loro decesso sarebbe dovuto allingestione di metadone e psicofarmaci saccheggiati dalle infermerie. È questa lipotesi su cui si concentrano le indagini per omicidio colposo’ e ‘morte in conseguenza di altro reatodelle procure che hanno disposto gli esami tossicologici i cui primi esiti confermano lassunzione delle sostanze, letali se prese in grande quantità. Ma gli avvocati dei morti, che portano avanti le istanze delle famiglie, le associazioni attive nel mondo delle carceri e alcuni testimoni ritengono che non basti loverdose a spiegare quanto accaduto.    

I testimoni, “spogliati e picchiati, il nostro amico morto non è stato curato”

In particolare, due detenuti denunciano di avere subito abusinel carcere di Modena e che le persone decedute nel trasporto verso altri penitenziari subito dopo la rivolta non sarebbero state visitate dai medici prima di essere trasferite altrove, nonostante stessero male. Euna scenario, tutto da verificare e nellambito di una vicenda che apre molti altri interrogativi, raccontato in due lettere, di cui lAGI è in possesso, firmate dai compagni di viaggio di Salvatore ‘Sasà’ Piscitelli, uno dei 13 morti, secondo i primi riscontri, a causa dellabbuffata di medicinali.

Entrambe le persone che riferiscono di essere state vittime di violenze gratuite hanno viaggiato da Modena ad Ascoli assieme a Piscitelli, il quarantenne per il quale i suoi compagni di teatro di Bollate, dove era recluso prima di Modena, avevano chiesto in una lettera resa pubblica a giugno di sapere la verità” sulla sua scomparsa. Preferiscono restare anonime “per timore di ritorsioni”. 

E’ domenica 8 marzo quando inizia a ribollire il carcere di Modena coi detenuti che protestano anche per le restrizioni ai colloqui coi familiari. A me dispiace molto per quello che è successo – è scritto nella prima delle due lettere – Io non centravo niente. Ho avuto pauraCi hanno messo in una saletta dove non cerano le telecamere. Amatavano (ammazzavano? ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a unaltra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dellordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non lha mantenuta”.

I pestaggi, stando a questa testimonianza, sarebbero proseguiti durante il viaggio verso Ascoli dove Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa”. E anche qua – dice – veniva la squadra. Come aprivi bocca per chiedere qualcosa, prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce. Il secondo detenuto conferma che Sasà stava malissimo e sul bus lo hanno picchiato, quando è arrivato non riusciva a camminare. Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato. Sostiene inoltre che nessuno dei compagni di viaggio sia stato visitato dai medici, come sarebbe stato obbligatorio per il ‘nulla osta’ per il trasferimento. 

La Polizia penitenziaria, nessuna violenza gratuita, situazione era devastante

La parte del racconto sui pestaggi viene negata da Gennarino De Fazio, segretario nazionale Uilpa della polizia penitenziaria, che invita a riflettere invece su altre possibili mancanze nella gestione della protesta. Mi sento di escludere che ci sia stata violenza senza motivo. Parliamo di un istituto penitenziario incendiato e devastato, sono stati divelti cancelli e tentata unevasione di massa. Immagino ci siano state delle perquisizioni accurate perché alcuni avevano armi rudimentali od oggetti da taglio e che quindi si sia dovuto ricorrere anche al denudamento di qualche detenuto. Teniamo presente che parliamo di un carcere col 152% di sovraffollamento, la capienza regolamentare è di 369 detenuti, ce nerano 560 in quel momento. Solo questa segna il livello di accuratezza della gestione allinterno del penitenziario. In quel contesto, se c’è stata violenza la possiamo definire legittimaperché serviva per ripristinare lordine, evitare evasioni ed eventuali soprusi di detenuti sui loro compagni”.

De Fazio sottolinea altri aspetti della vicenda: Il fatto che i detenuti siano arrivati così facilmente alle infermerie degli istituti e si siano approvvigionati di metadone con così tanta facilità dimostra che qualcosa è mancato. Si aveva lobbligo di rendere più sicure le infermerie? Non impedire la commissione di un reato, per il nostro codice penale, equivale a cagionarlo. Non è possibile che siano morte in questo modo 13 persone. “Segnaleremo queste testimonianze alla magistratura – dice la direttrice del carcere di Modena, Maria Martone – è giusto che si accerti quello che è successo, non abbiamo nulla da nascondere”. 

Gli avvocati delle famiglie, troppo facile l’accesso all’infermeria

Sui fatti di Modena la Procura ha aperto uninchiesta complicata dalla morte improvvisa, l11 luglio scorso, del procuratore capo Paolo Giovagnoli. Alcune famiglie dei reclusi hanno deciso di affidarsi ai legali che già assistevano i loro congiunti in questa indagine.

Luca Sebastiani, avvocato di Hafedh Chouchane, racconta la difficoltà a comunicare il decesso ai parenti del suo assistito: Se non fosse stato per me, la sua famiglia tunisina, mamma e fratelli, non avrebbe saputo della sua morte. Ho impiegato diversi giorni a rintracciarli attraverso il consolato. La sua morte mi ha sconvolto, era un ragazzo di 36 anni, sempre sorridente, ne ho un bel ricordo. Avrebbe beneficiato a breve della liberazione anticipata, avevo appena depositato l’istanza. Nel giro di un paio di settimane sarebbe uscito, pensava al futuro, a un lavoro. Non aveva un’indole violenta, mi è sembrato strano sia finito in episodi turbolenti”.

Tommaso Creola, legale di Artur Luzy, moldavo di 31 anni, in carcere per rapina, spiega di avere aiutato i familiari a recuperare la salma del giovane: Non so se siano state commesse delle negligenze nella gestione della rivolta, a Modena di solito lavorano bene, era una situazione molto particolare. La magistratura darà delle risposte. Lorenzo Bergomi, legale di Ahmali Arial, marocchino di 36 anni, riferisce di avere avuto un contatto coi familiari interessati al recupero della salma, poi più nulla. Afferma che a molti che si dice abbiano partecipato alla rivolta ora vengono negati i benefici, anche se non sono indagati e non hanno procedimenti disciplinari in corso. Uno di loro è stato riportato in carcere mentre stava scontando la pena ai domiciliari per il sospetto che abbia partecipato perché nella sua cella con altre 3 persone è stato trovato un coltello rudimentale e si trovava nella zona dove hanno sfondato il cancello. Lo abbiamo fatto perché bruciava tutto, mi ha assicurato, negando che il coltello fosse suo.”.

 L’informativa in Parlamento non fa cenno alle cure mediche

Un aspetto da chiarire è quello delle visite mediche. In un’informativa inviata al Parlamento, Franco Basentini, all’epoca capo del Dipartimento amministrazione giustizia, scrive che gli I agenti riuscivano a fiaccare la resistenza aggressiva e violenta dei ribelli, immobilizzare i più facinorosi, condurli allesterno e collocarli immediatamente sui mezzi di trasporto preventivamente predisposti. Non si fa cenno in questo passaggio ad alcuna visita medica. I familiari di Piscitelli, in particolare una giovane nipote che ha chiesto ai pm tramite lavvocato Antonella Calcaterra di sapere come abbia perso lo zio, pensano che forse si sarebbe potuto salvare se fosse stato visitato prima di essere portato nelle Marche. Non è chiaro nemmeno dove sia morto: fonti interne al carcere affermano che sia sia spento nell’ospedale di Ascoli, al cui ingresso non avrebbe presentato segni di intossicazione né lesioni compatibili con violenze, a differenza del detenuto che parla di un decesso in cella preceduto da un forte malessere.

A Bologna la Procura chiede di archiviare 

Nella protesta al carcere di Bologna del 9 e 10 marzo è morta una persona, Kedri Haitem, 29 anni, tunisino. La Procura ha chiesto nei giorni scorsi larchiviazione del fascicolo aperto a carico di ignoti con lipotesi di morte in conseguenza di altro reato. Secondo il pm Manuela Cavallo,  “la ricostruzione dei fatti più plausibile è che la persona deceduta, già destinataria di farmaci per il controllo dellansia e degli stati di agitazione, abbia assunto volontariamente sostanze prelevate abusivamente dalla farmacia del carcere due giorni prima durante la rivolta dei detenuti  e che sia morto per overdose”.

La sera del 10 marzo il ragazzo tunisino al compagno di cella  confida che durante la rivolta ha assunto farmaci, dice che è stanco e che vuole dormire e  a lungo. Alle 12.40 altri detenuti entrano nella cella per parlargli. Il compagno prova a svegliarlo  ma si accorge che non respira più. Solo a quel punto, secondo questo testimone, viene perquisita la cella e sotto il materasso del ragazzo morto vengono trovate 103 pasticche e 6 siringhe. L’unica parte offesa nel procedimento, il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, ha chiesto copia degli atti e non ha ancora comunicato se farà opposizione all’archiviazione.

Sulla ribellione di Bologna, lAGI ha raccolto le parole di un uomo nel frattempo uscito di prigione e ospite di una comunità di recupero: I detenuti albanesi – dice il testimone – hanno fatto partire tutto in modo strumentale, gli altri africani gli sono andati dietro distruggendo tutto e minacciando di morte chi non avesse partecipato. Altri si sono chiusi nelle celle sbarrandole coi letti, intanto alcuni hanno assalito linfermeria prendendo tutto quello che c’era”.

Le lettere dei testimoni: «Stava male, non fu curato, lo mandarono ad Ascoli dove fu bastonato. Era fragile, non ha retto»

MODENA. La pubblicazione di due lettere scritte da detenuti che dicono di essere stati testimoni delle sue ultime ore e dei trattamenti violenti che avrebbe subito apre pubblicamente il caso Piscitellisul quale da mesi sta indagando la Procura di Ascoli e presto indagherà quella di Modena. Salvatore Piscitelli, per tutti Sasà, è uno dei nove morti durante la rivolta dell8 marzo al carcere di SantAnna.

Ma fa parte dei figli di un dio minoredi questa vicenda: i quattro detenuti deceduti durante il trasporto in altro carcere per i quali non si sa nulla delle indagini. In questo caso è morto ad Ascoli. Una vicenda della quale non si conosce quasi niente per il black-out di informazioni ufficiali. Sui tanti aspetti ancora oscuri i familiari, sopratutto la nipote Rosa, ora chiedono lattenzione della magistratura.

Originario di Acerra, ma residente a Saronno, 40enne, Sasà era un tossicodipendente di lunga data che, tra un tentativo e laltro di uscire dalleroina in centri di recupero, sempre falliti, viveva vagabondando e compiendo piccoli furti. A Modena, era finito a SantAnna per aver cercato di utilizzare una carta di credito rubata. Doveva uscire in questi giorni. Invece è uscito in condizioni gravi l8 marzo durante la rivolta. Non si sa neppure se è stato sottoposto a visita medica prima di lasciare SantAnna, anche se è obbligatoria per il nulla osta. Fatto sta che è morto dopo un giorno in cella ad Ascoli, trasferito durgenza allospedale marchigiano. Il fascicolo sul suo caso è aperto in Procura ad Ascoli ma potrebbe passare a Modena.

In ogni caso, non si sa nulla sulla sua autopsia né sulle circostanze e le cause del decesso. Ora vengono rese note due lettere scritte da detenuti che dicono di averlo visto nelle sue ultime ore. Lettere inviate a due giornaliste, una del blog GiustizaMi e laltra allagenzia stampa Agi. Ieri lAgi le ha pubblicate a stralci. I due detenuti danno versioni che concordano in molti punti pur non potendo da quel giorno aver comunicato né tra di loro né con nessun altro.

Entrambi chiedono lanonimato, terrorizzati dal pericolo di gravi ritorsioni in cella. Sono ricostruzioni importanti ma che devono essere vagliate sia per capire sia se sono autentiche sia per capire quanto sono quanto veritiere. Entrambi i detenuti raccontano che, durante la rivolta, sono stati fatti spogliare e picchiati più volte da guardie. Anche durante il trasporto e persino dopo avrebbero preso scariche di bastonate e calci da agenti con passamontagna per non farsi riconoscere. Ma i loro racconti vanno al di là dei pestaggi riferiti, già denunciati da altri – sono in corso due indagini alla Procura di Modena – e raccontano di Sasà Piscitelli. È soprattutto la seconda lettera (che abbiamo avuto modo di farci leggere interamente) a raccontare in dettaglio aspetti gravi: «Quando siamo arrivati ad Ascoli – scrive il secondo testimone – ci hanno scaricato e lo trascinavano fin alla cella e lo hanno buttato dentro come un sacco di patate. Niente infermieri. Non ti lasciavano parlare con nessuno. Lo hanno picchiato di brutto. Ma era troppo debole. Non ha resistito a quelle botte. Forse lui ha preso qualcosa, dei medi.

A SantAnna Piscitelli aveva assunto metadone e altre sostane durante il saccheggio dellinfermeria; stava male ma fu trasferito ad Ascoli. Dellautopsia e di referti che indichino eventuali percosse non si sa nulla.

pubblicato su Gazzetta di Modena

CONTINUA QUI: http://www.senzaquartiere.org/wp-content/uploads/2021/03/Dossier.pdf

CARCERI: UN ISTITUTO DI RISOCIALIZZAZIONE NELLA EX BASE NATO DI BRINDISI. UNA PROPOSTA PER SUPERARE LA QUASI SECOLARE CASA CIRCONDARIALE

Una proposta per realizzare a Brindisi, dove la locale Casa Circondariale va verso il suo centesimo compleanno, un esperimento di risocializzazione dei detenuti nella ex base NATO abbandonata da trent’anni è stata indirizzata al ministro della Giustizia, al sindaco di Brindisi, al presidente della Provincia di Brindisi e ad altre autorità (1) da alcune associazioni di Brindisi e Bologna. Di seguito il testo integrale della lettera aperta.

Basta carceri: si realizzi a Brindisi nella ex base Nato abbandonata un Istituto residenziale per la risocializzazione, un esempio per l’Europa e per tutto il mondo

Aneliamo ad una società che riesca a liberarsi dalla necessità del carcere. Per cambiare registro rispetto alle nostre “patrie galere” occorre certamente anche cambiare il linguaggio. In questo ultimo intento ha provato a cambiare Santi Consolo, già direttore del DAP, con risultati che chiediamo a ognuno di constatare.

Non intendiamo quindi, semplicemente, trasferire la sede di un carcere; il progetto è più ambizioso.

Realisticamente questa nostra sana utopia abolizionista (una società senza carcere) non riuscirà a realizzarsi nell’orizzonte politico, culturale e cronologico del governo Draghi (anche se la ministra Cartabbia si è molto interessata alla funzione risocializzatrice della pena). Allora è forse utile ragionare su un obiettivo intermedio che metta al centro una azione di miglioramento credibile sia dal punto di vita umanitario che scientifico.

La privazione della libertà come strumento per sanzionare comportamenti gravi che hanno danneggiato la libertà e il diritto altrui alla vita e alla salute è prevista dalla Costituzione repubblicana. Purtroppo fino ad ora si è fatto ricorso al carcere quasi che fosse la unica sanzione possibile. Ovviamente la realtà è diversa e la “soluzione carceraria” deve essere utilizzata come rimedio estremo ma non unico. Quando poi il carcere fosse per davvero “necessario” devono comunque essere evitate misure che sconfinino nei trattamenti disumani e degradanti o, peggio, nella tortura, condotte già ampiamente stigmatizzate anche in sede giudiziaria e in sede politica (europea).

Un carcere che risponda al dettato costituzionale è lontano anni luce da quello che è oggi in Italia. Gli antidoti per rendere i penitenziari rispondenti allo spirito della Costituzione sono diversi e complessi. Una delle questioni più importanti è lo spazio, lo spazio disponibile. In tempi di epidemia stiamo assistendo a una rivisitazione del concetto di spazio e dei criteri per definirne i parametri di accettabilità. La fantasia galoppa; sono comparsi banchi a rotelle, ceramiche al biossido di titanio e ascensori no touch. A questa rivisitazione, materia di fervido lavoro per architetti, arredatori, sociologi e psicologi, paiono essersi sottratti i penitenziari. Per lungo tempo al tema del sovraffollamento delle carceri si è risposto misurando le celle col metro da muratore o geometra (lavori meritevoli di grande rispetto ma gli istituti di pena sono cosa diversa da un cantiere edìle) e si è dovuto arrivare a sentenze di Cassazione per sancire, definitivamente, che i tre metri quadrati vitali per persona devono escludere le superfici occupate da letto, armadi e suppellettili. E’ stato necessario un pronunciamento della Cassazione per sancire un minimo di coerenza con i precedenti pronunciamenti della UE. Ma pensare che davvero tre metri quadrati a persona possano essere definiti “spazio vitale” è assurdo. Il parametro proposto ha il senso piuttosto di definire, in termini di real politik e di “requisiti minimi” , il confine al di sotto del quale si sconfina nella tortura. La gestione delle cosiddette attività trattamentali non può essere confinata in spazi così angusti come quelli disponibili attualmente. Gli studi di prossemica, da tempo, studiano il nesso tra spazio fisico, benessere, distress e aggressività. Anzi: gli studi indicano che più i soggetti con cui interagiamo sono disagiati dal punto di vista psicologico e sociale più la carenza di spazio e il sovraffollamento incidono negativamente. Il tema è stato studiato anche in ambito occupazionale (significativa la definizione di “pollaio telematico” per inquadrare il distress connesso con gli open-space in cui venivano collocati i call-center, prima della epidemia). Per i soggetti portatori di problematicità sociali la questione dello spazio deve essere gestita con particolare attenzione a evitare condizioni di costrittività. Anche importanti studi sul sonno (evidentemente più difficile in celle con letti a castello e sovraffollate, per non parlare della battitura delle sbarre) mostrano un nesso tra riposo disturbato e anche (e non solo) aggressività e speranza di salute. E’ stato dimostrato che l’affollamento è associato ai sintomi fisici dello stress (Epstein, 1982) e a una peggiore salute fisica (Fuller ed altri 1993). La spiegazione degli effetti dell’affollamento fa riferimento al controllo dell’accesso al Sé e presuppone una valutazione soggettiva (cognitiva) tra il livello di privacy desiderato e quello effettivo. In altri termini condizioni fisico-ambientali di sovraffollamento e di distress ostacolano qualunque progetto efficacemente riabilitativo. Per questo in alcune tra le più avanzate esperienze in nord Europa e nel mondo, i luoghi in cui gestire la privazione della libertà hanno puntato sulla disponibilità di grandi spazi, anche aperti.

Evidente che la costrittività (la vediamo persino nella privazione o riduzione della luce naturale!) induca depressione e, in senso lato, autolesionismo; e che funzioni anche da pericoloso elemento suicidogeno.

Queste riflessioni – a fronte della evidente condizione di sovraffollamento e fatiscenza del carcere di Brindisi – ci inducono a fare una proposta:

che la sede storica attuale venga evacuata e riconvertita a un differente uso di tipo recettivo, previa ristrutturazione integrale, e che la popolazione attualmente lì ristretta venga trasferita in una parte della ex-base Nato. L’ex base Nato di Brindisi non è più attiva dal 1993 ed è attualmente in carico all’Agenzia del Demanio che nel 2007 ha ceduto a titolo gratuito il 20% all’UNCHR. Si tratta di un’area di 160 ettari, con 260 immobili: una vera e propria città da anni dismessa e abbandonata.

Deve ovviamente far da sfondo a questo progetto una politica nazionale complessiva di decarcerizzazione, possiamo dire “alla olandese” per fare riferimento a un Paese in cui la classe politica – di destra e di sinistra – ha consensualmente cooperato ad una strategia svuota-carceri (veramente) che ha dato ottimi risultati anche nel senso del calo della recidiva, quindi con riflessi positivi non solo di “trattamento morale” delle persone detenute ma con effetti positivi per tutta la società.

Il nuovo contesto consentirebbe di realizzare gli spazi necessari:

refettori, sala teatro, sale didattiche, biblioteche, laboratori e officine per la piena occupazione, spazi per la socialità e l’affettività (tema purtroppo rimosso contestualmente alla “ibernazione” delle importanti conclusioni degli Stati generali per la esecuzione penale), luoghi di culto (plurale!), spazi esterni per attività fisiche, lavorative e sportive.

Il tutto in funzione di programmi di attività trattamentali coerenti con gli obiettivi del reinserimento psico-sociale e lavorativo.

Spazi adeguati devono essere garantiti anche per i lavoratori e – a loro supporto – per una adeguata scuola di formazione che favorisca l’evoluzione della figura dal ruolo di mero custode a quello di agente della risocializzazione. In questo quadro vanno infatti considerate la gravi condizioni di distress che affliggono anche i lavoratori penitenziari come dimostra l’inquietante serie di suicidi di cui abbiamo notizia. Un tema noto da tempo e riesploso con la vicenda del suicidio dell’agente impegnato nel carcere di Turi nel febbraio scorso (i suicidi sono stati 11 nel 2019, 6 nel 2020, già due nel 2021: drammatica punta dell’iceberg di una gravissima condizione di disagio e distress lavorativo). Pensiamo a un ruolo che evolve dalla custodia e dalla dotazione di armi da fuoco per arricchirsi anche delle “armi” ben più efficaci della psicologia sociale.

Progetto velleitario?

In realtà è un progetto che ha letteralmente i piedi per terra più di altri ventilati nell’ultimo decennio. Pensiamo alla proposta di pochi anni fa di “carceri galleggianti con vista mare per detenuti”. Il nostro progetto è più realistico per il semplice motivo che le sue radici sono nella Costituzione, nel benessere della collettività nella sua interezza, nella giustizia sociale e nello spirito umanitario.

Il primo passo per il superamento del carcere è archiviare la storia delle “patrie galere”; sperimentare un ISTITUTO RESIDENZIALE PER LA RISOCIALIZZAZIONE; costruire una esperienza che sia un messaggio per l’Europa e per l’intero pianeta.

Si può fare a Brindisi.

Brindisi – Bologna 3 marzo 2021

Maurizio Portaluri (medico ospedaliero pubblico) e Vito Totire (medico psichiatra e di sanità)

  1. Procuratore Generale della Repubblica Corte di Appello di Lecce, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Lecce, Procuratore della Repubblica di Brindisi, Prefetto di Brindisi, Presidente della Regione Puglia, Direttore Generale dell’Agenzia del Demanio, Direttore dell’Agenzia del Demanio Puglia, Direttore Generale della ASL Brindisi, Garante Nazionale per i diritti delle persone private della libertà, Garante Regionale per i diritti delle persone private della libertà

Redazione
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Un commento

  • Credo che quello che è stato scritto parli da solo e solo chi non ha voglia di “vedere” e “sentire” non può capire. Alcuni pensano “ma perchè parlare dei delinquenti…con tutti i problemi che abbiamo…”.
    Non parlare della violenza nelle carcere e di tutti i luoghi dove gli uomini e le donne non sono considerati tali per potere o repressione, in realtà stiamo contribuendo a rendere meno liberi anche noi stessi e contribuiamo a indebolire la democrazia e la costituzione che definisce che tutti dobbiamo avere la medesima possibilità. E proprio Il carcere e chi si trova all’interno di questo, ci ricorda spesso che questo in realtà non è vero.

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