Contro le gabbie per umani

recensione di Carlo Birocchi a «Il futuro sarà di tutta l’umanità – voci dal carcere» di Antonella Speciale ed Emanuele Verrocchi

libroAntonellaSpeciale

«Inchiodo i miei occhi sui volti distratti, li costringo a vedere: responsabile è chi non ha domande per dubitare, ma solo certezze, vuote e coatte». Rubo questo passo, arbitrariamente, da un racconto di Antonella Speciale («Vittime della cecità») perché le parole riescono da sole a descrivere quel che la scrittrice fa, organizza, anima e, allo stesso tempo, introducono in noi l’inquietudine di chi non sa e sa e di non voler sapere, che preferisce le scorciatoie, le decisioni prese da altri. Perché stiamo parlando di carcere e di giustizia, e del nostro rapporto con chi delinque, con chi “devia” , con chi vive ai margini delle leggi.

Recentemente uscito per le edizioni Dissensi «Il futuro sarà di tutta l’umanità» di Antonella Speciale e Emanuele Verrocchi si segnala immediatamente sin dal titolo fra una nuova e intelligente serie di uscite editoriali che parlano di carcere e che mettono al centro le persone lì rinchiuse: il titolo è un estratto da una poesia di De Andrade che ci porta a pensare a orizzonti comuni, ci dà subito il senso di speranza e di urgenza. Proprio come gli scritti contenuti nel libro che presentano accanto ai lavori elaborati collettivamente da gruppi di detenuti siciliani dei corsi di scrittura autobiografica tenuti da Antonella Speciale, le attente ed essenziali osservazioni dell’autrice accompagnate da note di Emanuele Verrocchi, dirigente del sindacato edili Cgil dell’Aquila, che esamina il problema del reinserimento sociale delle persone detenute e degli ex detenuti attraverso la creazione di reali possibilità di lavoro.

«La scrittura è, credo, puro atto d’amore e di libertà, senza regole e confini. Si scrive come si sogna: per la parte più profonda e nascosta che si è, dentro» scrive Antonella Speciale da anni impegnata in diverse carceri, da quelle per i minori a quelle di “Alta sicurezza”, in un magnifico lavoro teso, come racconta lei stessa «a ricucire lo strappo della mancata fiducia che la società rivolge a queste persone, a ristabilire dei legami, un reciproco rispetto nell’ascolto dell’Altro, senza giudicare» attraverso un confronto, la costruzione di testi collettivi che partendo dalla riflessioni su se stessi e sule proprie esperienze possa essere restituito agli altri compagni di carcerazione e alla società intera, perché ci si possa reintegrare vicendevolmente.

«Dove c’è separazione c’è dolore, sofferenza, dove c’è reintegrazione, unione, c’è pace: la persona che si trova in carcere deve avere la possibilità di reintegrarsi innanzitutto con sé stessa» afferma l’autrice e da subito ci porta a fare i conti con la miseria culturale della nostra società e di noi stessi, con l’assurdità del sistema carcerario e della giustizia. Il percorso dentro questa realtà terribile risulta da subito estremamente diretto e coinvolgente, perché l’autrice ha la rara capacità di portarci con leggerezza ma con decisione nei territori che difficilmente ci capita di voler conoscere. Ci parla di ragazzi di sedici, diciassette anni, o un po’ più e un po’ meno, che scelgono (o pensano di scegliere) la strada, i primi furti, la violenza, per imporsi all’attenzione, consci del rischio di finire in galera e farsi quella gavetta per entrare con medaglia al valore a far parte della manovalanza di una malavita più alta e qualificata. Pensiamo in che deserto culturale crescono questi ragazzi, dove non c’è alcuna alternativa all’apparire, al possesso di beni, alla forza come potere. Non è molto diverso che leggere quei rari reportage ben fatti, provenienti da Paesi africani dilaniati da guerre civili, che ci raccontano come spesso gli eserciti irregolari di ragazzini e bambini siano fatti da minori che vedono nell’arruolamento volontario non solo una via di scampo alla fame e alla solitudine, coi pasti assicurati e la roba da sniffare, ma soprattutto una maniera per esistere come individui.

«Accade allora che dopo il reato questi ragazzi vengono buttati tra cemento e sbarre, in ambienti degenerativi per l’esser umano, proprio nell’età massimamente evolutiva, strappati ad ogni legame affettivo. La carcerazione è il rimedio punitivo: loro rinchiusi, la società più tranquilla. Intanto al loro posto verranno arruolate nuove reclute. Ma loro certo con anni di carcerazione acquisteranno rispetto» si può leggere a pagina 18 del libro. L’autrice ricorda come dai primi incontri coi ragazzi del Minorile fosse da subito colpita dall’adattamento all’ambiente di quelle giovani vite, fino a confondersi con lo squallore intorno. «Il tempo scorre implacabile – scrive un detenuto – non so quanto mi resta, e mi sento ormai parte dell’edificio. Osservo tutto e tutti, scruto ogni movimento, ogni gesto, ogni passo, e, lentamente, mi sento morire, ingoiato da tutto ciò che mi circonda. Senza rendermene conto, sto scomparendo».

Altri detenuti, tutti in “Alta Sicurezza”, cioè sottoposti a una sorveglianza speciale, per il tipo di reati commessi (spesso associativi) raccontano della propria iniziazione ad attività illegali parlando di una vera è propria subcultura , usando proprio questo termine per indicare una situazione di estraneità alla cultura dominante della società. Noi siamo abituati a utilizzare il termine subcultura per definire tutta una serie di comportamenti e modi di essere, di vestire, di esprimersi di aggregati giovanili un tempo marginali e poi diventati contagiosamente universali. Pensiamo al rock degli anni ’50 con le sue varianti teddys in Uk, rebels nel sud degli Stati Uniti, bluson noirs in Francia ecc; pensiamo ai mods e ai punk, al grunge o al rap e alla street art. Tutti movimenti sottoculturali che sono partiti dalla strada come affermazione di un’identità culturale individuale e collettiva opposta, diversa ed estranea a quella della società. E pensiamo a una subcultura malavitosa che prende tutto il peggio della nostra società: l’individualismo, l’apparenza, l’essere legato a una appartenenza, l’iperconsumismo, la forza e la violenza come strumenti di potere e lo fa proprio con esagerazione esponenziale creando semplicemente un effetto speculare a ciò a cui ci si sente estranei. Può tutto ciò essere combattuto con sempre nuove carceri, con nuove restrizioni, nuove leggi repressive?

Nei mesi scorsi il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a proposito dei lavori delle varie commissioni chiamate a confrontarsi sulla situazione carceraria e l’Ordinamento Penitenziario (“gli Stati Generali sulle pene e sul carcere”) ha chiaramente affermato che si dovesse lavorare per attuare finalmente l’articolo 27 della Costituzione il quale vede le pene inflitte per comportamenti illegali finalizzate esclusivamente al reinserimento del condannato. Il ministro ha implicitamente ammesso il fallimento sostanziale della riforma penitenziaria del 1975. Anche allora infatti l’obiettivo era l’applicazione piena del dettato costituzionale. Si trattava in qualche maniera di rispondere con alcuni cambiamenti alla stagione delle lotte che avevano coinvolto tutte le carceri italiane dalla fine degli anni ’60 alla prima metà degli anni ’70, portando all’attenzione pubblica il problema della “devianza”, dei comportamenti illegali e la marginalità sociale e culturale.

La riforma portò alla fine delle lotte e delle rivolte dei detenuti (rimasero, con altri significati, solo quelle legate ai militanti della lotta armata). I meccanismi introdotti erano quelli della “premialità”, che fanno corrispondere un beneficio (sconti di pena, permessi, accesso al lavoro dentro e fuori le mura) alle persone detenute il cui comportamento fosse quello stabilito da nuove figure e nuovi sistemi introdotti nel funzionamento degli istituti di pena: gli educatori, il sistema trattamentale ecc…

«Mi chiedo – scrive un detenuto dei gruppi che hanno partecipato con Antonella Speciale a vari laboratori di scrittura autobiografica nelle carceri siciliane – Mi chiedo: cos’è la rieducazione? Cos’è il diritto? Tutto dipende dal singolo operatore che ti concede fiducia solo se il tuo modo di essere collima con i suoi preconcetti, cioè ti vorrebbero come piacerebbe a loro, anche perdendo la tua personalità». «Vivere qui è tutta una maschera» scrive un altro.

Coerentemente con la sua dichiarazione di essere «contro la gabbia dell’uomo» – e riprendendo alcune affermazioni sul lavoro di Emanuele Verrocchi – Antonella Speciale scrive «Proporrei dunque che i fondi del ministero della Giustizia venissero impiegati non per costruire nuovi edifici penitenziari o per inutili e ulteriori misure di sicurezza (bisogna svuotare le carceri, affinché non continuino ad essere quella “discarica sociale” dentro la quale finiscono, poveri, extracomunitari, tossicodipendenti) ma per finanziare le cooperative e le associazioni che si occupano di lavoro intramurario ed extramurario, per chi usufruisce, per esempio della semilibertà». Ma quello in cui crede, e sa darne prova di indiscutibile efficacia, è l’azione culturale, di riaggregazione e di autoindagine, di riflessione che conducono le associazioni di volontariato, tra mille difficoltà in ogni luogo di detenzione.

«Il carcere è per me, un labirinto dell’assurdo, e più ti ci infili, più non ne esci più» racconta un detenuto. Per chi non ha mai visto mai una prigione da dentro appare Kafka e il suo castello. Ma per chi c’è entrato anche solo in visita, il carcere (che sia ancora una struttura ottocentesca del controllo totale a raggiera del Panopticon di Bentham, sia che sia un tecnologico e automatizzato moderno edificio) rimane una struttura che spersonalizza solo a calpestarne i pavimenti. «Dove mi trovo? In un luogo dove ti costringono a passare il tuo tempo, a privarti delle tue cose, anche le più insignificanti, cose che fuori non ci fai caso…Il carcere è restrizione e castigo. Non ti puoi sentire libero neanche di spostarti, tranne che con la fantasia. Noi siamo liberi di pensare, libertà è fantasia e fantasia è libertà».

Allora entriamo con i detenuti siciliani, nelle aule dei laboratori di Antonella Speciale, nelle biblioteche e dove hanno composto i testi, hanno fatto le prove e i loro spettacoli: l’hanno fatto anche per ciascuno di noi.

Su e di Antonella Speciale

http://www.ristretti.it/commenti/2014/luglio/pdf2/scrittura_catania.pdf

Narrazioni libere | sullacattivastrada in «A-Rivista Anarchica»

La casa editrice Dissensi

http://www.dissensi.it/content/

 

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