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La Bottega del Barbieri

Cop 30 e i problemi dell’ambiente: risposte adeguate?

Per la prima volta nella sua storia, la Conferenza delle Parti (COP) dell’ONU sui cambiamenti climatici si svolge nel cuore dell’Amazzonia, a Belém, cadendo peraltro in una ricorrenza doppiamente simbolica: vent’anni dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto e dieci anni dall’adozione dell’Accordo di Parigi.
Un passaggio che impone un bilancio complessivo della diplomazia climatica internazionale e della sua reale capacità di produrre risultati. Le azioni di mitigazione e adattamento finora messe in campo restano insufficienti, frammentate e diluite dallo stesso impianto decadente del summit sul clima più importante al mondo.

La COP30 arriva dopo cicli negoziali contraddittori e spesso deludenti. Il pessimo accordo raggiunto a Baku durante la COP29 rappresenta, sotto molti aspetti, il punto più basso degli sforzi multilaterali dell’ultimo decennio: i Paesi industrializzati non sono riusciti a garantire ai Paesi più vulnerabili le risorse finanziarie necessarie per decarbonizzare le loro economie e fronteggiare perdite e danni sempre più estesi.
A indebolire ulteriormente il quadro contribuisce l’atteggiamento marcatamente defilato di attori cruciali come Stati Uniti e Russia, di fatto quasi assenti dal tavolo negoziale già da qualche anno, in un contesto politico globale attraversato da retoriche negazioniste, minimizzanti o fuorvianti.

Perché le COP sono ormai incapaci di produrre risultati significativi?

L’analisi delle ultime conferenze mostra un insieme di problemi ricorrenti che non dipendono da singole presidenze o contesti politici contingenti, ma da limiti strutturali del processo negoziale. Non è un caso che, negli ultimi anni, si siano tenute sempre più spesso in parallelo al G20, al quale i leader mondiali danno chiaramente precedenza.

Ma è sempre stato così? Non proprio. Dopo la pandemia, il trend di disinteresse e di crisi delle COP ha preso una sorta di “corsia preferenziale”. Da Glasgow a Baku sono infatti emersi gli stessi nodi irrisolti che, sommati, spiegano perché questi incontri siano diventati forum capaci di produrre Dichiarazioni Finali vaghe e risultati politici limitati, spesso distanti dagli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi.

Il negazionismo climatico dilagante

Innanzitutto, a monte, occorrerebbe chiedersi come si sia giunti a un clima politico in cui sempre più leader di potenze globali bollano la crisi climatica come “una truffa”. È infatti dentro questa spirale di negazionismo retorico che prende forma la paralisi del multilateralismo climatico: dal periodo post-pandemico, e quindi dalla COP26 di Glasgow, il divario tra obiettivi scientifici e decisioni politiche è emerso in modo incontestabile, e l’impasse negoziale è diventata evidente e impossibile da ignorare.

Da quando Trump ha annunciato l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, e la Casa Bianca non invia rappresentanti di alto livello alla COP30, i principali responsabili delle emissioni globali (Cina, India e Russia) hanno seguito questo trend.
Allo stesso tempo, un numero crescente di leader internazionali ha scelto di non partecipare a questi incontri, mentre altri, come Milei, hanno ritirato la propria delegazione durante il loro svolgimento. Il G20 (che si tiene in contemporanea) è diventato la priorità per molti di questi leader, mentre le COP sono ormai percepite come negoziati “di Serie B”.

Tale assenteismo ha poi portato alcuni Paesi, come la Papua Nuova Guinea, a disertare i colloqui, definendo il meeting “una perdita di tempo” incapace di produrre risultati tangibili per i piccoli Stati insulari: una sfiducia “di riflesso” da parte di Paesi che avrebbero tutto l’interesse a rafforzare il processo multilaterale.

Su questo sfondo si sono consolidati gli annacquamenti linguistici che hanno caratterizzato le ultime conferenze: il caso più emblematico risale alla COP26 di Glasgow, quando nella versione finale del Glasgow Climate Pact il riferimento originario al phase out (uscita completa) dal carbone fu modificato all’ultimo minuto, su richiesta decisiva di India e Cina, con l’avallo di altri Paesi produttori, in phase down (diminuzione graduale).

Le conferenze successive hanno accentuato questa tendenza: alla COP27 di Sharm el-Sheikh non si era riusciti né a ripristinare il riferimento al phase out né ad estenderlo a petrolio e gas. La COP28 di Dubai aveva adottato una formula ancora più vaga, parlando di “transitioning away from fossil fuels”, un’espressione che lasciava ampio margine interpretativo e che aveva confermato la difficoltà di adottare un linguaggio coerente con la necessità di eliminare progressivamente l’impiego dei combustibili fossili.

Il paradosso del principio del consenso

È evidente come un altro degli elementi più critici della struttura delle COP sia il principio del consenso: le decisioni si adottano senza voto e solo in assenza di obiezioni esplicite.
Parliamo infatti di un meccanismo pensato per garantire inclusività che, seppur richieda l’unanimità per ogni decisione, nella pratica consegna potere di veto a un pugno di Paesi contrari, da sempre capaci di annacquare o bloccare qualsiasi avanzamento.

Anche un singolo Stato è quindi in grado di bloccare compromessi raggiunti dopo giorni di negoziato.
Va ricordato che il consenso non è mai stato formalmente codificato nel regime climatico: le Rules of Procedure della Convenzione quadro sul cambiamento climatico del 1992 non sono state approvate in via definitiva e lasciano aperta la possibilità, almeno sulla carta, di ricorrere al voto a maggioranza qualificata in caso di mancato accordo.

Eppure, nella prassi, il consenso è diventato l’unica via percorribile, cristallizzando un meccanismo che produce stalli ricorrenti e impedisce decisioni tempestive in un contesto che richiederebbe capacità di adattamento e rapidità.

A questo si aggiunge la trasformazione delle COP in eventi di dimensioni sempre più imponenti, con decine di migliaia di partecipanti, una molteplicità di iniziative parallele e un’agenda che si dilata ben oltre il negoziato vero e proprio. Il risultato è un processo dispersivo, una sorta di “fiera” in cui l’attenzione politica e mediatica si concentra spesso sugli annunci più simbolici, mentre il lavoro tecnico fatica a procedere.

L’assenza di vincoli giuridici stringenti rende poi gli impegni climatici sostanzialmente volontari, facilmente aggirabili e spesso scollegati dagli obiettivi fissati dalla scienza.
Negli ultimi anni non sono mancati tentativi di rendere il sistema più snello: per la COP30 di Belém, la presidenza brasiliana ha istituito i “COP30 Circles”, gruppi di lavoro che operano in parallelo ai negoziati ufficiali per facilitare il dialogo su temi specifici.
Ma si tratta di iniziative legate alla volontà delle singole presidenze, prive di un fondamento giuridico stabile e quindi incapaci di incidere in modo duraturo.

Finché non si affronterà la questione procedurale, questi incontri continueranno a produrre decisioni tardive, annacquate e disallineate con l’urgenza indicata dalla scienza. Non è un caso che nelle ultime COP si sia assistito alla proliferazione di accordi multilaterali settoriali (BOGA, Accordo sulla deforestazione al 2030, ecc.), evidenziando una progressiva frammentazione dell’azione climatica internazionale.

L’impasse dei fondi per il clima

A tutto questo si somma la persistente asimmetria tra Nord e Sud del mondo, irrisolta fin dai tempi di Kyoto: le economie più fragili e vulnerabili chiedono risorse, strumenti e trasferimenti tecnologici che le economie avanzate non hanno mai fornito nella misura promessa, alimentando sfiducia e tensioni diplomatiche.

La COP27 di Sharm el-Sheikh, nonostante l’importante risultato dell’istituzione del Fondo per i danni causati dal cambiamento climatico (Loss and Damage Fund, richiesto da oltre trent’anni dai Paesi vulnerabili), non era riuscita a definirne né la struttura né la governance.

Originariamente pensato come fondo di risarcimento finanziato dalle grandi economie storicamente responsabili del surriscaldamento globale, sul fronte finanziario è rimasto sostanzialmente paralizzato: i soli 768 milioni di dollari mobilitati coprono appena lo 0,2% dei bisogni annuali stimati per i Paesi vulnerabili (che oscillano tra i 100 e i 600 miliardi di dollari).

A Baku, durante la COP29, il clima di pessimismo era palpabile e l’assenza di leadership da parte delle principali economie ha ulteriormente compromesso i negoziati. La discussione sugli impegni finanziari post-2025 si è arenata di fronte alla distanza incolmabile tra risorse necessarie e disponibilità effettive.

Da oltre quindici anni i Paesi sviluppati promettono risorse che non arrivano, o arrivano in forma discontinua, imprevedibile e spesso contabilizzate in modo opaco. Anche il Green Climate Fund, che avrebbe dovuto rappresentare il principale motore finanziario per mitigazione e adattamento nei Paesi in via di sviluppo, continua a soffrire di una cronica insufficienza di capitali: i cicli di rifinanziamento procedono a rilento, alcuni Stati accumulano ritardi pluriennali nei versamenti e la capacità effettiva di sostenere progetti su larga scala è limitata da procedure lente e farraginose.

Location emblematiche e “lobbismo fossile”

Diciamocelo: cosa ci si potrebbe aspettare da conferenze ospitate in Paesi così legati all’estrazione e all’esportazione di fonti fossili? Le COP di Dubai e Baku, capitali di petrolio e gas, o quella di Sharm el-Sheikh in Egitto (Paese che, tra l’altro, viola costantemente i diritti umani) sono pessimi biglietti da visita.

Queste leadership controverse hanno aperto le porte alla crescente presenza delle lobby fossili all’interno dei negoziati, che hanno progressivamente condizionato il linguaggio e la stessa struttura del processo decisionale.

L’obbligo introdotto nel 2023 di dichiarare pubblicamente chi si rappresenta ai tavoli della conferenza ha reso visibile ciò che per anni avveniva nell’ombra: alla COP28 di Dubai sono stati registrati 2.456 lobbisti dei combustibili fossili, più delle delegazioni di molti Paesi e quasi il doppio dei rappresentanti complessivi delle dieci nazioni più vulnerabili al cambiamento climatico.

Una sproporzione che rivela il grado di permeabilità di queste conferenze agli interessi industriali e che, in alcuni casi, arriva a coinvolgere direttamente i governi.

L’Italia, ad esempio, alla COP29 di Baku, ha accreditato oltre 20 lobbisti nazionali del settore oil & gas, includendo nelle proprie delegazioni Eni, Saipem, Snam e altri soggetti i cui modelli di business restano strutturalmente dipendenti dall’espansione delle fonti fossili.

La contraddizione è evidente: gli stessi governi chiamati a stabilire calendari credibili di fuoriuscita dai combustibili fossili portano al tavolo gli attori più interessati a ritardare o diluire tali impegni. Il risultato è un processo negoziale inquinato dall’interno, in cui i termini più ambiziosi vengono sistematicamente sterilizzati, il riferimento esplicito al phase out scompare o viene diluito in formule vaghe e i testi finali si trasformano in compromessi calibrati per non disturbare chi contribuisce maggiormente alla crisi climatica.

Quale futuro per le COP?

La crisi delle Conferenze delle Parti non appare come un incidente di percorso, ma come il segnale di un logoramento profondo del multilateralismo climatico. È un sistema nato trent’anni fa, in un contesto geopolitico completamente diverso, che oggi fatica a reggere la velocità e la scala dell’emergenza.

Eppure, per quanto imperfetti, questi incontri restano l’unica arena universale in cui quasi duecento Stati possono confrontarsi su un tema che non conosce confini. Il rischio, ora, è che questa architettura perda gradualmente rilevanza senza che venga costruita un’alternativa credibile.

La COP30 di Belém arriva quindi in un momento in cui la diplomazia climatica è chiamata non solo a prendere decisioni, ma a dimostrare di essere ancora in grado di prenderle.
Se non riuscirà a colmare il divario tra scienza e politica, tra ambizioni dichiarate e strumenti reali, tra urgenza e capacità decisionale, il processo rischierà di trasformarsi definitivamente in una vetrina.

 

tratto da italiachecambia.org – redazione

La conferenza sul clima nel cuore della foresta amazzonica, fra iniziative dal basso e promesse disattese

È iniziata la conferenza sul clima di Belem, alle porte della foresta amazzonica, da anni al centro delle questioni ambientali e della lotta al cambiamento climatico; almeno in apparenza.

JairLa giornalista Michela Loddo ci racconta la situazione.

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Durante l’ultimo governo di Jair Bolsonaro, il Brasile si è reso protagonista di una retrocessione senza eguali rispetto alle politiche ambientali. A quanto emerge da uno degli ultimi rapporti di Greenpeace, dal 2019 al 2022 la deforestazione in Amazzonia è aumentata del 75%, mentre gli incendi dolosi sono cresciuti del 24%. A questi dati si aggiungono quelli dell’Istituto brasiliano di ricerche spazialI, che evidenziano come tra l’agosto 2020 e il luglio 2021 siano stati distrutti 13.200 chilometri quadrati di foresta amazzonica.

A causa della politica negazionista nei confronti del cambiamento climatico portata avanti dal precedente governatore, non da poco condannato a 27 anni di carcere per un tentativo golpe dopo le elezioni perse nel 2022, gran parte della regione amazzonica è stata devastata da attività illegali legate all’estrazione dell’oro, alla vendita di animali e al traffico di legname, con l’unico scopo di trarre profitti dallo sfruttamento delle ricchezze naturali. Tutte queste politiche hanno giocato un ruolo centrale in quella che lo scorso anno è stata definita la più grande alluvione brasiliana. Le piogge di aprile e maggio 2024 infatti hanno provocato la morte di 150 persone e costretto altre 500.000 allo sfollamento.

Con il governo di Luiz Inácio Lula da Silva, in carica dal 2022, la situazione appare migliorata, ma solo in parte. Il nuovo presidente ha incentrato il suo programma politico sullo stop alla deforestazione illegale entro il 2030 e sulla trasformazione di molte aree in riserve protette. A confermare questo miglioramento gli ultimi rapporti dell’Inpe, dai quali emerge che sotto il governo Lula la deforestazione in Amazzonia si è ridotta del 33,6%nel 2023 rispetto al 2022 e che nel 2024 è diminuitadel 30,6% rispetto al 2023, segnando il tasso più basso degli ultimi nove anni.

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Foto di Luca Locatelli

Una svolta dalla portata storica, se non si pensa che ancora oggi, ogni giorno, nei territori amazzonici vengono tagliati circa un milione di alberi, con l’unico fine di creare spazi per le esplorazioni e le estrazioni minerarie, oltre che per gli allevamenti di bovini e le piantagioni di soia. Secondo studi recenti, uno tra i quali pubblicato nel febbraio 2024 su Nature, tutti questi fenomeni sono responsabili di uno stress senza precedenti nella regione, che entro pochi decenni potrebbero condurre al collasso definitivo dell’Amazzonia.

Cosa aspettarsi dalla COP 30

Si è aperta lunedì a Belém la COP30, l’annuale Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, il più grande evento globale in cui i governi dei 198 Paesi firmatari si riuniscono per concordare misure e azioni per contrastare il cambiamento climatico. La decisione di ospitare la trentesima edizione della Conferenza in una città amazzonica si configura come una scelta politica di alto valore simbolico: un’occasione per riportare al centro del dibattito mondiale il ruolo fondamentale della foresta amazzonica e dei popoli che la abitano per il nostro pianeta.

L’evento cade a dieci anni esatti dalla firma dell’Accordo di Parigi, che portò alla definizione di un obiettivo specifico e condiviso: evitare che entro la fine del secolo la temperatura media globale aumenti di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, con l’impegno a tenersi al di sotto dei 2 °C. Lo scopo della Conferenza, dunque, è mettere ordine e fare il punto sugli impegni presi e sulla valutazione dei piani d’azione climatici nazionali aggiornati: per mantenere vivo l’obiettivo di Parigi si punta a definire nuovi e più ambiziosi progetti per ridurre drasticamente le emissioni globali del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019.

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Foto di Stefano Mancuso

Lula ha scelto di assumere la presidenza della conferenza, promettendo di rallentare in modo più incisivo la deforestazione nelle regioni amazzoniche, riducendo al tempo stesso le emissioni di gas serra brasiliane. Tuttavia la promessa di arrivare a un livello di deforestazione zero entro il 2030 e di una transazione ecologica, su cui Lula ha condotto l’intera campagna elettorale, mal si concilia con l’autorizzazione all’esplorazione petrolifera al largo dell’Amazzonia a favore dell’azienda brasiliana Petrobras. Il progetto, fortemente sostenuto dal presidente, si configura come il simbolo delle sue contraddizioni, in forte contrasto con gli impegni promossi e con gli obiettivi del vertice.

Oltre a ciò, quella che sin dagli albori è stata presentata come la “COP del popolo”, si profila in realtà come la più escludente e classista di sempre: Belém accoglie un milione e mezzo di abitanti, dista circa cento chilometri dall’oceano Atlantico e non possiede infrastrutture adatte a ospitare grandi eventi internazionali. A causa dell’altissima domanda e della minima offerta, secondo un’inchiesta condotta da O Globo, i prezzi delle camere sono aumentati di oltre settanta volte. Questo comporta inevitabilmente la mancata partecipazione di molti reporter e giornalisti, delle delegazioni, delle ONG amazzoniche e delle stesse comunità locali, prime protagoniste e responsabili di una vera transizione ecologica.

L’impegno di Amazônia ETS per la foresta amazzonica

Durante la mia permanenza in Brasile ho avuto modo di parlare con Emanuela Evangelista, biologa della conservazione e attivista ambientale, da 25 anni impegnata nella difesa dell’Amazzonia, della sua biodiversità e dei suoi popoli. La studiosa, arrivata per la prima volta nella regione nel 2000 come ricercatrice scientifica, oggi vive nel piccolo villaggio di palafitte di Xixuaú ed è presidente dell’associazione Amazônia, da lei fondata nel 2004.

Amazônia ETS è un’organizzazione no-profit impegnata da vent’anni nella protezione della foresta amazzonica, anche reperendo fondi e finanziamenti da portare in Amazzonia per realizzare progetti insieme alle popolazioni locali. Uno tra i più recenti è il riconoscimento del Parco Nazionale dello Jauaperi come area protetta, che ha permesso la conservazione di 600.000 ettari di foresta intatta, un’estensione pari a due terzi della Corsica.

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La biologa Emanuela Evangelista (foto di Erik Falk)

Emanuela Evangelista è fra le persone delegate che partecipano alla COP 30. «Il futuro della foresta è cruciale per affrontare il cambiamento climatico e dipende dalla nostra capacità di unire le forze con le comunità locali, suoi guardiani», ha dichiarato la biologa. «La COP delle Amazzonie vedrà una delle maggiori mobilizzazioni sociali della storia delle COP. Ci aspettiamo una partecipazione massiccia dei popoli della foresta, nei dibattiti e negli eventi paralleli. Indigeni, popolazioni tradizionali e movimenti urbani si stanno preparando da tempo a questo appuntamento ed è essenziale che le loro voci siano ascoltate e comprese durante la conferenza».

A questo scopo, il giorno dell’inaugurazione Amazônia ha presentato l’incontro “Amazzonia: strategie e buone pratiche per evitare il collasso – Un’esperienza di 25 anni”, un dialogo tra Europa e Brasile dedicato alle sfide e alle soluzioni concrete per la conservazione della foresta e la valorizzazione delle comunità locali. Il 17 novembre Amazônia sarà presente in un side event internazionale co-organizzato con Amazon Charitable Trust, dal titolo: “Amplificare le voci di giovani, donne e popolazioni indigene: iniziative per una giustizia climatica equa”.

Emanuela Evangelista conclude augurandosi «che si porti il focus delle discussioni sulla deforestazione – non solo amazzonica – e sulle soluzioni basate sulla natura e che il contesto unico in cui questa COP si svolge crei le condizioni per negoziati più ambiziosi e impegni più robusti».

 

tratto da terzogiornale.it

La Cop30 in Amazzonia

Al centro il Brasile e la Cina. Dieci anni dopo, un passaggio di testimone?

 

E siamo a trenta! Il trentesimo incontro della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop). Dieci anni dopo lo storico accordo di Parigi sul clima, la comunità internazionale fa il punto della situazione dal 10 al 21 novembre a Belém, in Brasile. In Francia, nel 2015, tutti i Paesi partecipanti si erano impegnati a mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei due gradi e, almeno idealmente, entro 1,5 gradi entro fine secolo. La scelta di Belém è dovuta al fatto che si tratta di un luogo altamente simbolico, dato che è situata in Amazzonia, enclave strategica decisiva per fermare il riscaldamento globale.

Diverse delegazioni nazionali avevano avanzato la richiesta di spostare altrove la Cop per le difficoltà di raggiungere il luogo, e per le limitate strutture dell’accoglienza; ma il presidente brasiliano Lula ha ostinatamente insistito sulla scelta di un luogo con una forte valenza simbolica, anche perché voleva mettere bene in luce la questione delle foreste. Il suo progetto principale per la Cop30 è la creazione del Tropical Forest Forever Fund (Tfff), un fondo per finanziare la conservazione delle foreste tropicali e difenderle dai processi di deforestazione che ne stanno, di anno in anno, riducendo l’estensione.

Il Brasile, inoltre, sta cercando di assumere un ruolo guida nella mobilitazione per impegni e azioni concrete di fronte all’emergenza climatica. Per questo motivo, si è scelto il titolo di Cop of Implementation (ovvero “della attuazione”), mettendo l’accento sul fatto che l’incontro rappresenta un’opportunità per promuovere la transizione energetica in modo pianificato, per accelerare rispetto ai traccheggiamenti che hanno caratterizzato gli ultimi incontri di questo tipo, e per provare a trasformare generici impegni in risultati concreti. La presidenza brasiliana, quindi, propone un’“agenda di azione”, con lo scopo di costituire coalizioni di Paesi, attori economici e organizzazioni della società civile, che si unirebbero volontariamente per compiere progressi su questioni chiave, cioè a dire un nuovo sistema di alleanze mirato al raggiungimento di determinati obiettivi. Il Brasile, per esempio, vorrebbe che venissero ottenuti progressi sulle emissioni di metano, un gas serra responsabile di un quarto del riscaldamento globale, ma il cui rilascio nell’atmosfera potrebbe essere largamente circoscritto se non del tutto evitabile.

Su un punto ha certamente ragione il governo brasiliano, sul fatto che sarebbe veramente il tempo di trasformare il dibattito in azione, di preoccuparsi di proteggere vite umane, di garantire giustizia sociale e ambientale e preservare la foresta. Proprio per dare la maggiore diffusione possibile a questi temi, il governo ha perciò pensato a un’iniziativa che coinvolga massicciamente la società civile, compresi i popoli indigeni e le comunità tradizionali, e in cui si metta al centro il ruolo della giustizia climatica e la valorizzazione delle conoscenze ancestrali. A Belém, le discussioni si concentreranno anche sulla giustizia climatica. L’obiettivo è garantire che la transizione ecologica sia equa, in particolare per le popolazioni più vulnerabili agli effetti del global warming.

Un richiamo all’azione, dunque, che pare indispensabile, anche perché è chiaro che le cose stanno andando male: è possibile un drammatico aumento del riscaldamento globale. Senza ulteriori misure di protezione e di contenimento delle emissioni, è più che probabile che l’obiettivo di 1,5 gradi venga presto superato, come ha annunciato il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) in un allarmato report recentemente pubblicato.

Le nazioni che hanno aderito all’accordo di Parigi del 2015 sono ancora lontane dal raggiungere l’obiettivo di limitare il riscaldamento al di sotto dei 2 °C, pur continuando a parole a perseguire gli sforzi per rimanere al di sotto di 1,5 °C. Obiettivo che sembra sempre meno realistico, se non per il momento irraggiungibile. Entro il 2035, saranno necessarie riduzioni delle emissioni annue del 35% e del 55% rispetto ai livelli del 2019, se si vorrà provare ad allinearsi ai due percorsi previsti dall’accordo di Parigi. Data l’entità dei tagli necessari, dati il breve tempo a disposizione per realizzarli e il difficile clima politico, dobbiamo invece attenderci che avvenga un rilevante superamento dei 1,5°C, che dovrebbe verificarsi molto probabilmente entro il prossimo decennio.

La posta in gioco sarà presto come recuperare questo sfondamento della soglia, in quale modo fare marcia indietro. Il rapporto rileva che è indispensabile che il superamento venga limitato attraverso riduzioni più rapide e consistenti delle emissioni di gas serra, se si vogliono    minimizzare i rischi e i danni climatici e rientrare intorno a 1,5 gradi entro il 2100. Obiettivo ancora raggiungibile in teoria, anche se estremamente impegnativo. Ogni frazione di grado evitata significa minori perdite per le persone e gli ecosistemi, minori costi e minore dipendenza da tecniche ancora incerte di rimozione dell’anidride carbonica per tornare a 1,5 °C entro il 2100. Tanto più che le tecnologie necessarie per ridurre drasticamente le emissioni sono disponibili. Lo sviluppo dell’energia eolica e solare è in forte espansione, riducendo i costi di implementazione. Ciò significa che la comunità internazionale può accelerare l’azione per il clima, se lo desidera. Tuttavia, per ridurre più rapidamente le emissioni, occorrerebbe la capacità di destreggiarsi in un contesto geopolitico difficile, aumentando notevolmente il sostegno ai Paesi in via di sviluppo e riprogettando l’architettura finanziaria internazionale.

Ma la crisi che hanno fatto segnare gli ultimi incontri Cop non fa ben sperare: la situazione internazionale è cambiata radicalmente dalla Conferenza di Parigi. La pandemia e le guerre hanno finito per far passare in secondo piano la questione della protezione del clima. La cooperazione tra i due maggiori inquinatori climatici, Stati Uniti e Cina, che avevano reso possibile l’accordo, nell’attuale temperie politica è difficilmente concepibile. Al contrario, gli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump che ritiene il global warming una frottola, si stanno ritirando nuovamente dall’accordo, anche se non potranno farlo completamente prima del la fine del 2026.

L’incontro di Belém mira a cercare di garantire che gli altri Paesi mantengano comunque la rotta intrapresa. Ma l’Unione europea, che ama definirsi pioniera in materia di politica climatica, non sta dando il buon esempio: prende tempo, anche per il crescere del peso politico nell’Unione di partiti negazionisti. La Ue avrebbe dovuto presentare un aggiornamento del suo impegno alle Nazioni Unite già in febbraio. Ma Francia e Polonia, tra gli altri, hanno bloccato un accordo in merito. È stato lasciato ai ministri responsabili degli Stati membri il compito di raggiungere una decisione definitiva nell’ultimo tratto di percorso prima di Belém, e di definire gli obiettivi per il 2040. Dalla riunione tenutasi a Bruxelles, la proposta iniziale di compromesso è uscita indebolita, ed è stato concordato un contributo da portare a Belém solo all’ultimo minuto (vedi qui).

Tutto questo fa sorgere dubbi sulla determinazione dell’Europa a proseguire sul percorso intrapreso. Con il ritiro degli Stati Uniti, il successo del vertice in Brasile dipende ora dal Paese ospitante, dalla stessa Unione europea e dalla Cina, il più grande inquinatore climatico al mondo. A differenza dell’Unione, che pare titubante, Pechino ha presentato un suo obiettivo climatico a fine settembre, dimostrando così un’aspirazione alla leadership, nonostante gli esperti siano critici sul contenuto dell’impegno cinese, che appare troppo graduale e blando.

Staremo a vedere, dunque, quali saranno i risultati concreti raggiunti a Belém, che sembra quasi segnare un passaggio di testimone, in cui l’iniziativa si trasferisce a Paesi diversi da quelli che furono all’origine degli accordi di dieci anni fa, con il possibile consolidamento di un asse Brasile-Cina. Molto tempo è ormai trascorso improduttivamente: gli assetti geopolitici sono cambiati, e con essi si è aperta una nuova contesa per la leadership planetaria, di cui anche la questione ambientale diviene una delle poste in gioco, mentre il ticchettio dell’orologio del riscaldamento globale si fa sempre più forte.

 

tratto da wired.it

Cop30

14.11.2025

Quanti lobbisti del fossile ci sono alla Cop30? Troppi, solo la delegazione del Brasile è più numerosa

Una persona su 25 tra quelle che si incrociano nei corridoi e nelle sale della Cop30 fa parte di compagnie petrolifere o legate ai combustibili fossili
lobbisti del fossile cop30 brasile
Una delle sale della Cop30 di BelémMAURO PIMENTEL/AFP via Getty Images

Cop30 di Belém, tutto quello che c’è da sapere sui negoziati per il clima

Belém, Brasile – Ci sono più di 1.600 lobbisti del fossile alla Cop30, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite che quest’anno si tiene a Belém, alle porte dell’Amazzonia. L’analisi è della Kick Big Polluters Out, la coalizione a cui si riferiscono numerose ong.

Secondo l’analisi, quella che potremmo definire “la delegazione delle fonti fossili” supera di gran lunga quella di qualunque paese alla Cop per numero di badge. Solo il Brasile, che organizza e ospita l’evento, ne ha di più (3.805). Non è una novità, certo, ma la tendenza non sembra nemmeno rallentare. Anzi, 1 partecipante su 25, dicono i dati, sarebbe legato al mondo dell’oil&gas, responsabile di una porzione importante delle emissioni di gas serra a livello globale. In proporzione al numero totale di partecipanti, quest’anno si sarebbe registrato un aumento del 12%. “È la concentrazione più alta da quando conduciamo l’indagine”, scrive Kbpo, che definisce “soverchiante” la presenza del settore degli idrocarburi a Belém. Secondo il resoconto, i lobbisti del fossile avrebbero ricevuto due terzi dei pass in più rispetto ai paesi meno sviluppati.

I lobbisti del fossile alla Cop30 si muovono dietro le quinte

Come già sottolineato da altri rapporti, le associazioni di categoria “restano un veicolo primario di influenza, imbarcando delegati da giganti come TotalEnergies e Bp. L’accesso ai luoghi dove si discute informalmente resta il problema principale. Secondo la coalizione, circa 599 lobbisti del fossile potrebbero entrare nelle sale negoziali grazie al badge Party overflow, una zona grigia che nemmeno il giro di vite degli scorsi anni è riuscito a illuminare. Per party, in questo contesto, si intendono i paesi. Possedere questo distintivo significa essere parte delle delegazioni nazionali. La Francia ne ha portati 22 (di cui cinque da TotalEnergies, incluso l’amministratore delegato Patrick Pouyanné); il Giappone 33, tra cui rappresentanti della Mitsubishi Heavy Industries e di Osaka Gas. La Norvegia, dal canto suo, si ferma – si fa per dire – a 17, inclusi sei dirigenti del gigante petrolifero Equinor. Le pressioni della società civile hanno fatto sì che da quest’anno, per la prima volta, sia stato necessario dichiarare la propria affiliazione, oltre a dare conferma che gli obiettivi individuali sono allineati con quelli della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) che organizza le Cop dal 1995. Se, da una parte, il tentativo ha senso, dall’altra è innegabile che l’influenza delle big corporation si somma a quelle degli Stati ostili alla transizione energetica, rallentando il processo.

La Cop30 è diventata una piattaforma per il greenwashing aziendale”, dice Ranjana Giri della Asia Pacific Forum on Women, Law and Development (Apwld). “Cop dopo Cop, i numeri parlano da sé”, aggiunge Nathalie Rengifo Alvarez della Campaña Que Paguen Los Contaminadores América Latina. “La Cop30 non è più una conferenza delle parti, ma di inquinatori”, rintuzza Pascoe Sabido, di Corporate Europe Observatory.

E l’Italia?

Per l’Italia col badge party overflow ci sarebbero rappresentanti di Acea, Edison, Enel e Eni. Ai negoziati sul clima di Belém, con il badge riservato alle organizzazioni non governative, sono presenti due persone affiliate alla Fondazione Eni Enrico Mattei.

 

Brasile, prosegue la Cop30: migliaia di persone in marcia per la salute e il clima invadono la zona blu

 

 12 novembre

Prosegue a Belem, in Brasile, la Cop30, la trentesima conferenza dell’Onu sul clima. All’esterno del summit, nel centro della capitale dello stato amazzonico del Parà, migliaia di persone hanno dato vita alla Marcia globale per la Salute e il clima.

Al termine del corteo un gruppo di manifestanti ha invaso la zona blu, area diplomatica del vertice, contro lo sfruttamento petrolifero in Amazzonia, oltre a slogan come “tassare i miliardari” e “Il governo mente: la foresta e i popoli non stanno bene”.

La mobilitazione è stata convocata dalle comunità native, Collettivo Juntos – che rivendica salari e diritto alla salute – e Movimento Sem Terra.

👉Da Belem Vincenzo Ghirardi cooperante italiano da 27 anni in Brasile per conto della ong bresciana No One Out.

Il commento di chi ha curato la raccolta degli articoli: è sotto gli occhi di tutte che il sistema economico capitalista non è compatibile con l’ambiente, il rispetto delle comunità, delle donne, dei paesi meno ricchi. Sintetizzando: non è compatibile con la vita su questo pianeta.
ES

 

Enrico Semprini

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