Covid: la paura si aggira per il mondo

di Mariano Rampini

«Uno spettro si aggira per l’Europa…»: questo il famoso incipit (più lungo e dettagliato) con cui Marx apriva il suo Manifesto del partito comunista. Oggi parafrasandolo – con la dovuta umiltà – potremmo affermare che «Un virus si aggira per il mondo» aggiungendovi una postilla: «quello spettro è la paura». Perché a ben vedere l’impatto che il Covid (Coronavirus Sars-Cov-2) ha avuto sull’intero mondo è stato davvero terrificante. Non intendo disquisire sul come e sul perché il virus si sia diffuso, né tantomeno pretendo di poter confutare o sostenere l’universo mondo di esperti che si sono susseguiti in questi due ultimi anni. Non ne ho né la preparazione, né la capacità.

Vorrei però parlare con gli amici della Bottega (che mi ha sollecitato a portare un po’ della mia esperienza nel settore della politica sanitaria e farmaceutica) delle paure, anzi della paura, che ha circondato e circonda non solo il virus ma anche e soprattutto i rimedi che sono stati messi in campo per contrastarne l’avanzata così come gli effetti più gravi e quelli mortali.

Non è possibile dimenticare le voci che si sono susseguite all’indomani dell’esplosione della pandemia: «non è cosa grave», «è cosa gravissima», «nasce nei laboratori cinesi». «non nasce dai laboratori cinesi ma arriva dagli animali per l’eccessiva antropizzazione», «si risolverà in poco tempo», «durerà a lungo». Non c’è che dire: se ripensiamo a quanto ascoltammo nei primi momenti di stretto rapporto con una delle malattie più insidiose con cui l’umanità intera ha avuto a che fare, la confusione regnava sovrana. Di quella confusione non pochi hanno approfittato per tentare di conquistare consensi nella pubblica opinione: Boris Johnson, il leader inglese, già all’indomani delle prime cifre sulla capacità mortale del virus, spingeva (insieme a scienziati britannici) a farsi infettare per sviluppare rapidamente la cosiddetta immunità di gregge. Parole che devono essergli rimaste in gola quando lui stesso è caduto vittima di una forma non gravissima del virus. Con lui Trump, l’uomo che avrebbe dovuto riportare gli Usa ai fasti di un tempo. Quante volte abbiamo assistito ai suoi siparietti con Anthony Fauci (immunologo di fama mondiale grazie ai suoi studi sull’Hiv e l’Aids e consulente per la salute della Casa Bianca). Una posizione simile assunse anche Bolsonaro, il presidente brasiliano che affermò di poter sconfiggere il Covid a forza di muscoli prima di essere anche lui colpito dal virus. In questo quadro anche i famosi CDC – i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie spesso assurti a difensori della salute del mondo in più di una pellicola holliwoodiana – fecero cilecca. Poco alla volta si giunse all’adozione di quella che appariva come l’unica, vera possibile barricata contro l’avanzare del Covid: il famigerato lockdown.

Questa sorta di «serrata globale» che ha tenuto bloccati in casa milioni di persone qualche risultato l’ha ottenuto, almeno nell’abbassare i numeri sempre più spaventosi di coloro che morivano per Covid. Insieme al «distanziamento sociale» e alle mascherine (diventate di uso comune quasi quanto le cinture di sicurezza sulle automobili) il lockdown bloccò la maggior parte delle attività produttive nei Paesi più industrializzati. Ma impedì anche al virus di proseguire nella sua avanzata trionfale (lungi da me attribuire a un microscopico essere vivente una logica guerrafondaia e imperialistica: il virus come qualsiasi altro appartenente al regno animale si muove sotto la spinta dell’insopprimibile istinto di sopravvivenza).

Questo brevissimo e assolutamente incompleto resoconto cronologico della pandemia era necessario per tornare al tema centrale di questo scritto: un ragionamento sulla paura. Perché tutte le voci (meglio le grida) levatesi contro il virus ma anche contro i mezzi (qualunque mezzo) adottati per fronteggiarlo, sembrano avere un comun denominatore. Il timore che attraverso il virus sia in atto una qualche forma di complotto mondiale che ha come obiettivo l’annientamento della coscienza individuale e il dominio non solo sui corpi ma soprattutto sulle menti delle popolazioni. Un complotto che in ogni Paese assume connotati diversi ma tutti ugualmente riconducibili al timore – meglio, alla paura – di subire forme di condizionamento del pensiero. Tutto attraverso uno strumento di uso comune come pochi: il medicinale.

Dalla fine del secolo XIX fino agli anni ’50, cioè pochi anni dopo il termine del secondo conflitto globale, l’umanità ebbe a che fare con svariate epidemie (rabbia, colera, vaiolo solo per citarne alcune e cito Pasteur, di Kock come coloro che diedero il via alle prime campagne vaccinali) ma anche con vere e proprie pandemie. Quella che produsse più vittime fu un’epidemia di influenza, la cosiddetta Spagnola causa di svariate decine di milioni di morti nel mondo. Fu, forse, il primo vero contatto con il ceppo influenzale H1N1 con il quale abbiamo continuato a convivere poiché il ceppo a cui appartiene è quello della comune influenza che ogni anno, puntualmente, torna a farsi viva.

Torniamo alla Spagnola. Fu proprio in quegli anni che l’industria farmaceutica come oggi la conosciamo cominciò a muovere i primi passi. Già erano in circolazione alcuni medicinali come la morfina, ben conosciuta sui teatri di più di una guerra ma anche unico rimedio come il dolore. Mentre dalla fine del secolo XIX aveva fatto la sua comparsa un farmaco di sintesi notissimo a tutti: l’Aspirina. Non c’era molto altro negli armamentari medici e contro la devastante epidemia influenzale di Spagnola l’unico rimedio che ebbe qualche effetto fu una sorta di lockdown ante litteram. Forse anche la difficoltà negli spostamenti fra un continente e l’altro che, poco alla volta, condussero a una completa attenuazione degli effetti del virus. Ci sono foto d’epoca che mostrano cittadini indossare sul volto qualcosa di simile alle attuali mascherine…

La manifestazione di queste malattie diede un impulso notevole alla ricerca di farmaci. I primi antibatterici a entrare in scena furono i sulfamidici. Ma la vera svolta ci fu nel 1928 quando per uno «scherzo» del destino (poi codificato sotto il curioso nome di serendipity) Alexander Fleming individuò la penicillina. Iniziava l’era degli antibiotici del tutto assenti sul fronte europeo e giunti dalle nostre parti insieme alle truppe statunitensi alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Con la loro diffusione gran parte delle malattie infettive, almeno quelle di origine batterica, furono affrontate e sconfitte mentre l’aspettativa di vita delle popolazioni aumentò considerevolmente. I miei anziani – è un esempio del tutto personale – mi raccontavano di quando, nelle campagne abruzzesi di inizio secolo si assisteva ai tanti funerali di bambini o di anziani uccisi dalle gastroenteriti infettive (acqua non pulita, frutti non lavati, in generale condizioni igieniche precarie).

Potrei proseguire a lungo con l’elenco dei benefici che i farmaci hanno apportato alla nostra salute. Ma ho fatto questi esempi perché la ricerca e la sperimentazione dei medicinali almeno fino agli anni ’50 avveniva secondo metodologie non propriamente definite. Ci volle un episodio – gravissimo – quello del Talidomide (un barbiturico dai molti usi ma soprattutto indicato contro le nausee in gravidanza) per richiamare l’attenzione sui rischi di sperimentazioni affrettate. Migliaia di bambini in tutto il mondo nacquero con gravissime malformazioni e solo il ritiro del farmaco dal mercato portò alla progressiva scomparsa di quegli effetti collaterali non considerati durante il periodo della sperimentazione (non vennero mai effettuati test su animali gravidi).

Nacquero così i primi dubbi, i primi timori. Il farmaco iniziò a rivelare il suo aspetto più oscuro: quello capace di provocare danni anche irreparabili all’uomo. In greco antico, infatti, la parola farmacon aveva il doppio significato di «cura» e di «veleno».

 

Ho saltato interi capitoli della storia della farmacologia per amor di brevità e perché quanto finora riportato mi pare sufficiente a mostrare come progressivamente la fiducia assoluta nelle «magnifiche sorti e progressive» della scienza – in particolare della ricerca farmacologica – sia venuta scemando, sostituita da sospetti e timori verso qualcosa difficile da comprendere.

Di tutti coloro che oggi avversano il farmaco in quanto tale, quanti sanno quali siano i livelli di controllo che un medicinale deve superare dalla sua scoperta fino alla sua commercializzazione? E quanti sanno che questi livelli di controllo si spingono anche oltre la disponibilità del medicinale nelle farmacie? Esiste infatti una fase, cosiddetta post-marketing, che tiene sotto controllo gli eventi avversi registrati successivamente alla commercializzazione, cioè quelle reazioni che non sono state evidenziate nelle fasi di sperimentazione precedenti. Cioè quella preclinica effettuata in vitro e poi sugli animali e quella clinica divisa in altre quattro fasi, successive una all’altra. In proposito è possibile consultare il sito dell’Agenzia italiana del farmaco (https://www.aifa.gov.it/sperimentazione-clinica-dei-farmaci).

I fatti di oggi però dimostrano come non sia sufficiente questo livello di controllo. Il mondo dell’industria farmaceutica, infatti, negli ultimi quarant’anni è profondamente cambiato. Moltissimi elementi hanno contribuito a rendere questo settore estremamente remunerativo per le aziende. Si è assistito nel tempo a un processo di acquisizioni delle aziende più piccole – magari specializzate nella produzione di una determinata categoria di medicinali – da parte di quelle di maggiori dimensioni che così si sono assicurate fette sempre più larghe di mercato. Mercato nel quale gli Stati, in particolare quelli come il nostro nei quali è stato istituito un Sistema sanitario universalistico, hanno assunto la funzione di «terzo pagatore» sostituendosi ai cittadini. Da qui un aumento spropositato della pressione di Big Pharma (ecco uno dei motivi che giustificano questo appellativo) per ottenere l’approvazione e la commercializzazione di farmaci non sempre realmente innovativi. Tanto che, dagli anni ’90 in poi si è aperto un forte dibattito sul reale concetto di «innovatività». I metodi per ottenere questo risultato (l’inserimento del farmaco nel Prontuario Nazionale) sono stati a volte quanto meno poco chiari. A volte venivano presentati studi «accomodati», cioè non falsi ma che mostravano solo alcuni aspetti registrati nelle sperimentazioni, nascondendone altri. Altre volte sono venuti alla luce scandali che hanno scosso l’opinione pubblica. Fra questi il «caso Poggiolini». Che effetto potevano avere queste situazioni di «malasanità» (termine ormai comune che ricomprende tutto ciò che di negativo avviene nella sanità pubblica) sulla fiducia che gli italiani – le mie considerazioni sono rivolte in particolare a quanto avvenne e avviene nel nostro Paese – avevano maturato nei confronti del farmaco? Da salvavita (qualità che pure mantiene in moltissimi casi) divenne poco alla volta un prodotto a cui guardare con sospetto. E si aprì la strada a una considerazione dell’industria farmaceutica soltanto come un insieme di immateriali Consigli di amministrazione affamati di profitto. Da qui a immaginare un complotto internazionale (praticamente nessuna azienda italiana fa parte delle multinazionali farmaceutiche) la strada è assai breve.

Veniamo ai vaccini, farmaci a tutti gli effetti, prodotti anch’essi da case farmaceutiche. Anche qui occorre fare un passo indietro tornando agli anni ’50 quando il nemico pubblico numero uno aveva il nome di poliomielite: malattia devastante causata da un virus che colpisce il sistema nervoso centrale. Ne ho un ricordo personale (condiviso da moltissimi coetanei): bambini colpiti dal virus costretti a muoversi con apparecchi che al giorno d’oggi apparirebbero medievali. La lotta alla poliomielite ebbe il momento di svolta con l’adozione del primo vaccino ideato negli Stati Uniti. Non fu un toccasana: in molti casi le impurezze del medicinale (gli attuali progressi scientifici in campo produttivo e di ricerca apparivano come fantascientifici) causarono effetti anche assai gravi su parte dei vaccinati. Eppure, alla fine, la battaglia contro quel perniciosissimo virus fu vinta anche grazie al lavoro di un ricercatore che meriterebbe riconoscimenti assai più grandi di quelli che gli furono riconosciuti all’epoca e dopo. Albert Sabin, infatti, realizzò un vaccino (lo testò inizialmente su se stesso e poi su parte della popolazione carceraria statunitense) che, una volta messo a punto, non venne brevettato: Sabin scelse di «regalarlo al mondo» rinunciando a introiti miliardari e guadagnandosi la gratitudine di tutti coloro che superarono indenni la terribile malattia (le conseguenze più gravi costringevano i malati a vivere all’interno dei cosiddetti «polmoni d’acciaio» gli antenati dei moderni strumenti per la ventilazione assistita). Tutto bene? In parte sì perché ebbe inizio una vera e propria caccia al vaccino per moltissime malattie che affliggevano in particolare i più piccoli: rosolia, parotite e infine morbillo, tutte attribuibili a virus specifici.

Gli indubbi benefici delle campagne vaccinali avrebbero dovuto mettere in disparte paure e incertezze. Ma non fu così: le primissime posizioni contrarie alle vaccinazioni generalizzate presero vita già intorno al 1850. Da oltre un secolo e mezzo, insomma, c’è chi grida «al lupo!» contro le campagne vaccinali senza tenere in nessun conto quello che la scienza ha creato di buono contro le malattie. I primi movimenti antivaccinali si svilupparono in Inghilterra per i motivi più disparati: da quelli religiosi ad altri motivati da interessi economici di gruppi particolari, fino a quelli che consideravano la vaccinazione di massa come una minaccia alla libertà individuale. Voci che non si sono mai sopite e che, di volta in volta, hanno trovato sponda nella stessa scienza «ufficiale» (raccomando la lettura dell’articolo pubblicato in proposito di recente da Micromega https://www.micromega.net/deramo-scetticismo-novax/). Uno dei casi più eclatanti a cui ancora si dà credito è recentissimo ed è legato al nome del medico inglese Andrew Wakefield autore nel 1998 di uno studio nel quale si correlava l’insorgenza dell’autismo (oltre a particolari patologie intestinali) al vaccino trivalente contro morbillo, rosolia e parotite. Lo studio in questione, pubblicato su una rivista peraltro prestigiosa come The Lancet e co-firmato da un nutrito gruppo di altri medici, fu inizialmente accolto con estrema preoccupazione dal mondo scientifico che non approfondì subito i suoi contenuti. Grazie all’intervento di un giornalista (Brian Deer) vennero però alla luce i rapporti tra Wakefield e un avvocato che lo aveva pagato per «truccare» i risultati dello studio al fine di intentare cause miliardarie alle case produttrici dei vaccini. Non basta: lo stesso Wakefield aveva brevettato alcuni vaccini che avrebbero dovuto sostituire quelli da lui accusati. Conclusione? Il medico venne radiato dall’albo dei medici inglesi mentre la quasi totalità dei co-firmatari dell’articolo ritirarono la firma. Wakefield non cessò di lucrare sulla vicenda facendosi paladino dei movimenti antivaccinisti e realizzando anche due documentari nei quali «difendeva» il suo operato contestando un provvedimento voluto dal governo Reagan che finiva col creare una barriera contro qualsiasi richiesta di risarcimento rivolta all’industria dei vaccini.

La vicenda è uno degli ultimi atti di un movimento che parte da lontano e fa delle posizioni antiscientifiche (la scienza è male e minaccia la libertà dell’uomo) la sua bandiera.

Come ho sopra sottolineato alcune di queste motivazioni hanno una loro giustificazione e vanno comprese. Sono però assai meno favorevole a spezzare una lancia in favore di chi sostiene la presenza di complotti rettiliani miranti ad assicurare a una fantomatica popolazione aliena il controllo dell’umanità attraverso i vaccini.

Resta da dire qualcosa sulla comunicazione scientifica al pubblico Ma temo di tediare il lettore con argomentazioni che sono state sviluppate in maniera più che ampia nell’articolo https://www.labottegadelbarbieri.org/sars-cov2-il-problema-non-e-il-virus/.

Il mio è un tentativo di realizzare un excursus (estremamente sommario) sull’attuale contrasto fra chi difende le posizioni assunte dai vari Governi contro gli effetti del Covid 19 (diverso ma comunque geneticamente correlato al coronavirus SARS-CoV-1, responsabile dell’epidemia di Sars – Sindrome respiratoria acuta grave – registrata nel 2002 e responsabile comunque di circa 8000 morti). Misure che hanno prestato il fianco a molte critiche anche sul piano strettamente politico considerando quanto alcune decisioni (in particolare il Green Pass) possano incidere su forme di controllo; però il mio discorso non intende allargarsi anche a questi temi che vanno comunque affrontati e discussi. Ho soltanto voluto sottolineare come l’avanzare della tecnologia, l’utilizzo di strumenti sempre più evoluti, finiscano col creare un crescente grado di separazione fra la pubblica opinione e il mondo scientifico che alla lunga genera timori. Giustifico questa situazione? Certamente no. Metodi per diffondere una più ampia cultura scientifica esistono e a loro occorre ricorrere per superare le barriere che si sono create nel tempo. Sarà possibile? Forse cercando di esaminare i fatti nella loro completezza e non concentrandosi solo su singole situazioni. È quanto ho cercato di fare. Rinnovo l’invito a collegare fra loro gli elementi che abbiamo tutti a nostra disposizione senza lasciarci affascinare dalle sirene di chi – per lucro o fame di potere – cerca di conquistare la nostra fiducia.

LE IMMAGINI (scelte dalla”bottega”)

In alto i poliziotti durante la “Spagnola”; qui sopra il sempre grande Altan

Redazione
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