Custodia criminale – di Mark Adin

Siano le madri a giudicare, siano i figli e i familiari.

Siano loro a farlo quando l’Istituzione si fa carnefice. Si troveranno, soli, ad affrontare un percorso: fare a ritroso, con il fantasma di un figlio, di un fratello, di un padre, di cui è stato restituito il corpo che interroga il loro dolore, un viaggio verso la verità.

Sicurezza, guardie di pubblica sicurezza, cella di sicurezza, misure di sicurezza.

Sanità, trattamento sanitario, azienda sanitaria, presidio sanitario, operatore sanitario.

Custodia, guardie di custodia, custodire. “Sono forse io il custode di mio fratello?”

Tre storie esemplari, difficili da raccontare.

Quartu S.Elena, Sardegna. Giuseppe Casu, di professione fruttivendolo ambulante, 60 anni, staziona con il suo Apecar nella piazza del paese. Da tempo il Comune chiede lo sgombero degli ambulanti, si vuole fare “piazza pulita”. Al cittadino Casu vengono elevate numerose multe da parte dei Vigili Urbani, ma il cittadino Casu le paga e prosegue la vendita di frutta e verdura con il suo Apecar. Le contravvenzioni di pochi euro lasciano improvvisamente il posto a una sanzione esorbitante di 5000 euro, che si minaccia di comminare una seconda volta se la presenza in piazza persiste. Quando il cittadino Giuseppe Casu dà in escandescenze, a causa della enormità della sanzione, i vigili eseguono il Trattamento Sanitario Obbligatorio già disposto dal Signor Sindaco, bloccandolo dopo averlo malmenato e conducendolo a forza all’Ospedale Is Morrionis, dove il fruttivendolo muore, dopo una settimana di letto di contenzione, pesantemente sedato, senza che alcuno rilevi i segni delle percosse subite.

Nel Cilento è un pomeriggio di sole. C’è un uomo, alto e magro, che fa il bagno, è in vacanza. Arrivano dal mare, arrivano da terra. Sulla piccola spiaggia allarme e sorpresa. L’uomo è un maestro elementare molto conosciuto, amato dai bambini, alto e magro, ospite del campeggio. I Vigili Urbani, insieme ai carabinieri, vengono da terra. Una imbarcazione della Finanza incrocia nel blu. Lo accerchiano, lui si spaventa, non capisce e resta in acqua, poi si convince e docile si porta a riva, chiede ed ottiene un caffè, si riveste, accetta che gli venga somministrato un calmante, fuma una sigaretta in pace. Ha forse un presentimento: dice che se lo porteranno a Vallo della Lucania, lì lo uccideranno. Lo accompagnano via in ambulanza, lo portano all’ospedale di Vallo. Si chiama Francesco Mastrogiovanni e sarà fatto morire legato a un letto, in regime di Trattamento Sanitario Obbligatorio, lontano dai pochi affetti, qualche giorno dopo. Tutto ripreso dalle telecamere di sorveglianza.

E’ una notte d’estate a Varese, fa caldo, due amici per strada, a fare un po’di casino. Arriva la forza pubblica, li rincorre e li porta in caserma. Giuseppe Uva, artigiano, viene rinchiuso in una stanza dalla quale l’amico terrorizzato sente, per ore, provenire urla di dolore e invocazioni di aiuto. L’amico ha con sé un telefonino, che non gli è stato requisito, e non visto chiama un’ambulanza. Quando l’operatore contatta la caserma per ottenere ulteriori informazioni, un militare risponde che non c’è di che preoccuparsi, non c’è nessuno che sta male. Giuseppe Uva muore in una struttura psichiatrica, dove era stato successivamente ricoverato per un T.S.O., Trattamento Sanitario Obbligatorio, sottoposto a massiccia sedazione. Una più recente perizia parla di presenza, sul suo cadavere, di inequivocabili segni di percosse e di sangue, orina, feci e sperma. La presenza di questi ultimi reperti porta a considerare anche un ultimo, terribile, inaudito, incredibile sospetto: poter essere stato oggetto di violenza sessuale in una caserma dei Carabinieri.

L’elenco delle persone morte a causa della violenza subita durante la loro condizione di completa soggezione è lungo. Li accomuna  l’impunità dei responsabili diretti e indiretti. Dove mai si sia raggiunta una qualche, almeno parziale, verità, le pene comminate sono state spesso blande, cadute in prescrizione o amnistiate e alleggerite da benefici di ogni sorta, e i capi d’accusa annacquati e derubricati in reati colposi o preterintenzionali. Anche questo è il nostro Paese.

Un dato colpisce: la connotazione delle vittime. Si tratta di persone comuni e di scarsa, se non inesistente, rilevanza “sociale”.  In ogni caso, in qualità di cittadini, titolari del fondamentale diritto di vivere. Vivere. Diritto, questo, negato nel sangue. Ed è la collaborazione, la connivenza, la complicità, la cialtroneria di quei medici a rendere questi fatti ancora più odiosi e inqualificabili.

Ad Asti si sta svolgendo un processo, alla sbarra agenti di custodia del locale carcere giudiziario, imputati di aver torturato alcuni giovani reclusi, alla moda di Abu Ghraib. Il verbo utilizzato non deve stupire: i galantuomini che abbiamo mandato in Parlamento hanno deciso di non approvare l’utilizzo della parola “tortura” nel nostro Codice, ma non possono certo eliminarla dai dizionari della lingua italiana, che ce ne rimandano chiara la definizione: “Pena corporale particolarmente crudele, talvolta inflitta con sevizia brutale e disumana. Coercizione fisica o morale a cui viene sottoposto un individuo.” Il nonnino di Alessandro Manzoni, il milanese Cesare Beccaria, nel 1764, aveva scritto in modo  convincente sulla sua inutilità e contro la barbarie della tortura. Thomas Jefferson, futuro presidente degli Stati Uniti, lo lesse in italiano e ci si ispirò nel promulgare leggi che fecero storia, Voltaire e Diderot lodarono e sostennero il lavoro di Beccaria,  eleggendo “Dei diritti e delle pene” a pietra miliare del Diritto. Già, ma quello era il Secolo dei Lumi. Oggi, due secoli e mezzo dopo, viviamo in tempi diversamente luminosi, o forse, come diceva Brecht, davvero bui.

Mark Adin

Redazione
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3 commenti

  • Nessun commento possibile.
    Grazie, clelia.

  • Grazie Mark,la storia del Professore Anarchico Francesco Mastrogiovanni sono anni che la portiamo in giro per CSOA ed ovunque ci chiamano(ed a Vallo della Lucania dove c’è il processo contro i suoi assassini…a proposito,il sindaco che ordino’ due suoi TSO,fu poi assassinato dalla camorra…(????)),ricordate che lui era quella sera quasi 40 anni fa con Giovanni Marini quando furono aggrediti da una banda di fascisti armati e che Giovanni disarmo’ uno di loro e poi lo colpi’ per autodifesa e dovette per questo scontare piu di dieci anni di carcere?

  • Già, si muore di carcere, in Italia, storie più conosciute come quella di Cucchi e meno conosciute come quelle raccontate da Mark. Il verbo suicidare è diventato transitivo (in realtà lo è sempre stato) al tempo degli anni di piombo, ricordate Gudrun Enssling della RAF e il carcere di Stammheim? Ed è transitivo anche nelle nostre carceri, sempre più spesso… Grazie Mark, gianni

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