L’Occidente tramonta anche in Africa

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Niger. Fallita la missione americana di Victoria Nuland. Minacce respinte al mittente – Jalel Lahbib

La vice segretaria di stato ad interim degli Stati Uniti, Victoria Nuland lunedì, si è recata nella capitale del Niger, Niamey, intrattenendo colloqui con alti funzionari della giunta militare. Nuland ha detto durante l’incontro che i funzionari del governo non hanno accolto i suggerimenti degli Stati Uniti per cercare di ripristinare “l’ordine democratico” e che la sua richiesta di incontrare il deposto presidente del Niger Mohamed Bazoum è stata rifiutata.

Nuland ha affermato di non aver avuto l’opportunità di incontrare il leader del golpe, il generale Abdourahamane Tchiani. Indispettita dell’affronto ha minacciato la giunta avvertendo che ci saranno gravi conseguenze se deciderà di collaborare con la Russia. “Dopo che li ho avvertiti, i leader golpisti in Niger sono ben consapevoli dei pericoli di allearsi con la Russia”, ha affermando la Nuland, che ha accuratamente evitato di spiegare come è finito l’incontro. Dinnanzi al suo atteggiamento di superbia e ai dicktact pronuniciati, le autorità nigerine hanno terminato bruscamente il colloquo, invitandola a ritornare da dove è venuta.

Tra le richieste (leggi ordini) della Nuland vi era il “dovere” da parte della giunta militare di incontrare la delegazione della comunità economia dei Paesi dell’Africa occidentale (Ecowas). Subito dopo la sua partenza la giunta militare ha annunciato di non poter accogliere la delegazione.

Sulla disastrosa visita della Nuland in Niger, il leader della Wagner, Yevgeny Prigozhin ha rilasciato un’intervista, affermando che la Wagner lotterà al fianco del Niger per garantire la sua sovranità e i diritti del popolo nigerino: “Wagner lotterà sempre per la giustizia e aiuterà coloro che combattono per la loro sovranità e i diritti del loro popolo”.

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Alberto Negri – In Niger un disastro che è iniziato in Libia – Alberto Negri

USA-UE-AFRICA. È una storia da periferia del mondo, una storia sbagliata, che improvvisamente si addensa sulla capitale del Niger Niamey, dove sono di stanza tremila soldati Nato e americani evocando il fallimento di Kabul

È una storia da periferia del mondo, una storia sbagliata, che improvvisamente si addensa sulla capitale del Niger Niamey, dove sono di stanza tremila soldati Nato e americani, evocando i fantasmi della caduta di Kabul nel 2021. Scaduto l’ultimatum lanciato dopo il golpe del 26 luglio scorso che ha deposto il presidente Mohamed Bazoum, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale si era detta pronta a intervenire militarmente ma in attesa di una comunicazione ufficiale, secondo fonti militari riferite dal Wall Street Journal, per ora l’organizzazione degli stati africani non avrebbe ancora «la forza necessaria per partecipare a una simile operazione militare».

La questione è evidente: con una base Usa di droni nel Nord e 1.100 soldati americani sul terreno (i francesi sono 1500, gli italiani 340 circa) la Casa Bianca, nonostante la solidarietà espressa a Bazoum, teme che un intervento militare mal riuscito possa risolversi in un disastro. E in Africa americani ed europei di disastri ne hanno già combinati a sufficienza. Sono stati i loro errori che hanno lasciato spazio a russi, cinesi, turchi: queste potenze fanno esattamente il lavoro che facevamo noi un tempo, rafforzano chi è al potere e sfruttano le risorse minerarie e umane.

Il paradosso è che molte delle élite militari oggi in sella le abbiamo armate e addestrate nelle scuole militari di Francia e Stati uniti. Come sottolineava Marco Boccitto sul manifesto del 5 agosto anche in Niger i militari golpisti hanno ricevuto dall’Occidente la loro «educazione sentimentale». Gli stessi militari italiani – sulla cui sorte ci rassicura il ministro della difesa Crosetto – sono a Niamey per addestrare i nigerini.

Tutto comincia con la fine della Libia di Gheddafi nel 2011, iniziata con l’intervento francese, britannico e americano diventato poi Nato. Era lui il “guardiano” delle coste del Mediterraneo e del Sahel. Un dittatore detestabile ma che teneva in piedi il Sahel: dal Mali al Niger, i dinari libici oliavano i regimi e tenevano in piedi confini di sabbia. Sia l’Unione africana che il presidente del Niger Issoufou Mahamoud avevano messo in guardia l’Occidente dall’attaccare la Libia. Ma chi li ha ascoltati? Nessuno si è preoccupato seriamente di frenare la deriva dei confini.

Dopo la storia è nota: con la disgregazione della Libia avanzano ovunque i gruppi jihadisti, da Al Qaeda all’Isis, e i movimenti irredentisti.

Le frontiere che vediamo oggi disegnate sulle mappe sono più virtuali che reali, in particolare quelle nel triangolo tra Niger, Mali e Burkina Faso. I francesi nel 2022 fanno le valigie e mettono fine all’operazione Barkhane ripiegando dal Mali al Niger, a loro posto a Bamako arrivano nuovi generali al potere e i russi della Wagner: che, è bene sottolinearlo, non riscuotono un così grande successo ma agli occhi di chi è al potere hanno un verginità coloniale e non chiedono alcun rispetto dei diritti umani e politici.

Del resto che rispetto abbiamo noi dei Paesi africani? Siamo qui a spingere perché diventino i guardiani delle nostre frontiere, cosa che non piace a nessuno, come ha ribadito più volte il presidente tunisino Saied, criticabilissimo per le sue espressioni razziste sui migranti ma con le spalle al muro per la crisi economica e finanziaria di un Paese che sta affondando.

Non sono crollate solo le frontiere del Sahel. A Ras Jedir, confine tra Libia e Tunisia ormai fuori controllo, c’è un giro d’affari di contrabbando per 500 milioni di dollari l’anno: il carburante arriva dalla Libia, dove il costo è sostenuto all’80% dallo stato, passa l’alcol dall’Algeria, l’hashish dal Marocco, poi frutta, verdura elettrodomestici e, naturalmente, esseri umani in mano ai trafficanti. Un’intera regione dell’Africa del Nord ma anche sotto, nel Sahel, vive di traffici illeciti. E come farebbe altrimenti a sopravvivere la Tunisia? Con la fine di Gheddafi Tunisi ha perso 350mila posti di lavoro in Libia che sostenevano l’economia mentre con le “primavere arabe” settemila tunisini si arruolavano con i jihadisti per la guerra in Siria. Oggi Assad è stato riammesso nel grembo del mondo arabo e loro sono tornati in un Paese che non riesce a dare lavoro e pane a nessuno. Non si può pensare che rivolgimenti del genere non abbiano conseguenze.

L’Africa sulla questione dell’intervento in Niger è divisa. Dal Maghreb all’Ovest del continente si levano voci discordanti. Il blocco degli interventisti è guidato dalla Nigeria, 215 milioni di abitanti, con l’esercito più forte della regione e un’economia predominante. Contrari sono i Paesi dei “nuovi golpisti” come Mali e Burkina Faso. Ma anche l’Algeria, che non fa parte di Ecowas, è una potenza assai influente. “Senza di noi in Niger non ci sarà una soluzione”, ha ammonito il presidente Tabboune. A Roma devono aprire le orecchie visto che Algeri è il nostro maggiore fornitore di gas e il perno di quel Piano Mattei che nessuno ha ancora visto. Come l’araba fenice di Metastasio, «che ci sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa».

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L’Ucraina, il Niger e la rivoluzione multipolare in atto – Antonio Castronovi

La scelta coraggiosa della Russia di respingere il tentativo della NATO di fare dell’Ucraina un avamposto atlantico per destabilizzarla, e di accettare quindi il livello militare dello scontro imposto dal rifiuto di trattare da parte della NATO le condizioni della sicurezza reciproca in Europa, ha aperto nuovi scenari prima impensabili nel mondo. Lo scontro tra le pretese unipolari e imperialiste del blocco occidentale e la resistenza politica, economica e militare della Russia ha rafforzato nel mondo le aspirazioni di popoli, paesi e regioni che aspirano alla propria sovranità e autodeterminazione e che desiderano sganciarsi dal controllo e dalla soggezione coloniale dell’Occidente. Si rafforza l’asse russo-cinese nel continente eurasiatico e si estende l’area dei paesi di tre continenti che vogliono aderire ai BRICS, ad oggi una trentina.

Il conflitto tra NATO E RUSSIA in Ucraina sta aprendo così le porte ad una vera rivoluzione mondiale anticoloniale e multipolare che ha il suo epicentro in Africa, in particolare nell’area centro-africana che vede scomparire da essa, uno dopo l’altro, il controllo coloniale francese.

Dopo la Repubblica Centro-Africana, il Mali, il Burkina Faso, ecc. , in questi giorni è saltato l’ultimo bastione della presenza francese, il Niger. Le reazioni di panico nell’establishment occidentale danno la misura del cambio di clima che si respira in Africa. Non c’è più la paura della reazione punitiva, economica e militare, che potrebbe venire dalla Francia o da paesi ancora sotto il giogo coloniale. Il Mali, il Burkina Faso, la Guinea e l’Algeria, sono pronte a difendere anche con le armi il Niger da un intervento militare esterno. Sta emergendo così l’orgoglio e la dignità di una giovane classe dirigente anticoloniale africana che ha raccolto l’eredità dei Lumumba, dei Sankara e del socialismo pan-africano e che sta intessendo rapporti di cooperazione economica e commerciale con la Russia e la Cina, senza le condizioni capestro imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale con la pratica dello strozzinaggio che crea debito e dipendenza ulteriore. Il gesto di Putin di condonare un debito di 20 miliardi di dollari dei paesi africani e quella di donare grano a quelli più bisognosi, ha scatenato reazioni isteriche nei governi occidentali, in cui si è distinto per goffaggine il ministro Tajani, ma soprattutto ha suscitato entusiasmo e spirito di rivolta anticoloniale nelle popolazioni africane che stanno riempiendo le piazze inneggiando alla Russia e a Putin.

Nel vertice russo-africano di San Pietroburgo era presente tutta l’Africa tranne tre governi, dimostrando così che l’Africa non teme più le punizioni e le reazioni del padrone bianco. Chi è rimasta spiazzata e afona di fronte a questa ondata di rivolta anticoloniale in Africa è senza dubbio la sinistra europea nelle sue diverse varianti: non solo quella russofoba e filoatlantica, ma anche quella cosiddetta pacifista ma anti-putiniana, quella che non ha mai rinunciato al mantra aggressore-aggredito, che non aveva capito nulla della natura dello scontro aperto in Ucraina e che oggi fa fatica ad accettare l’entusiasmo e la solidarietà africana nei confronti della Russia. Ma questo è un antico vizio e un difetto d’origine anche del marxismo occidentale che non ha mai collegato la lotta anticapitalistica alla lotta anticoloniale, che non aveva capito la lezione di Lenin ieri, che non aveva capito la natura della rivoluzione cinese come rivoluzione anticoloniale, e non ha compreso oggi il valore della rivoluzione mondiale in atto come rivoluzione multipolare che ha la sua forza trainante nella Russia e nella Cina e il suo centro in Africa, ma che ha già spostato gli equilibri geopolitici in medio-oriente. Già, l’Occidente non è più la culla della rivoluzione socialista. Forse non lo è mai stata. Come diceva Domenico Losurdo, forse non lo è mai stata perché ha rifiutato l’incontro con la rivoluzione anticoloniale, vista come separata dalla prospettiva socialista. Un errore strategico e teorico che le classi popolari in Europa stanno ancora pagando.

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Personaggi in cerca d’autore, ovvero il golpe del Niger – La testimonianza di P. Mauro Armanino

I confini tra realtà e finzione, come Luigi Pirandello bene evidenziava nella sua drammaturgia, sono sempre molto labili. Quanto sta accadendo in Niger, dopo la relativa presa di potere di un gruppo di militari delle Guardia Presidenziale mercoledì scorso, assomiglia ad un gioco nel quale tutti i personaggi sono in cerca d’autore.

La politica anzitutto, intesa come partecipazione nella costruzione del bene comune, non si è mai di fatto mai realmente concretizzata. Essa è stata interpretata come perenne lotta per il potere, con la stessa logica di quello coloniale della Francia, che ha potuto proseguire – nel Paese del ‘suo’ uranio – grazie a politici compiacenti.

Quando, questi ultimi, hanno cercato di prendere le distanze dal Padre Padrone francese sono scaturiti, non per caso, i primi colpi di stato di autore senza nome. Il prossimo 3 agosto sarà l’anniversario dell’indipendenza del Niger e faranno 63 anni di cammino nel deserto attraversato dal fiume omonimo.

Gli altri personaggi del dramma sono stati i partiti politici che, oggi, si contano a decine e il cui numero e consistenza varia a seconda delle stagioni del potere. Si fanno e disfanno aggregazioni di compiacimento che solo assicurano qualche garanzia ‘alimentare’ in più per i membri dei partiti. Uno di essi, al governo da dieci anni, si denomina PNDS e cioè il Partito Nigerino per la Democrazia e il Socialismo. Presentatosi alle elezioni del 2004 e del 1999, era risultato perdente e solo dopo il penultimo colpo di stato nel 2010, aveva vinto le elezioni l’anno seguente.

L’attuale presidente Mohamed Bazoum è il successore (e da lui prescelto) di Mahamadou Issoufou, entrambi fondatori del PNDS. Il decennio di potere del suo mentore, contrariamente all’opinione occidentale e africana, ha gradualmente contribuito ad affossare la fragile democrazia nel Paese.

Demoliti i partiti, eliminato l’oppositore principale Hama Amadou, divisa per compravendita la società civile e, infine, l’operazione seduzione ‘pecuniaria’ per la classe intellettuale del Paese, la democrazia si è trasformata nel regno tentacolare e fondamentalmente corrotto del PNDS.

Bazoum, malgrado la complicità degli osservatori internazionali che hanno ratificato i risultati dello scrutinio delle ultime presidenziali del 2021, è stato eletto in modo fraudolento. Dopo circa due anni, alla vigilia della festa dell’Indipendenza, è stato deposto da una giunta militare e si trova prigioniero di elementi armati della Guardia Presidenziale, voluta e curata dal suo predecessore.

Tra i personaggi della vita politica del Niger e in Africa Occidentale, si trovano i militari, personaggi in cerca d’autore di tutti i golpe e dei tentativi andati a male, nel frattempo. Per carenza di democrazia reale, intesa come sistema che rende possibile il gioco di alternanze politiche senza ricorrere alla violenza, essi sono coloro che ‘azzerano’ il contagiri e permettono alla democrazia di riattivarsi.

Questo spiega perché, in generale, da questa parte del mondo i colpi di stato sono assai ben visti e appoggiati dal popolo, che vede in essi un’opportunità di rimessa in moto del recita a soggetto in questione.

Il grande escluso di tutto ciò, per assenza di autori e cioè di cittadini riconosciuti e riconoscibili, è proprio il popolo che in tutti questi anni è stato preso, volutamente o meno, in ostaggio dai vari regimi politici che si sono succeduti.

Lo stesso popolo della città di Niamey e di altre città del Niger, che ha appoggiato il golpe e che si è spinto ieri fino alla zone delle ambasciate e, soprattutto quella della Francia, ne è stata il bersaglio principale.

La situazione, al momento è ancora incerta. La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e l’Unione Africana (e la Francia in particolare) hanno ovviamente condannato il golpe e deciso di applicare con inusuale rapidità un arsenale di sanzioni economiche e politiche. Non si esclude neppure un intervento armato nel caso in cui il presidente eletto non venga rilasciato e prenda le funzioni a lui spettanti prima del colpo di forza.

Non casualmente, questo gioco della parti si evidenzia nel Niger, Paese tra i più poveri economicamente del mondo, ma ricco della sua geopolitica: l’uranio per la Francia, il petrolio per la Cina e altre materie prime da definirsi; l’esternalizzazione delle frontiere per controllare e bloccare la mobilità umana. L’oasi di stabilità per accogliere i militari di Francia, Stati Uniti, Germani e Italia, fanno del Niger, come detto all’inizio, un Paese in cerca d’autore e, invece delle stelle, sono le sirene russe che ora stanno a guardare.

Padre Mauro Armanino

Niamey

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Risiko Africano: Destabilizzazione e Penetrazione – Guido Salerno Aletta

Gioco a 6 tra Mercanti di uomini, Jihadisti, Russia, Cina, USA e Paesi Europei

L’Africa è un Continente sempre più conteso, ricchissimo di materie prime che fanno gola a tutti, ma estremamente povero.

Serve innanzitutto tracciare una mappa degli interessi, economici e geopolitici, iniziando da quelli dei mercanti di uomini che alimentano il traffico dei migranti disperati, che li pagano per sfuggire a situazioni di grande povertà nella speranza di trovare migliori condizioni di vita in Europa.

Cominciamo con la destabilizzazione dell’Europa, in cui arrivano da anni, a centinaia di migliaia, i disperati che provengono dalle aree più povere del Sud del Mondo, oltre che dalle zone di guerra. E’ un interesse geopolitico che accumuna tanti attori della scena mondiale: portano scompiglio economico e sociale, creano problemi di integrazione. Il problema è umanitario, certo, ma dietro c’è chi ha interesse ad alimentare le tensioni che derivano dai flussi di immigrazione incontrollata.

Le ONG, che salvano i tanti che vengono imbarcati su natanti di fortuna, e poi abbandonati alla deriva nel Mediterraneo, non possono far molto per i tanti che si trascinano per migliaia di chilometri sulle rotte terrestri che vanno dal Golfo di Guinea fino ai porti di imbarco: ci sono i tanti Paesi africani da cui partono le moltitudini dei migranti, quelli che vengono solo attraversati da queste moltitudini, quelli europei di prima accoglienza e quelli che vengono ambiti come destinazione finale.

L’Italia è un Paese di prima accoglienza, a sua volta di transito temporaneo, perché la gran parte dei migranti vuole andarsene via il prima possibile, per recarsi in Francia o in Germania se non in Inghilterra, raggiungendo parenti o altri amici già lì insediati.

Tutti sanno delle condizioni di Ventimiglia, ai confini della Francia, dove a migliaia i clandestini stazionano in attesa di passare la frontiera, venendo costantemente ricacciati indietro dalla Gendarmeria. Ma è lo stesso a Calais, il porto francese sulla Manica, dove sempre a migliaia si sono raccolti per anni in una sorta di Giungla i clandestini che volevano arrivare in Gran Bretagna.

Ci sono poi i Paesi del Magreb, quelli della sponda meridionale del Mediterraneo, che sono solo attraversati dai flussi di migranti: creano loro parecchi problemi per questa ospitalità temporanea che devono offrire, sperando che se ne vadano via il prima possibile. Il Marocco come l’Algeria, la Tunisia come la Libia, sono i più colpiti da questo fenomeno.

Ci limitiamo a questa rotta mediterranea, senza considerare quella balcanica o quella che passa per la Turchia e per la Grecia, Paesi di transito, che affrontano in particolare i flussi di provenienza dei profughi siriani.

Per quanto riguarda l’Italia, basta vedere i dati di provenienza dei migranti arrivati nel 2023: al primo posto c’è la Costa d’Avorio col 12% degli arrivi, poi la Guinea con l’11%, l’Egitto col 9%, il Bangladesh con l’8%, il Pakistan e la Tunisia con il 7%, il Burkina Faso col 6%, la Siria col 5%, il Camerun ed il Mali col 3%. Messi insieme, i migranti che provengono dai Paesi sub-sahariani pesano per il 35%.

A voler schematizzare dal punto di vista geografico, ci sono dunque tre fasce si Paesi che sono interessati dalla rotta mediterranea dei migranti: quella dei Paesi del Magrebcon la Tunisia e la Libia in testa, in cui arrivano per imbarcarsi ed arrivare finalmente in Europa, attraverso i porti sicuri come quelli dell’Italia; quelli del Sahel, la fascia sub-sahariana, che rappresentano invece una fascia di territorio che viene solo attraversata da coloro provengono da ancora più a Sud, come il Camerun, la Costa d’Avorio o la Guinea. In pratica, il Niger è un Paese chiave per le rotte dei migranti, visto che passano tutti di lì per arrivare in Libia ed in Algeria.

Detto chiaramente: i migranti sono innanzitutto un business, sia per chi ne organizza la tratta per farli arrivare a destinazione, sia per le organizzazioni che ne gestiscono il salvataggio in mare e poi l’assistenza nei diversi Paesi. Ma sono anche uno strumento di destabilizzazione innanzitutto per i Paesi africani di transito, poi per quelli europei di prima accoglienza ed infine per quelli sempre europei di destinazione finale.

La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha appena presieduto alla Farnesina una Conferenza internazionale, su “Sviluppo e Migrazioni”, cui ha invitato sia il Presidente tunisino Saied che la Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, ed a alla quale hanno partecipato numerosissimi Paesi europei ed africani interessati ai flussi di transito che di accoglienza, che ha avuto tra i principali punti di attenzione proprio il contrasto al traffico illegale di migranti.

C’è un secondo strumento di destabilizzazione, stavolta dell’Africa: i movimenti jihadisti.

E’ un argomento subdolo, perché non si sa mai bene chi ci sia dietro: non può essere solo un fenomeno spontaneo, visto che per un verso viene strumentalizzato per indebolire i governi africani e per l’altro per offrire loro un sostegno per contrastarli. In pratica, rappresentano forme di aggregazione sociale su base religiosa che minano l’autorità degli assetti ufficiali di potere: rappresentano una alternativa islamista, comunitarista, che erode la legittimazione della struttura politica tradizionale.

Il Califfato africano, esteso a macchia di leopardo, è ormai un fenomeno endemico: interi Paesi non sono più agibili, dal Sud Sudan alla Somalia per citarne alcuni.

La destabilizzazione dell’Africa attraverso il sostegno nascosto che viene dato al Jihadismo è un modo per impedire ad altre Potenze di insediarsi in questi Paesi: come la tattica degli Indiani di avvelenare i pozzi, o quella dei Tartari di ritirarsi bruciandosi alle spalle la steppa. Nessun nemico può prendere possesso di quelle aree.

C’è un altro aspetto: contrastare le organizzazioni Jihadiste può essere un modo attraverso il quale gli Stati stranieri a questo punto offrono protezione ai regimi africani che sono al potere. Protezione armata, naturalmente, inviando proprie truppe: lo ha fatto in più di un caso la Francia, con scarsissimo successo in Mali e Burkina Faso, oppure l’Italia partecipando ad una missione internazionale in Niger di osservazione e contrasto al traffico di migranti.

Sappiamo bene come la Compagnia militare Wagner abbia ampiamente approfittato degli insuccessi riportati dalla Francia nel contrasto al Jihadismo: accusando indirettamente gli ex-colonizzatori di strumentalizzare la lotta al Jihadismo per tenere le proprie truppe in questi Paesi, la Russia subentra.

Il contrasto alla destabilizzazione portata dalle organizzazioni Jihadiste viene usato per fini geopolitici.

Come se non bastasse, si approfitta di questo cambio di mano per prendere possesso delle immense risorse minerarie dei Paesi africani.

E’ in questo modo che paga la protezione militare offerta dai Russi della Wagner oppure il costo delle infrastrutture di interesse generale che vengono realizzate dalla Cina con propri capitali, dalle strade alle ferrovie, ai porti.

Inutile aggiungere che la Russia sta offrendo ai Paesi africani anche la cessione a prezzi di favore dei cereali di cui le popolazioni hanno estremo bisogno, e per le quali i rispettivi governi non hanno le risorse necessarie per procedere agli acquisti a prezzi di mercato.

Questo è lo scontro geopolitico in corso in Africa: violento e sanguinoso, come sempre.

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https://www.youtube.com/watch?v=FkCBbhHXP1E

 

Il Niger è un test decisivo per l’imperialismo europeo in Africa – Sergio Cararo

Il Niger è già diventato un test decisivo. Non sarà come per il Mali, il Burkina Faso, la Repubblica Centroafricana, la Guinea, per il semplice motivo che l’imperialismo europeo non può fare a meno del Niger.

Uno dei paesi più poveri del mondo ha la disgrazia di essere ricco di materie prime strategiche per le industrie europee: uranio, oro, silicio. E poi in Niger i militari europei e statunitensi sono già presenti sul campo con i loro contingenti, inclusi Italia e Germania.

Domenica 30 luglio ad Abuja i paesi “ascari” della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao) – hanno già imposto sanzioni alla giunta golpista, arrivando a minacciare l’uso della forza in caso di mancato ripristino del presidente filofrancese.

Dal canto loro i governi di Burkina Faso e Mali hanno avvertito in una dichiarazione di lunedì 31 luglio che “qualsiasi intervento militare contro il Niger” con l’obiettivo di restaurare il presidente eletto Mohamed Bazoum, “equivarrebbe a una dichiarazione di guerra” contro di loro.

Insomma un posizionamento forte al fianco dei militari nigerini che hanno rovesciato il presidente filofrancese e una novità politica decisamente rilevante nei nuovi rapporti di forza in Africa.

La Francia si è già dichiarata sempre più preoccupata per l’evolversi degli eventi in un Paese ritenuto strategico da Parigi sia per la massiccia presenza militare sia – e soprattutto – per le riserve di uranio presenti in Niger, da cui dipende buona parte del fabbisogno energetico francese.

Una preoccupazione resa ancor più acuta dalle manifestazioni di massa che si sono tenute nella capitale Niamey a sostegno dei militari golpisti, in cui si sono viste sventolare bandiere della Russia ed è stata presa d’assalto anche l’ambasciata francese. L’attacco ha suscitato la pronta reazione di Parigi, con l’Eliseo che ha fatto sapere che “non tollererà alcun attacco contro la Francia e i suoi interessi”.

Alla luce di quanto sta avvenendo, e vista l’importanza strategica che il Niger riveste per l’Europa, l’eventualità di un intervento militare da parte della Francia non può affatto essere scartata.

Lo stesso Macron ha usato parole molto dure: “Chiunque attacchi i cittadini francesi, l’esercito, i diplomatici e la sedi francesi vedrà la Francia reagire in modo immediato e inflessibile”, ha fatto sapere l’Eliseo in una nota.

Un possibile intervento francese è stato paventato anche dalla stessa giunta militare di Niamey, che ha accusato la Francia di voler cercare “modi e mezzi per intervenire militarmente in Niger”.

In un comunicato letto in diretta dal colonnello maggiore Amadou Abdramane, portavoce del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp), la giunta ha denunciato il fatto che sarebbe avvenuto un incontro tra i soldati francesi, l’ex ministro delle Finanze, Hassoumi Massaoudou, e l’ex capo della Guardia nazionale del Niger, Midou Guirey, per firmare un documento che autorizzi la Francia a compiere attacchi contro il palazzo presidenziale.

È evidente come, a differenza di quanto accaduto negli ultimi tre anni con i colpi di Stato in Mali, Guinea e Burkina Faso, questa volta la Francia difficilmente potrà tollerare la perdita d’influenza in quello che da anni era il suo principale alleato strategico nel Sahel, oggi accreditato piuttosto goffamente come “ultimo bastione democratico” in una regione ormai quasi interamente formata da Paesi guidati da giunte militari golpiste riconducibili all’orbita russa.

È al Niger che Francia, Unione europea e Stati Uniti si erano finora aggrappati per non vedersi definitivamente estromessi nel Sahel a vantaggio della Russia.

In Niger la Francia ha già ricollocato i circa 2.400 militari della missione francese Barkhane precedentemente stanziati in Mali, come voluto dal presidente Emmanuel Macron in seguito all’escalation delle tensioni antifrancesi nel paese.

La stessa sorte è toccata ai militari della task force europea Takuba (cui l’Italia contribuiva con circa 200 uomini), ora riposizionati proprio in Niger alla frontiera con il Mali, in seguito alla chiusura delle basi militari maliane di Gossi, Menaka e Gao. Un eventuale scivolamento del Niger in orbita russa sancirebbe dunque la definitiva estromissione francese ed europea dal Sahel, con conseguenze che andrebbero ben oltre la dimensione militare. Con due miniere di uranio – quelle di Acuta e di Arlit – gestite entrambe dalla società francese Orano, il Niger è infatti il primo fornitore di uranio dell’Ue, assicurando il 24 per cento del fabbisogno europeo.

Il presidente del Ciad, Mahamat Idriss Déby Itno, uno dei pochi alleati rimasti alla Francia nel Sahel, ha effettuato due giorni fa una visita di qualche ora a Niamey per trovare una soluzione negoziata, mentre a Niamey andavano in scena manifestazioni di massa in cui i manifestanti hanno sventolato bandiere della Russia e hanno preso d’assalto anche l’ambasciata francese.

Il Niger, appunto, sarà un test decisivo della competizione nelle relazioni internazionali in Africa. Non è difficile prevedere un intervento militare dei pochi paesi africani rimasti fedeli all’Occidente con il sostegno dei militari europei e statunitensi già presenti nel paese e nel vicino Ciad.

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L’Africa e il ruolo attuale del passato: quello coloniale e quello sovietico – Fabrizio Poggi

L’ambasciatore russo a Londra, Andrej Kelin ha detto alcune cose, a proposito del recente Forum Russia-Africa, che potrebbero aiutare qualcuno a riflettere sulle proprie “sentenze senza appello”. Potrebbero aiutare quel qualcuno, solo non fosse avvolto in una ovidiana nuvola ultraterrena di venerazione atlantista.

Cosa ha detto Kelin? Ha detto che Londra ha seguito con molta attenzione il summit e, «cosa estremamente importante, il livello di rappresentanza dei paesi africani», aggiungendo che i britannici vedono nella Russia un pericoloso concorrente e vogliono «eliminarlo dalla regione».

Ecco dunque i tour africani di Kamala Harris, Antony Blinken, esponenti britannici, tra cui il Ministro degli esteri James Cleverly e lord Tariq Ahmad, oltre a Emmanuel Macron.

Kelin ha detto che, in vista del Forum, si è tentato in ogni modo di “convincere” i leader africani a non andare a Piietroburgo.

L’esponente congolese Denis Sassou Nguesso ha rivelato che si sono esercitate pressioni sulle compagnie di assicurazione perché rifiutassero di fornire servizi di volo da Dubai a Mosca; molte delegazioni hanno incontrato svariate difficoltà, in particolare per quanto riguarda il diritto di sorvolo di alcuni paesi.

Ma il Forum ha smentito ogni diceria sul presunto “isolamento” della Russia tra i paesi del sud del mondo. Non hanno funzionato né le minacce dirette e velate, né le offerte di allettanti alternative, dice Oleg Nesterenko, presidente del CCIE, proseguendo anch’egli, come fatto da Vladimir Putin, sulla scia di “indebita appropriazione” del passato sovietico.

Un passato che, effettivamente, agisce in maniera attiva, quantomeno nelle regioni passati per le lotte armate anti-coloniali sostenute dall’URSS.

È incontestabile che, finanziariamente, l’Occidente sia molto più ricco della Russia, dice Nesterenko, e in grado di fornire prospettive finanziarie ed economiche molto più allettanti.

Ma il crollo praticamente completo dell’attuale iniziativa occidentale è associato alla «memoria storica del continente nero, viva nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi anni dalla vecchia Europa per eclissare le realtà del passato: in Africa sono ben consapevoli dei risultati finali della “cooperazione” con le ex potenze coloniali e di ciò che, analogamente, è stato il risultato della cooperazione con la Russia in epoca sovietica».

Mosca, sostiene Nesterenko, dispone di seri «dividendi storici nel continente africano»; dunque, gli sforzi occidentali per «screditare le iniziative russe agli occhi della comunità africana» non possono avere successo.

C’è qualcosa con cui «confrontarsi nel continente: da un lato, la politica coloniale e neocoloniale dell’Occidente collettivo; dall’altro, la politica dell’URSS, perseguita per molti decenni, i cui risultati sono ancora tangibili».

Come per il passato, dice Nesterenko, «l’occidente americanocentrico non offre ai partner africani alcuna forma di cooperazione paritaria, ma solo la prosecuzione di un modello di relazioni che, per le nazioni africane, rappresenta un’esperienza poco invidiabile dell’era postcoloniale».

Ne fornisce un esempio l’atteggiamento della Francia nei confronti del Niger, dopo il capovolgimento anti-francese attuato proprio alla vigilia del Forum Russia-Africa. Parigi dichiara che non tollererà «alcun attacco contro la Francia e i suoi interessi» e reagirà immediatamente in caso di aggressione ai propri cittadini.

L’ECOWAS, la struttura che raccoglie quindici stati dell’Africa occidentale, di cui otto ex colonie francesi, ha minacciato l’intervento armato nel paese.

Apparentemente, le cose sono un po’ cambiate all’inizio della settimana: la Ministra degli esteri francese Catherine Colonna, ha detto che Parigi non ha in programma un intervento militare; dopo, Guinea, Mali, e Burkina Faso (che, tra l’altro, hanno sospeso l’adesione a ECOWAS) due giorni fa hanno dichiarato che considereranno qualsiasi intervento militare negli affari interni del Niger come una dichiarazione di guerra contro di loro.

Così, per ora, l’ECOWAS si limita a congelare gli asset del Niger nella banca centrale della Comunità, sospende le transazioni commerciali e finanziarie con il Niger, chiude le frontiere con esso e blocca i voli commerciali.

Data l’importanza del Niger per l’industria nucleare francese, è chiaro che Parigi farà di tutto per non perdere il controllo della ex colonia; ma, al momento, i militari andati al potere a Niamey sono riusciti a mobilitare a proprio favore buona parte dell’opinione pubblica, sfruttando abilmente l’agenda anticoloniale.

Ragion per cui, a oggi, se si dà credito a Katherine Colonna, e si esclude un intervento diretto francese, sembra rimanere sul tappeto solo una delle opzioni ventilate da Nikolaj Sevost’janov su Segodnija.ru: «un tentativo di “rivincita”, con un nuovo colpo di stato tra pochi mesi, quando le nuove autorità del Niger si scontreranno, inevitabilmente, con le gravi difficoltà economiche che Parigi cercherà senz’altro di procurar loro».

Secondo Timofej Belov, che ne scrive su “BajBajden”, per Parigi e l’Occidente non si tratta solo della perdita di ex colonie, ma anche della loro amicizia con la Russia.

E l’unica cosa che impedisce a Parigi un’azione violenta, sono «le centinaia di migliaia di africani che vivono nel paese. In caso di azioni “decise” del governo, essi muoveranno altrettanto decisamente sull’Eliseo».

Ora, nota Pëtr Akopov su RIA Novosti, colpi di stato e guerre civili, nel continente, ci sono stati anche in passato, ma è dopo l’intervento occidentale in Libia nel 2011 che i problemi in questa parte del Sahara, inclusi Mali e Niger, si sono fortemente acutizzati.

Eliminando il panafricanista Gheddafi, che rischiava di ostacolare i piani di controllo della regione, l’Occidente ha fatto il gioco delle forze separatiste e jihadiste, «e tutti in Africa occidentale lo capiscono».

Dopo il 2011, Parigi e Washington «hanno ottenuto solo un aumento del caos e dei disordini, che hanno colpito anche le loro posizioni».

Ecco quindi che compare la Russia: Repubblica Centrafricana, poi Mali, Burkina Faso, e ora, come teme l’Occidente, i russi sono attesi in Niger; hanno fatto il giro del mondo le immagini dei manifestanti che, di fronte all’ambasciata francese a Niamey, sventolavano bandiere russe e chiedevano la “Wagner”.

E gli interessi russi, dice ancora Akopov, non consistono solo nell’aumento di influenza su un altro paese africano, e nemmeno soltanto nell’uranio, ma anche in quei progetti panafricani cui è collegato il Niger: prima di tutto, il gasdotto trans-sahariano, un progetto che si cerca di realizzare da una quindicina d’anni.

Si tratta di un’opera di 4.500 chilometri, per portare il gas dal golfo di Guinea al Mediterraneo e all’Europa; un progetto diventato nuovamente rilevante da quando gli interessi yankee hanno imposto all’Europa di eliminare il gas russo.

Così, l’estate scorsa si è deciso di riprendere i lavori, grada caso, attraverso Nigeria, Niger e Algeria; e quest’ultima è «un vecchio e strettissimo partner della Russia, e un altrettanto coerente oppositore dell’influenza francese a sud dei propri confini».

E si dà il caso che proprio due giorni fa, a Mosca, Sergej Šojgù abbia incontrato il capo di stato maggiore dell’Esercito algerino, Said ShangrikhaOra, si dice che la visita non fosse correlata agli eventi in Niger, anche se, giorni prima, media algerini ipotizzavano un aiuto militare di Algeri in caso di aggressione al Niger.

Ma il generale Shangrikha è la «seconda persona più influente ad Algeri, un paese in cui l’esercito gioca un ruolo enorme, e per il quale le esportazioni di gas sono di enorme importanza».

Ecco che allora sembra aprirsi «una finestra di opportunità per il Niger: grazie alla presenza di diversi paesi vicini che hanno scommesso sulla Russia, il generale Tchiani può davvero portare il paese fuori dalla cattività francese».

L’isolamento della Russia, vaneggiato nei miti atlantisti, non potrebbe essere più evidente…

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Toh, l’Africa nera ce l’ha con noi – Massimo Fini

Nel suo recente viaggio negli Stati Uniti Giorgia Meloni ha parlato con Biden di quello che è stato spudoratamente chiamato “Piano Mattei per l’Africa”. Una sorta insomma di Piano Marshall solo che il Piano Marshall fu effettivamente di grande aiuto per l’Italia per risollevarsi dalla sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Il cosiddetto “Piano Mattei” ha tutt’altri obiettivi, lo ha svelato involontariamente la stessa premier italiana in un’intervista a Fox News e in quella al direttore di Sky Tg24 Giuseppe de Bellis. L’intervista a Fox non l’ho vista, quella a Sky si. Le luccicavano gli occhi, alla Giorgia nazionale, nell’elencare le grandi ricchezze africane, rame, oro, platino, diamanti, cobalto e il silicio che è diventato più importante dell’oro, dei diamanti e persino del petrolio perché una componente essenziale dell’apparato digitale. Il retropensiero, non poi tanto retro, di Meloni è di rapinare l’Africa subsahariana delle sue ricchezze mascherando lo scippo come aiuto. Rafforzeranno quindi le proprie posizioni in Africa nera l’Eni, l’Enel e partecipate, oltre ad altre multinazionali non italiane.

Di questo colossale affare agli africani arriveranno si e no le briciole, così come avvenne al suo tempo nel Afghanistan post talebano dove dell’enorme mercato degli stupefacenti ai contadini afgani rimaneva l’1 percento. I “new talibans”, come vengono adesso chiamati, hanno rimesso le cose a posto proibendo nel modo più assoluto la coltivazione del papavero da cui si ottengono gli stupefacenti, così come aveva fatto il Mullah Omar nel 2001.

Ma il Piano Mattei, insieme agli altri paesi che vorranno partecipare alla rapina sotto questa bandiera, avrà ripercussioni ancora più profonde. Smantellerà quel che resta dell’economia e della socialità africane, quell’ ”economia di sussistenza” (autoproduzione e autoconsumo) su cui questi popoli hanno vissuto, e a volte prosperato, per secoli. Anche quando si abbiano le migliori intenzioni –e non è certamente questo il caso del Piano Mattei- la sola contaminazione con gli occidentali è devastante per gli abitanti dell’Africa nera (parliamo quindi dell’Africa subsahariana). Di qui le spaventose e tragiche migrazioni verso l’Europa. Come abbiamo già scritto altre volte, l’Africa nera era alimentarmente autosufficiente fino agli anni Settanta quando i paesi occidentali ex coloniali si accorsero che poteva essere un mercato allettante in virtù del suo numero di abitanti (circa 700 milioni). Il colonialismo economico è stato molto più devastante di quello classico, coloniale. Quest’ultimo, senza volerlo con ciò giustificare, si limitava a rapinare materie prime di cui in genere gli autoctoni non sapevano che farsene ma non pretendeva di cambiare l’economia, la socialità, le istituzioni, le tradizioni di quella gente. Nel Vizio oscuro dell’occidente (2002) scrivevo che l’Africa nera era pericolosa per noi come “un cimitero in putrefazione”, cioè per il contraccolpo che avrebbe provocato sulle nostre terre, come le migrazioni dimostrano.

In Niger si gioca la stessa partita anche se con forme e colorazioni diverse. Tutta la “comunità internazionale”, cioè i soliti noti più alcuni paesi africani assoggettati ai nostri voleri, si è schierata contro il recente colpo di stato in Niger. Si dice che il nuovo regime è antidemocratico e anticostituzionale. Ma in quale Costituzione c’è scritto che tutti i paesi debbano essere democratici? Nella sola Nato c’è la Turchia che è difficile dire sia un paese democratico. Nostri stretti alleati sono l’Egitto del golpista Abdel Fattah Al Sisi, il dittatore tunisino Kais Saied, il sultanato dell’Arabia Saudita.

Si afferma che la Russia sia alle spalle del colpo di stato del neopresidente Abdourahmane Tchiani. Per la verità la Russia si era sempre disinteressata dell’Africa, terreno privilegiato del colonialismo inglese, francese, belga (in Africa, almeno quando l’ho frequentata io, diciamo negli anni Ottanta, Hitler era un mito perché aveva combattuto inglesi e francesi). Può darsi che adesso nella lotta fra il mondo di Putin e quello occidentale la Russia voglia recuperare posizioni. Ma, per ora, è solo un processo alle intenzioni visto che anche la Russia ha condannato il colpo di stato nigerino. Ah, se non è proprio la Russia, saranno le milizie della Wagner, che sembrano essere diventati un prezzemolo buono per tutte le occasioni. Insomma è la favola di Esopo: se non sei stato tu sono stati i tuoi figli.

In Niger sono presenti 1500 soldati francesi, 1000 americani, 350 italiani. Macron si è detto deciso ad intervenire in Niger perché l’ambasciata francese è stata attaccata, assediata da migliaia di manifestanti. Sorprende che ci si sorprenda dello spirito antifrancese che è presente non solo in Niger ma anche in Mali, in Ciad e in tanti altri paesi africani. Cioè tu tieni sotto il tuo piede ferrato dei Paesi epoi ti sorprendi perché non ti amano? Anche la faccia tosta dovrebbe avere un limite ed essere considerata un “reato universale”.

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I soldati italiani sono in Niger per calpestare i diritti umani (anche se lo fanno all’italiana)

L’obiettivo italiano in Niger, una volta caduto il muro del controllo del territorio che Gheddafi esercitava in Libia, è quello di esternalizzare le sue frontiere per bloccare il flusso di migranti dal Sahel. Questo dato di fatto smaschera le “buone intenzioni” proclamate ufficialmente, che sarebbero quelle di lottare contro il terrorismo.

Si tratta di una presenza militare stabile dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” che prevede un dispiegamento massimo di 290 militari, 160 mezzi terrestri e cinque mezzi aerei. Da parte della nuova giunta militare, nessun ultimatum è stato rivolto per ora al contingente militare italiano. Secondo le nostri fonti a Niamey i soldati italiani sono ben visti e non sono oggetto di odio popolare, sicuramente anche grazie alla linea del governo italiano di preferire il dialogo e la diplomazia per risolvere la crisi nigerina.
Tuttavia l’Agenzia Stampa Dire informa che il Ministero della Difesa sta progressivamente evacuando i soldati italiani. Ieri, sabato 05 agosto da Niamey è decollato il volo dell’Aeronautica Militare con 65 militari del contingente italiano. Il ministro della Difesa Crosetto ha riferito all’Agenzia Dire che: “La prossima settimana sono pianificati ulteriori voli di rientro dal Niger”.

Questa presenza militare, evidentemente, nega ai migranti l’esercizio del loro legittimo diritto umano a emigrare. Una linea che è in piena continuità con le politiche dei governi di diverso colore che si sono succeduti a Roma negli ultimi anni. Semmai con l’esecutivo Meloni è diventato esplicita la sua intenzione di realizzare un disegno complessivo per ristabilire l’influenza italiana in Africa e fermare alla radice le rotte dei trafficanti di uomini. Con la beffa di chiamarlo “Piano Mattei” tirando in ballo a sproposito il presidente dell’Eni che ha pagato con la vita il coraggio di stare dalla parte dei paesi in via di sviluppo e non certo con l’imperialismo atlantista.

Il piano originario prevedeva di consolidare la presenza in Libia, dove non era ancora esplosa la guerra civile, e poi mettere piede in Niger, il crocevia dei movimenti di migranti verso il Mediterraneo. Anche se i francesi hanno cercato in ogni modo di rallentare l’arrivo degli italiani che hanno dovuto chiedere appoggio alle strutture americane. Ma il disimpegno dal continente della presidenza Trump e la riduzione delle truppe decisa da Macron per ragioni elettorali, ha molto limitato l’azione italiana, mentre la giunta golpista maliana ha chiamato la Wagner.

Secondo Repubblica, era previsto che parte delle forze portate via recentemente dal Mali venissero schierate in Niger nei prossimi mesi, aumentando il numero complessivo del nostro contingente a 500, ufficialmente per cercare di frenare l’insurrezione jihadista e l’avanzata dei mercenari russi, in realtà per impedire con maggiore efficacia ai migranti di passare in Algeria e Tunisia, da dove cercherebbero di approdare in Italia.

L’ossessione del “pericolo migranti” e della destabilizzazione del Sahel appare però molto miope, affidata unicamente all’opzione militare. Sarebbe necessaria piuttosto, sostiene il quotidiano fondato da Scalfari, una condivisione delle scarse risorse con tutta la popolazione, il sostegno alle piccole attività generatrici di reddito, la riforma della governance che coinvolga tutta la popolazione e soprattutto il rispetto dei diritti umani e il dialogo con tutte le forze in campo. In questa ottica sembrano incongrui i 290 militari, i venti mezzi terrestri e gli otto aerei, con un costo, nel 2020, di 16 milioni di euro. Stanziati comunque esattamente per conculcare i diritti di persone innocenti, lamenta anche padre Mauro Armanino, missionario da 10 anni in Niger, intervistato dal Manifesto.
Padre Armanino vive dal 2011 a Niamey dove si occupa di migrazioni, comunità di quartiere, formazione, oltre a coordinare la presenza sul posto della sua congregazione, la Società delle missioni africane (Sma). Non ha lasciato la Liberia al tempo della guerra civile e ora rimane in Niger. Di seguito riportiamo l’intervista.

Marinella Correggia (per il Manifesto) intervista Irina Smirnova

Il 3 agosto 1960 il Niger proclamava l’indipendenza dalla Francia. Oggi i nigerini come vedono la destituzione del presidente Mohamed Bazoum?
I comuni cittadini sono preoccupati sia per il contesto regionale che minaccia un intervento armato per il ritorno alla «legalità costituzionale», sia per la crescita esponenziale del prezzo del cibo quotidiano. Per buona parte dei nigerini – soprattutto coloro che hanno poco
da perdere – quanto accaduto è una relativa buona notizia, perché potenzialmente in grado
di rimescolare le carte in gioco. Qui, almeno, siamo coscienti dei nostri limiti e possibilità, mentre altrove si finge che la democrazia sia immutabile e scontata. In questi anni si è socializzata la povertà, privatizzata la ricchezza e generalizzata la gestione corrotta della cosa pubblica per affiliazione partitica. Le elezioni presidenziali del 2021 sono state vinte da
Bazoum in modo fraudolento. Da tempo il Niger figura inesorabilmente all’ultimo o
penultimo posto nell’indice dello sviluppo umano e, recentemente, anche in quello della povertà multidimensionale. E cresce la stratificazione di classe.

Il malcontento popolare riguarda anche le responsabilità francesi nella diffusione del terrorismo dopo la guerra in Libia nel 2011?
L’Unione africana e il presidente nigerino dell’epoca Issoufou Mahamadou avevano messo in guardia i dirigenti occidentali dall’attaccare la Libia di Gheddafi. Le conseguenze della guerra per l’area sono state disastrose in tutti gli ambiti: economico, geopolitico e della
sicurezza. In Niger l’insicurezza legata ai gruppi armati di varia natura, seppur meno
drammatica rispetto ad alcuni paesi limitrofi come Mali, Burkina Faso e Nigeria, è tuttora grave all’interno delle cosiddette «tre frontiere», oltre che attorno al lago Ciad.
L’operazione Barhkane, guidata dalla Francia dopo la conclusione di Serval nel Mali, trova la sua base in Ciad e soprattutto in Niger. Qui ormai stazionano militari statunitensi, con un aeroporto per droni ad Agadez e basi militari Usa, francesi, italiane e tedesche. Alcuni gruppi della società civile hanno inutilmente tentato di esprimere il loro dissenso (in
particolare per l’arrogante presenza francese), ricavandone intimidazioni e arresti.

Un’altra questione acuta è quella migratoria

Assistiamo da un lato all’esternalizzazione delle frontiere europee, che arrivano fino nel Niger, dall’altro alle espulsioni da parte delle autorità tunisine, algerine e libiche. Ciò comporta, com’è noto, il «parcheggio» di migliaia di migranti al confine con l’Algeria, ad Assamaka, Arlit e Agadez. E tanti altri sono «confinati» nella capitale Niamey perchél ’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), la cui missione è facilitare il ritorno dei migranti al paese natale, non ha la capacità di farlo in tempi ragionevoli. Dunque questi sopravvivono in condizioni al limite della nuda sopravvivenza. E le ritorsioni economiche da parte della Cedeao (Comunità degli Stati dell’Africa occidentale) rischiano di rendere la vita dei migranti ancora più precaria.

Mali e Burkina, così come Guinea, Algeria, Mauritania e altri, ammoniscono la Francia e Cedeao contro ogni intervento militare. Cosa ti aspetti?
L’accanimento della Cedeao nei confronti di quest’ultimo golpe dipende dalle pressioni di alcuni paesi occidentali che di fatto la finanziano. L’aspetto delle risorse – uranio e non solo – gioca, ma è quello ideologico e geopolitico che mi sembra contare di più. Se l’autonomia di un paese diventa sovranità reale, allora cambia il copione del teatro nel quale anche il
Sahel è attore e comprimario allo stesso tempo.

Che cosa dovrebbe fare l’Italia?
Quello che non ha mai fatto finora e che probabilmente, visti i venti che spirano nella penisola e in Europa, non farà. Mettersi con umiltà al servizio del popolo nigerino e non degli ambigui dirigenti dello stesso, imparare ad ascoltare con rispetto un’altra società, storia e cultura. E dissociarsi dall’ottica di ogni tipo di intervento armato finalizzato a
ristabilire un regime che di democratico aveva appena il nome.

Si intravede una nuova strada per il Sahel?
Il cammino del Sahel passerà per l’impervia via della rinascita di una classe politica degna di questo nome e cioè capace di mettere al centro della politica e dell’economia il popolo dei poveri: la maggioranza nei nostri paesi. In Niger c’è una marcata presenza giovanile, è il paese più giovane del mondo: questo è un grande segno di possibile speranza, a condizione di creare ambiti educativi che generino cantieri di trasformazione della società. La dignità dei popoli dovrà tradursi in sovranità reale dei cittadini a cui essa appartiene. Infine l’ambito religioso, così importante in questa porzione di mondo, dovrebbe poter realizzare quanto è chiamato ad essere: la profezia di un mondo differente e non la conferma del potere dei potenti.

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Il Niger come l’Ucraina ma a parti invertite. E l’Occidente vuole un’altra guerra – Irina Smirnova

Un video dello stadio nazionale di Niamey con centinaia di migliaia di nigerini inneggianti alle forze ribelli, sventolanti bandiere russe e nigerine, ha fatto il giro del mondo. Migliaia di cittadini hanno affollato l’impianto sportivo della capitale Niamey per sostenere la giunta golpista del Niger e sfidare la minaccia di intervento armato dei Paesi vicini che vogliono rimettere al potere il presidente eletto Mohamed Bazoum, deposto il 26 luglio, che ha lanciato un appello al Washington Post: “Non lasciate che il Niger cada in mano russa”. La situazione è simile a quella dell’Ucraina (dove l’Occidente ha favorito il golpe che nel 2014 ha spodestato il presidente eletto accusato di essere filorusso, e da qui è scaturito il conflitto) ma a parti invertite: ora l’Occidente vuole una guerra per recuperare la sua influenza sul paese che da almeno 5 anni fa il gendarme contro i migranti respingendoli nel Sahara.

I rappresentanti della nuova amministrazione guidata dai militari hanno percorso l’anello dello stadio tra l’entusiasmo dei presenti. Nei loro discorsi hanno sottolineato la determinazione della giunta a rimanere al potere. La folla sugli spalti ha risposto con applausi e grida di giubilo a ogni frase. Al termine del discorso, un gallo dipinto con i colori della bandiera francese è stato decapitato, il suo corpo gettato verso la folla plaudente.

Poche ore dopo, a mezzanotte, è poi scaduto l’ultimatum dei Paesi dell’Ecowas, la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ceao in francese), alla giunta militare che ha preso il potere con un golpe il 26 luglio scorso, deponendo il presidente Mohamed Bazoum.
L’Ecowas minaccia un possibile intervento militare su pressione dell’Unione Europea, che ha avuto finora nel Niger un partner efficiente per “fermare” i migranti che tentano di attraversare il Sahara.

Il paese africano è ora controllato dalla giunta guidata dal generale Abdourahamane Tchiani, comandante della Guardia presidenziale che dopo aver riaperto gli spazi aerei per consentire ai cittadini stranieri di lasciare il paese, lo ha chiuso di nuovo e ha nominato premier l’ex ministro delle finanze Mahamane Lamine Zeine. Come in altri paesi africani, primo fra tutti il Burkina Faso, c’è in Niger una presa di coscienza della strumentalizzazione criminale subita dalle potenze ex coloniali come la Francia, oggi unite tra loro nella UE, attraverso aiuti che tutto sono tranne che umanitari in quanto erogati a compenso di un crimine consumato ai danni di profughi indifesi.

Una situazione che umilia il Niger mentre gli autori del golpe si richiamano a Che Guevara citando il suo proclama eroico: “Patria o morte, noi vinceremo”.
Anche in Africa, come recita l’inno cubano, “vivere in catene è vivere nell’affronto e nell’obrobrio sommerso”. E la consapevolezza dei diritti negati dai neocolonialisti è in effetti la garanzia della dignità e dell’indipendenza dei popoli. Ma i vecchi padroni che hanno depredato il Niger e continuano a usarlo ai propri fini come gendarme contro i migranti, non vogliono perdere un alleato così utile e di poche pretese: se l’ordine costituzionale non verrà ripristinato, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale si era detta pronta a intervenire militarmente, ma in attesa di una comunicazione ufficiale, secondo fonti militari riferite al Wall Street Journal, per ora l’organizzazione degli stati africani non avrebbe ancora “la forza necessaria per partecipare a una simile operazione militare”.

Mentre la sottosegretaria di Stato americana Victoria Nuland in un primo momento non autorizzata a entrare nel paese, ha incontrato nelle ultime ore a Niamey alcuni dei leader militari golpisti, il generale Moussa Salaou Barmoucon e tre colonnelli, con cui ha tenuto colloqui definiti “franchi e difficili”, le cancellerie europee con grande ipocrisia, si dicono preoccupate per la grave crisi istituzionale e sociale che potrebbe portare a un vasto conflitto nella regione del Sahel e anche per le sorti del presidente deposto Bazoum tenuto in ostaggio nel palazzo presidenziale al centro di Niamey – “senza acqua ed elettricità”, rivela il Nyt.

Il contingente Nato presente sul territorio è composto da oltre 2900 militari: 1500 francesi, 1.100 americani e 350 italiani, di cui una sessantina sono rientrati ieri in Italia. Ma
oltre a essere un partner strategico dell’UE per frenare il flusso di migranti dall’Africa subsahariana e un Paese ricco di uranio e oro, il Niger è uno Stato africano chiave della regione del Sahel, territorio controllato anche da milizie armate di matrice jihadista come Boko Haram, Iswap e i Fulani, a cui potrebbe affiancarsi il gruppo dei mercenari Wagner. Nelle prime ore dopo il golpe lo stesso Prigozhin, si era detto disponibile a intervenire a favore dei golpisti che gli hanno chiesto aiuto in vista di un eventuale intervento armato da parte dell’Ecowas.
L’organizzazione formata da 15 paesi africani (Mali sospeso nel 2021 e Burkina Faso nel 2022, entrambi a causa di colpi di Stato).

Tra le sanzioni imposte c’è infatti il taglio della corrente da parte della Nigeria, che forniva circa il 60% dell’energia elettrica. Poi stanno aumentando i prezzi delle derrate alimentari e tra la gente sale la preoccupazione per questa situazione”.
A livello di interessi geopolitici c’è sicuramente “la paura della Francia e di altri Paesi occidentali di perdere strategicamente il controllo sul Niger, come già accaduto con il Mali e il Burkina Faso”. Tra la popolazione è anche diffuso un sentimento antifrancese.

“Se questa situazione fosse rimasta nigerina sarebbe stato diverso – osserva padre Armanino della Società delle Missioni Africane, uno dei pochi missionari rimasti in Niger -. Si è trattato di una rivoluzione di palazzo, che poi è diventata altro. Imporre con estrema rapidità le sanzioni, senza tentativi di mediazione, con toni arroganti da parte di alcune potenze occidentali tipo la Francia, spingono a radicalizzare le posizioni. In questo modo i nemici dei miei nemici diventano amici”. Il Niger è un luogo strategico per le presenze militari occidentali, inoltre ci sono investimenti e interessi sulle materie prime, come l’uranio e il petrolio. “Tra qualche mese entrerà in funzione un oleodotto – ricorda -. Sono tutti aspetti che probabilmente hanno fatto da detonatore a ciò a cui stiamo assistendo”.

“La gente chiede un accordo, viste le difficoltà di un Paese che è già allo stremo”, afferma padre Armanino. “Si spera che la cosa non vada troppo per le lunghe per non far soffrire un Paese già afflitto da vari mali”: “Ci sono milioni di persone che hanno difficoltà alimentari e problemi di sicurezza alle frontiere tra Niger, Burkina Faso e Mali. Speriamo la crisi non duri più del dovuto e si possa trovare una via di uscita negoziata e un accordo, che per ora non si intravede. Attualmente non c’è nessuna possibilità di uscita”.

Anche la Nigeria si è detta contraria all’uso della forza. “Una posizione molto saggia – commenta il missionario -, anche per quanto riguarda la lotta comune agli estremisti di Boko haram. Il Niger ha legami stretti anche con il Benin, il Togo e altri Paesi. Un intervento armato sarebbe veramente caotico per tutta la regione”.

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Le migrazioni forzate e l’assenza dell’Europa – Stefano Galieni

È difficile se non impossibile prevedere gli effetti di quanto sta accadendo in alcuni Paesi del Sahel. Il golpe in Niger va considerato più che frutto di un intervento russo per interposti eserciti, come uno scontro politico interno che ha radici profonde. Il deposto presidente aveva riconfermato le concessioni alle aziende francesi che ricavano uranio dalle miniere del Paese, aveva deciso di sfiduciare il Capo di stato maggiore dell’esercito, che non considerava “collaborativo”, col risultato che l’esercito ed una parte della popolazione hanno sostenuto il golpe. Un problema per i Paesi NATO che hanno, ufficialmente in chiave antijihadista e per “fermare le persone che cercano di entrare in Libia per poi giungere in Europa, contingenti militari operanti, si tratta di soldati francesi, statunitensi, tedeschi e italiani. Il furore della popolazione però non a caso si è riversato verso l’ambasciata di Parigi e non ha minimamente toccato le altre sedi diplomatiche. È ovviamente innegabile che la situazione apra la strada ad un tentativo di ridefinizione del ruolo delle grandi potenze che tuttora attuano, in gran parte del continente africano, modalità diverse di colonialismo. Ma quanto sta accadendo in Niger è parte di un contesto molto più ampio: le tensioni affatto sopite in Senegal, i colpi di Stato che hanno portato a diversi avvicendamenti al potere fra il 2021 e il 2022 in Mali, Burkina Faso, Guinea Conakry, hanno di fatto messo in crisi l’Ecowas la comunità che riunisce 15 paesi dell’Africa Occidentale. Non a caso non appena Ecowas ha emanato sanzioni contro il nuovo governo nigerino, ha ricevuto tanto la dichiarazione dei governi di Mali e Burkina Faso che si sono dichiarati indisponibili all’uso della forza in Niger, quanto l’indisponibilità a qualsiasi sanzione da parte della Guinea. Si preannuncia una fase di instabilità che va a sovrapporsi a quanto già in atto a causa delle minacce islamiste e questo, in un’area in cui gli effetti del cambiamento climatico stanno rendendo ancora più catastrofiche le condizioni dovute alla desertificazione e che mettono a rischio la vita di milioni di persone, in particolare bambini.

Il Niger è uno dei Paesi più poveri del pianeta (70% degli abitanti sotto la soglia di povertà) nonostante le immense risorse di cui è ricco il sottosuolo: uranio, oro, metalli rari, al punto che finora soltanto pochissimi abitanti hanno provato la costosa via dell’emigrazione. Le persone non fuggono perché non hanno le risorse necessarie. E si aggiunga che una parte dell’economia nigerina si regge anche sul fatto di essere, per la sua collocazione geografica, la porta verso la Libia. Chi giunge dall’Africa Sub Sahariana deve quasi necessariamente attraversare le zone desertiche del Niger, la città al centro del traffico delle persone è Agadez a 1400 km dal confine libico, da lì partivano le diverse rotte. Quella che conduce in Algeria è forse la peggiore, secondo alarm phone solo nel 2022, circa 24.250 persone sono state rimandate in Niger, nel piccolo villaggio di Assamaka, grazie ad un accordo informale stipulato con Algeri, che autorizza a respingere i cittadini nigerini entrati illegalmente ma che, in assenza di reali sistemi identificativi, porta a rimandate indietro chiunque provi ad entrare da quei confini in Algeria. Persone che vengono spesso lasciate nel deserto, prive di qualsiasi sostegno. Nei primi 3 mesi del 2023 lo stesso destino è toccato, negli stessi luoghi a circa 8000 persone. Quindi l’unica frontiera da forzare resta quella libica, 340 km di confine in pieno deserto, dove numerosi sono già i tentativi di applicare strumenti di blocco ai confini anche avvalendosi di moderne tecnologie militari elettroniche che fanno capo alla nostra Leonardo Spa. Del settore è responsabile l’ineffabile Marco Minniti. Tutto questo per dire che è da dare per scontato come le crisi che attraversano quell’area del continente, in cui imperversano tanto i gruppi jihadisti quanto le milizie della Wagner, porteranno inevitabilmente ad un aumento dei tentativi di fuggire verso l’Europa. Da questo nascono le grandi preoccupazioni del governo Meloni che, al di là delle roboanti e vuote dichiarazioni su un nuovo “Piano Mattei” per l’Africa, ha, come interesse principale nel Sahel, quello di esternalizzare ancora più a sud di Libia e Tunisia, le frontiere.

Questa instabilità accentua una crisi generale che ha portato già in questi 8 mesi del 2023 ad un forte incremento degli arrivi in Italia dal mare, al punto che le persone oggi nei centri di accoglienza sono più di 130 mila, una cifra raggiunta a fine anno nel 2018. Il governo, in pieno accordo con la Commissione Europea, e come spesso già abbiamo detto, cerca di utilizzare tre strumenti. In primis gli accordi con i paesi rivieraschi per bloccare le partenze. Gli incontri di luglio e l’apertura del cd “Processo di Roma” in cui sono stati coinvolti anche i Paesi del Golfo, mirano a questo ma per dare risultati hanno bisogno di risorse, di tempo e della disponibilità dei governi di detti Paesi. Tunisia, Libia (dove non c’è ancora un governo che amministri l’intero territorio), Algeria, non accettano di divenire, come vorrebbe l’Italia, l’hub in cui fermare le persone, valutare le richieste d’asilo ritenute valide e rimandare indietro i non graditi. Forse qualche cedimento sarebbero anche disposti a farlo ma la grave crisi economica, (per Libia e Tunisia) anche politica, ma vogliono in cambio ingenti finanziamenti che l’UE non sembra disposta a concedere. A Tunisi si vorrebbe anche che il Fondo Monetario Internazionale sbloccasse i prestiti promessi senza richiedere riforme che impoverirebbero ancora di più la popolazione ma i dogmi del FMI, sono notoriamente intoccabili. Servirebbero insomma i miliardi dati a suo tempo alla Turchia, da inviare sottoforma di aiuto alla cooperazione e allo sviluppo, ma premiali in funzione della capacità di fermare i migranti. E servirebbe un intervento capace di coinvolgere tutti e 20 gli interlocutori della Conferenza di Roma del 23 luglio scorso, anche alcuni paesi direttamente di provenienza di chi fugge, ma su questa strada l’ostilità UE ad aprire i cordoni della borsa, a partire dai cosiddetti “paesi frugali” del Nord Europa è fortissima. Si aggiunga che i tempi necessari a far percepire gli effetti di tali strumenti non sono in linea con ciò che più preme a tutti i governi UE, le elezioni di giugno. La logica proibizionista senza cedimenti paga in termini di consenso solo se non comporta aggravi di spesa considerati intollerabili. Il secondo strumento è quello delle ricollocazioni e dei vincoli di solidarietà europea. Il Consiglio europeo dello scorso 8 giugno a Lussemburgo ha approvato un documento di intenti abbastanza rabberciato, anche quello dai tempi di attuazione lunghi, con l’opposizione di Polonia e Ungheria. Risultato, le ricollocazioni sono una chimera e l’effetto è nullo. Il terzo è quello che unisce riforma del sistema dell’accoglienza, in chiave sempre più emergenziale e tentativo di rendere più sensibile il numero dei rimpatri attraverso la stipula di nuovi accordi bilaterali con i paesi di provenienza o di Memorandum come quello siglato con Tunisi.

Qui si entra in un ulteriore ginepraio. Le politiche di Salvini hanno annientato un sistema di per sé già poco funzionale, i tagli ai fondi hanno portato alla diminuzione di posti nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) e alla demolizione del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI), ex Sprar, gestito dai Comuni. Salvini contava sui risultati delle politiche proibizioniste che non ci sono stati e che, di fronte a crisi forti, ne hanno annientato la già scarsa efficacia. Le ulteriori strette operate da Piantedosi alla cd “seconda accoglienza”, hanno fatto il resto e a questo si aggiunga l’arrivo dei tanti profughi ucraini che, giustamente beneficiano della direttiva 55/2001 ed hanno una corsia preferenziale negata agli altri che entrano in Europa. Le persone oggi arrivano e non si sa dove collocarle, nell’hotspot di Lampedusa, in grado di accogliere non più di 350 persone si è arrivati ad avere oltre 3000 “ospiti”, ma è l’intero sistema italiano ad essere oggi in tilt. Dopo aver dichiarato mesi fa lo stato di emergenza, che permette di agire in deroga anche per le gare di appalti, ad oggi ci sono circa 50 mila persone a cui trovare riparo entro i prossimi due mesi. In alcune realtà come Bologna, il prefetto sta forzando la mano e pretende di mandare via chi è da troppo tempo in un CAS per far posto ad altri. Significherebbe lasciare almeno un centinaio di persone per strada. Casi simili si sono verificati in Veneto e in altre zone d’Italia ma sono rimasti confinati nelle cronache locali. Un problema serio che rischia di esplodere e che non è ascrivibile ad una inesistente “emergenza immigrazione” quanto ad una manifesta incapacità delle istituzioni preposte. La soluzione che si cerca di imporre è forse peggiore del problema. Lo stato di emergenza, come si è detto, lascia ampia libertà di manovra, soprattutto al Viminale, dove si prendono le decisioni. Sembra voler prevalere la scelta di aprire o ripristinare grandi centri – quelli che garantiscono business agli enti gestori – in cui il confine fra CAS e hotspot diventerà labile. Gli hotspot aperti oggi sono situati soprattutto in zone di frontiera, i centri che verrebbero aperti potrebbero sorgere in numerose aree del Paese e fungere da filtro per tentare di rispedire le persone laddove sono partite, si tenta anche di rimandare nei paesi di transito, per ridurre i numeri. In posti di questo tipo ogni servizio teso a garantire anche una difesa legale sarebbe messo, come accade oggi a Lampedusa, a rischio enorme. Anche le richieste d’asilo o i ricorsi potrebbero diminuire e, nei sogni di chi governa, permettere di incrementare i rimpatri. Ma anche questo comporta grosse spese e – per i desiderata governativi – scarsi benefici se non in termini di propaganda con cui mantenere consenso. Insomma, tre strumenti inefficaci in assenza di una capacità di programmare la gestione di una problematica sociale come l’immigrazione forzata, in un’ottica quantomeno continentale e senza voler mettere mano all’apertura di reali canali di ingresso legali che non richiederebbero neanche la realizzazione di nuovi sistemi di mala accoglienza.

Se siamo partiti per dire questo dalla crisi nei Paesi del Sahel è perché si è consapevoli che il numero di persone che tenterà di arrivare in Europa è destinato ad aumentare ed in assenza di soluzioni politiche nessuna dichiarazione da sovranisti sguaiati potrà produrre reali effetti né per chi arriva né per chi accoglie.

Intanto, nel silenzio assordante, continuano a consumarsi “piccole Cutro”, solo nella settimana trascorsa almeno 120 persone, in differenti naufragi, hanno perso la vita e numerosi sono quelli che pietosamente risultano dispersi. Ci sono stati momenti di attenzione per coloro che la vita la perdono invece nel deserto, sono tanti e il loro spesso è un naufragio individuale che si perde, come la sabbia che si alza. La guerra silenziosa fa più vittime di quella che prende le prime pagine dei giornali da tanto tempo, a dimostrazione imperitura che ci sono morti che semplicemente, per l’opulenta Europa, non esistono o, al massimo, come dicono cinicamente alcuni “se la sono cercata.

da qui

 

Intervista ad Achille Mbembé

RFI: Achille Mbembé, i colpi di stato si susseguono in Africa occidentale con l’ultimo a Niamey, in Niger. Di cosa pensi che siano un sintomo?

Achille Mbembe: Credo che questi colpi di stato siano l’espressione di un grande cambiamento. Il ciclo storico, che si era aperto dopo la seconda guerra mondiale, che aveva portato a una decolonizzazione incompleta, questo ciclo storico è terminato. L’Africa sta per entrare in un altro periodo della sua storia, un periodo che sarà lungo e che comporterà enormi sconvolgimenti. Cosa ne verrà fuori? È molto difficile al momento saperlo.

In Africa oltre il 60% della popolazione ha meno di 25 anni, e c’è una vera e propria rottura tra le generazioni, come lei sottolinea. E questo è uno dei motivi per te di queste crisi.

Questo è un motivo fondamentale. L’intreccio di conflitti di classe, perché le disuguaglianze hanno continuato ad allargarsi, conflitti di genere perché in Africa è in atto una rivoluzione invisibile delle donne, e conflitti generazionali. E il cambiamento demografico del continente è ovviamente spaventoso, non solo in Francia, ma nel resto d’Europa. Ed è lei che sta alla base delle politiche anti-migratorie, che mirano a trasformare il continente in una doppia prigione. Penso che si tratti di scelte disastrose che, a breve termine, saranno pagate in contanti da un aggravamento di quello che si chiama con termine pigro, a mio avviso, il sentimento antifrancese in Africa.

La Francia in questo contesto si presenta come la causa principale dei mali vissuti dall’Africa francofona. Quanto ritiene giustificata questa accusa?

È infondato. Oggi la Francia non decide tutto, nemmeno nelle sue ex colonie. Occorre proprio uscire da questa logica del capro espiatorio che consiste nel rigettare la maggior parte delle proprie contraddizioni sullo straniero. Ovviamente ci sono delle scelte fatte dalla Francia alla fine della colonizzazione che si sono rivelate disastrose. Per via, direi, del posto sproporzionato occupato dal complesso securitario-militare francese, che ha una visione dell’Africa in cui l’Africa è percepita come un continente a rischio, che presenta pericoli sia per sé stessa che per i suoi vicini europei. Questo tropismo marziale ha di fatto portato a scelte politiche disastrose che, in ogni caso, hanno solo giovato alle forze del caos e della predazione. Molto più dello straccio rosso, russo o cinese, queste scelte sono responsabili della sconfitta morale, intellettuale e politica della Francia di oggi in Africa.

Quindi la Francia deve abbandonare le sue basi in Africa?

Il tempo è contato. E c’è da aspettarsi ogni tipo di accelerazione, perché l’Africa è entrata in un altro ciclo storico. Solo chi l’ha capito avrà la possibilità di influenzarne il futuro.

Per tornare al putsch in Niger, la comunità internazionale e la Comunità degli Stati dell’Africa occidentale scommettono, per tornare al regime del presidente Mohamed Bazoum, sulle sanzioni e sulla minaccia di un intervento militare in Niger. Cosa ne pensi ?

La diplomazia sembra aver perso il suo posto e il suo status. Che siamo arrivati ​​a pensare che ogni conflitto sia solubile nella guerra e nelle tensioni economiche, credo che tutto ciò testimoni la povertà antropologica del nostro tempo. A lungo termine, la priorità in Africa deve essere la smilitarizzazione di tutti gli aspetti della vita politica, economica, sociale e culturale. E per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo investire massicciamente nella prevenzione dei conflitti, nel rafforzamento delle istituzioni di mediazione, nel dialogo civico e costituzionale. Una democrazia duratura non attecchirà con i bazooka.

da qui

 

qui la traduzione del discorso a cura di Marinella Correggia

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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