Dossier fs 48 – Aldani 7

Il pezzo che segue è parte di un disegno ambizioso che avevo nutrito alcuni anni fa di riunire le migliori energie della fantascienza per arrivare a una sintesi dei principali punti di vista correnti e delineare gli elementi essenziali di quello che avrebbe potuto diventare il manifesto per il rilancio della fantascienza italiana. Avvertivo allora, cinque o sei anni fa credo, e avverrto più forte oggi, l’esistenza di una possibile inversione di rotta della decadenza che tutti lamentiamo.


Il problema è che la maggior parte di coloro che oggi di fantascienza si interessano sono persone mature, alcune settantenni come io sono. Ora, salvo eccezioni, l’impresa di costruire un manifesto e di imprimere una svolta a un movimento letterario non è opera che i temperamente più tiepidi (anche se più accorti) della maturità possano agevolmente affrontare. Per di più credo di non essere riuscito convenientemente a spiegare i miei propositi, né a infondere negli interlocutori quel sacro fuoco, ritorno di fiamma di una passione che stava per estinguersi, senza la presenza del quale nessuna impresa è possibile: nessun progetto può arrivare a destinazione. Anche se riesce a partire, e non è detto, difficile giunga alla stazione terminale.
Da parte mia ha scritto la parte più impegnativa, una parte teorica che giace in attesa di chissà che. Visto il sostanziale silenzio (salvo qualcosa che mi è pervenuta da parte di Prestiniero, che ringrazio) ho deciso di comprimere le ambizioni e limitarmi a completare l’immenso saggio prodotto con alcuni esempi che potessero illustrare la parte teorica. Riducendo ulteriormente i miei buoni propositi mi sono adattato a portare solo due esempi: la fantascienza di Sandro Sandrelli (per il quale non nascondo una mia certa inclinazione) e Lino Aldani, del quale analizzavo “Quando le radici”. L’esame dell’opera di Sandrelli (una in particolare: I Ritorni di Cameron McLure) è rimasta ferma allo stato di progetto; più avanti è andato invece la parte relativa a Aldani. Che parimenti ho interrotto, dopo averla completata su quaderno, quando si è trattato di riportarla sul computer.
Vari impedimenti hanno reso impossibile completare la trascrizione.
Poiché lo ritengo di un qualche interesse, riporto di seguito l’incipit di ciò che mi è sembrato opportuno progettare allora, sperando che la pubblicazione funga da stimolo per il resto che giace in attesa di essere ritrovato e trascritto.
Mauro Antonio Miglieruolo
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Ancora su “Quando le Radici”
di Mauro Antonio Miglieruolo

Rileggo il romanzo di Lino Aldani quasi 30 anni dopo il primo, attonito esame. Nell’allora d’una sconfinata gioventù che amava considerarsi eterna pur sapendosi caduca (ordinaria contraddizione che vive ogni umano, per quanto messo sull’avviso) restai impressionato dalla novità (e forse originalità) dell’opera: dal tema affrontato (il disagio di vivere i Tempi Moderni) e il rilievo dato all’interiorità del protagonista. Proprio quel che ci voleva per spezzare il monopolio della Fantascienza americana, pregevole certamente, ma troppo contenta di se stessa da riuscire per tempo a rinnovarsi: si segnalavano già i primi apprezzabili tentativi di rinnovamento necessitati dai tempi e ignorati dagli addetti ai lavori. Nell’oggi della sopravvenuta terza età, reso più avvertito dall’esperienza maturata (ammettendo che in qualche modo sia maturata); e reso capace di allargare l’orizzonte delle proprie problematiche, volgo lo sguardo altrove e mi inoltro nell’ardua impresa di storicizzare il romanzo, di collocarlo criticamente nella sua epoca, per illustrarlo nella sua certa esemplarità. Per arrivare a capire quel che è stato attraverso quel che effettivamente è.

L’impresa si scontra con due ostacoli, all’insegna di un’unica necessità (di azzeramento culturale):

– sgombrare il terreno dai giudizi consolidati frutto della lettura pregressa, giudizi che potrebbero compromettere l’obiettività della rilettura odierna;

– sgombrare il terreno dalle impressioni ricavate dalle letture epocali nel frattempo godute, quali le opere di Celine, Svevo, Grass, Borges, Guimaraes Rosa, Bukowsky (quello americano) ecc. ecc. (il quale ultimo, lo dico per chi volesse interessarsene, ci ha lasciato alcune esemplari pagine di pura Fantascienza), per sottrarsi sia alla tentazione dei confronti tra diversi, sia a quella più insidiosa delle sovrapposizioni: sovrapporre modalità espressive proprie alla letteratura tradizionale (stratificatasi nei secoli) alle nuove scoperte e praticate dalla Fantascienza, ultima arrivata nel campo delle lettere (e perciò rozza ed eccessiva come tutti i parvenu)[i]. Fantascienza che ha modi suoi propri, finalità originali ed esigenze specifiche da rispettare.

Quantunque all’interno di una visione più larga e complessiva della storia della letteratura sia possibile concepire e produrre accostamenti fecondi tra vecchia e nuova letteratura, accostamenti che in questo contesto temo potrebbero risultare fuorvianti. Mi concedo comunque di abbozzarne uno. Quello tra Arno e Queixote, sperando di non far torto all’uno o all’altro personaggio e, pertanto, né all’antico autore né al contemporaneo.

Arno ha molto del “Fantasioso don Chisciotte”. È, anzi, parte di quella gigantesco tentativo di arrivare alla natura della realtà in cui siamo immersi (vera o illusoria? vedi anche Calderon de la Barca), delle cui problematiche è parte l’altrettanto gigantesca lotta, iniziata ben prima di Galilleo e di cui il Chisciotte è una delle tante testimonianze, tra libertà e servitù, fantasia e tritume quotidiano, tra ideale e appiattimento sul reale (che coinvolge i filosofi idealisti medesimi, Hegel in testa), tra cambiamento e conservazione, lotta i cui esiti sono ancora incerti.

Arno vuole essere, scegliere per sé, in un mondo che gli impone un dover essere estraneo alle sua essenza, alle sua aspirazioni, alla sua volontà; il principio di realtà che l’insieme umano-sociale ha costruito è, dal suo punto di vista, un vero e proprio irreale, un assurdo, un incubo e lo è in quanto impossibile da praticare senza enorme disagio; la malinconia di Arno corrisponde al malinconico mondo crepuscolare degli uffici, della burocrazia e delle macchine che lo instrada su quello che lui considera un fallimento (salvato appena da un grido di speranza finale). Ma il suo fallimento, nella fosca luce crepuscolare della costrizione, è il fallimento di quella stessa forza che lo imprigiona. Così è per Chisciotte, con l’unica differenza che egli alla fine accetta di arrendersi, di intristire nella sconfitta, mentre Arno fino all’ultimo s’ostina nel disconoscimento, forse perché inserito in una realtà non più solo grigia, ma oramai invivibile. La differenza è dunque nella oggettività, non nei personaggi; anche se, approfondendo, differenze caratteriali di rilievo, se si vuole, possono essere individuate, rilevanti in sé, ma che all’interno del significato generale delle opere appaiono poco significative.

Ambedue poi fanno riferimento a un mondo perduto (e farse mai guadagnato, esistente solo nelle loro convinzioni); ambedue combattono per ritornare a qualcosa che, qualunque sia stata, non potrà mai tornare a far parte del procedere ordinario delle cose. Non almeno per volontà d’un singolo o per volontà di singoli, per quanti numerosi possano essere. La realizzazione dei propri sogni è sempre in avanti, nei giorni che seguono e mai in quelli passati, nell’illusorio tentativo di costringerli a riattualizzarsi. Machiavelli utilizzava parole impietose contro i profeti disarmati. Contentiamoci di pronunciarne poche e rammaricate per constatare l’inefficacia degli eroi solitari.

Tornando alle differenze, una più rilevante le possiamo individuare nelle intenzioni dei due autori. Cervantes sorride del suo personaggio. Sorride di lui e dei propri contemporanei. Aldani invece è pienamente complice di Arno, condivide il rigurgito di insopportabilità e veemenza che lo scuote. Non sorride, non piange e non emette lamenti: infuria. Vi è poi da notare che Chisciotte aspira all’ideale e alla purezza mitica (il Buon Cavaliere Antico); mentre Arno ha nel materiale l’ideale e nel sogno d’una vita libera il nocciolo d’ogni sua possibile tensione in direzione del mito. Queixote parte per essere sconfitto; è melanconico propria a causa di questa sua vocazione allo sbaraglio. Arno è convinto di vincere, conosce le difficoltà, ma non abbastanza da ridimensionare i propri propositi. Chisciotte è solo per incomunicabilità; Arno perché è l’ultimo uomo al mondo. Per la verità anche Chisciotte lo è, ma senza saperlo, mentre Arno sa bene di esserlo e da ciò nasce l’insanabile sua insoddisfazione. Detto con maggiore profondità: il primo nega d’esser solo, forte della compagnia delle sue chimere; il secondo non intende tenerne conto, debole a causa della sua pervicace, inevitabile ostinazione.

Ma quel che è peggio è la denuncia implicita in queste loro illusorie viti dissipate. La velleità è sempre perdente; ma parimenti velleitarie sono sia la tensioni a una vita più a misura d’uomo (a misura delle aspirazioni di Arno, ma si possono ammettere anche quelle di Chisciotte), sia l’imposizioni di una organizzazione sociale che presume di poter espungere dal suo seno il peculiare delle persone: l’inventiva, la soggettività, la fantasia, il sogno. Allora come ora la speranza è l’ultima a morire. Ma pur muore.

E, a modo mio, storicizzo questa seconda lettura, con una affermazione forte che, spero, nessuno vorrà considerare apologetica: nonostante i cambiamenti sopravvenuto nell’Io lettore l’opera appare la stessa, peculiare ieri, peculiare oggi, forte delle congiuntura letteraria che il suo stesso sorgere contribuisce a produrre (purtroppo non a risolvere durevolmente).

Una congiuntura particolare: l’incontro tra letteratura tradizionale e letteratura fantascientifica, sotto il dominio delle esigenze espressive di quest’ultima. È proprio essere riuscito, nonostante la contaminazione con un genere potente come la letteratura tradizionale, a mantenersi all’interno di tale dominio che a Lino Aldani spetta il riconoscimento del maggior merito: merito alla sua capacità di destreggiarsi all’interno delle diverse (e a volte opposte) esigenze; di non essersi lasciato risucchiare, neppure occasionalmente, dalla tendenza all’esclusività proprie a ognuna; di aver rispettato sostanzialmente la necessità poste dalla narrazione e la libertà (l’autodeterminazione) del suo personaggio senza permettere alla presenza del doppio modulo di comprometterne l’armonia. Ch’io sappia si tratta dell’unico tentativo (riuscito), dentro e fuori la Fantascienza[ii].

Un tentativo, quello di Aldani, necessario anzitutto per dar luogo alla sua opera per com’egli la pre-sentiva; per permetterle di fluire e salire all’altezza dei suoi propri scopi. Ma anche, ignoro quanto consapevolmente, per venire incontro a una duplice-unica esigenza: uscire dai fondamentalismi fantascientifici; ampliare gli spazi entro cui esercitare la propria personale-universale tensione verso il fantastico-meraviglioso. Un tentativo che veniva nel momento più opportuno, il migliore (dal punto di vista artistico) per dare i suoi frutti. Le forze che poi avrebbero continuato a operare erano tutte pronte e definite; il lettore fedele già lavorato dal succedersi delle ondate di rinnovamento interno; quello occasionale disponibile a prendere in esame proposte di lettura intelligenti e passabilmente curate.

Tuttavia

[i] Novità che è possibile ipotizzare approdi alla originalità.

[ii] Fuori dalla Fantascienza i tentativi di sfruttamento di quest’ultima, a volte occulti, a volte a cielo aperto, sono numerosi. Ma si trattava, appunto, di sfruttamento, di utilizzo spregiudicato di determinate modalità proprie alla Fantascienza, non di incontri alla pari per un reciproco scambio di favori in vista di una reciproca rivitalizzazione. Gli elementi assunti, a volte trasformati, a volte presi così com’erano, erano volti a fini diversi da quelli propri alle fonti con risultati positivi e originali (Grass: Il Tamburo di Latta e il suo nano auto mutante), ma più spesso appena passabili.

Non un paesaggio bucolico e alieno, quiale forse lo stesso Aldani avrebbe gradito, ma la scena di ciò che nella sua opera è mancato e la cui presenza non sarebbe servita a arricchirlo.
Serve a noi per migliorare il quadro, meglio comprendere e più ammirare.

***
Qui finisce il pezzo proposto. Confido nelle molteplici sollecitazioni, che forse non verranno, che potrebbero indurmi a riprendere e completare

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

  • Ai miei tempi ho letto – e dopo molti anni riletto – “Quando le radici”, e non siamo soltanto Mauro e il sottoscritto a ritenerlo non solo il miglior romanzo italiano sf, ma anche un romanzo italiano migliore di migliaia di libri sf di lingua anglosassone e talora anche francese editi in Italia. La contaminazione con il maistream, che Aldani frequentò praticamente in tutte le sue opere, ottenendo risultati esemplari, affascinò – sempre… “ai miei tempi” – più d’uno. Molti di costoro non ci sono più (Maurizio Viano, Gianfranco Briatore, e altri) oppure strada facendo si sono allontanati dalla sf, scoraggiati dalla carenza di sbocchi per la sf italiana, e dai preconcetti verso la sf italiana da parte dei lettori, preconcetti che peraltro persistono tuttora (che possono riassumersi cosi’: “la sf italiana non è come quella americana”, il che è verissimo… [per fortuna]), e dalla esiguita’ delle… ricadute sia economiche, sia mediatiche. I “superstiti” da tempo brancolano nel buio, consapevoli gli spazi sono quelli che sono (non mi inoltro nelle cause di questa situazione, non ne vale la pena).
    Pestriniero – citato da Mauro – è uno degli autori che hanno continuato a lavorare, nonostante tutto, sulla trada tracciata da Lino Aldani, raggiungendo spesso ottimi risultati. Il carissimo Vittorio Curtoni (pace all’anima sua) a sua volta valentissimo scrittore, era un aldaniano fervente. Nel mio piccolo, lo sono sempre stato anche io. E certamente ce ne sono altri. E dunque? A mio modesto parere quella teorica “unione delle forze nostrane” cui Mauro anela da tempo è una bella idea, ma al riguardo sono molto pessimista. Il mondo della sf italiana, il nostro fandom, è sempre stato molto individualista e talora stizzoso, pretenzioso, litigioso: in 60 anni di sf in Italia non si è riusciti a creare “nulla”, solo veleni (e anche qui, di parlare non vale la pena). Saluti a tutti. – Vittorio

  • Una piccola aggiunta e’ doverosa: oggi c’e’ un gruppo agguerrito, i Connettivisti, che stanno in effetti realizzando cose molto interessanti. Spero solo che duri. Nei 60 anni della sf italiana gruppi ce ne sono stati centinaia, ma pochi hanno lasciato una traccia (e le giovani generazioni non ne sanno nulla). Inoltre i gruppi non si univano mai tra loro, ciascuno seguiva gelosamente una sua via, mentre è l’unione che fa la forza.

  • Caro Vittorio, ti devo dare ragione su tutto, escluso su un punto. Quando affermi: Nel mio piccolo, lo sono sempre stato anche io.
    Potrebbe starmi bene se tradotto in: Nel nostro piccolo, lo sono stato anche io.
    E sarebbe già ingeneroso. Perché tu sei uno di quelli che non solo ha fatto tanto per la fantascienza, come scrittore, organizzatore di eventi e critico, ma anche per non aver mai preso parte a inutili contenziosi.
    Le differenze di opinione sono legittime, non le baruffe chiozzotte.
    Tanti auguri ai Connettivisti. Anche io spero che durino. E di potermi recare a uno dei loro convegni, salute permettendo

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