Fisica, buddhismo, illusioni e realtà
Riflessioni di Giuliano Spagnul su un testo di Carlo Rovelli
Strana genia gli scienziati: presi dalla malia (vera e propria fascinazione) del razionale, arrivano fino all’ultimo gradino della conoscenza ‘oggettiva’ del reale per poi cedere a quel disperato bisogno di spiegazione ultima a cui nessun essere umano sembra potersi, in definitiva, sottrarre. Anche a costo di confrontarsi con il vuoto del nulla, come fa Carlo Rovelli1, approcciando un testo filosofico scritto da un “priore di un monastero nel Sud dell’India di quasi due millenni or sono” Nagarjuna. Rovelli, che, da buon scienziato, ha da sempre guardato con poca “simpatia ai tentativi di legare scienza moderna e pensiero orientale antico (…) tirati per i capelli, riduttivi da entrambi i lati” dopo aver ceduto alle insistenze di chi voleva che leggesse Nagarjuna, ne rimane, senza mezzi termini, folgorato. “Tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro, (…) le cose sono ‘vuote’ nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di, qualcosa d’altro.” Citando direttamente Nagarjuna: “Quello che esprime il linguaggio non esiste. Il cerchio dei pensieri non esiste”, Rovelli giunge alla conseguenza ovvia che “non c’è nessuna essenza ultima o misteriosa da comprendere, che sia l’essenza vera del nostro essere. ‘Io’ non è altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendenti da qualcosa d’altro. Secoli di concentrazione occidentale sul soggetto svaniscono nell’aria come brina la mattina.” E fin qui è difficile non convenire, anche se mezzo secolo fa i conti con l’ ’Io’, col soggetto occidentale, li aveva già fatti Michel Foucault preconizzando a quell’invenzione, che è l’uomo, l’imminente cancellazione “come sull’orlo del mare un volto di sabbia.”2 Così come, ancor prima, lo storico Marc Bloch parlava di una vera e propria “ossessione embriogenetica” nel definire la costante ricerca, da parte della cultura occidentale, delle ‘origini’ come quel “cominciamento che spiega”3. È da tempo che il pensiero occidentale si interroga (e non solo quello prettamente filosofico) sulle proprie ossessioni fondative, sulle essenze che garantiscono ciò che è umano da ciò che non lo è, su ciò che distingue natura e cultura, e così via. Quale bisogno può avere uno scienziato, come Rovelli, di ricorrere a un testo così antico e di una cultura così distante dalla nostra, con tutti quei rischi da lui stesso previsti? Cosa ci dice in più dei classici filosofi della modernità occidentale (Nietzsche, Whitehead, Heidegger, Nancy, Putman…) da Rovelli stesso citati, se pur di sfuggita? Forse che “quella di Nagarjuna è una prospettiva radicalmente relazionale” e ancora che “ogni prospettiva esiste solo in dipendenza da altro, non è mai realtà ultima, compresa la prospettiva di Nagarjuna.” Ma, ancora Foucault non ha certo detto cose dissimili nella costruzione del suo metodo archeologico in cui cerca di “ «operare un decentramento che non lascia alcun privilegio a nessun centro». Ma la purezza metodologica che gli deriva sembra avergli creato il vuoto intorno. Egli riconosce onestamente la propria difficoltà: «È che per il momento, e senza che possa ancora prevedere un termine, il mio discorso, lungi dal determinare il luogo da cui esso parla, evita il suolo su cui potrebbe fondarsi».”4 E addirittura qui forse possiamo dire che milleottocento anni non sono passati invano e l’Occidente, almeno in questo, ha capito che per l’essere umano la negazione assoluta di sé non risolve alcun problema ma pone un problema che, pur nella sua irrisolvibilità, va mantenuto come tale. Ritorniamo all’avvertenza di Rovelli e concordiamo che è facile tirare per i capelli pensieri orientali e per di più antichi, e sembra proprio che anche Rovelli ci sia riuscito in pieno. Se “anche la vacuità è vuota di essenze: è convenzionale” non è cosa di cui ci si possa compiacere e neppure disperare. Da questo non può derivare nessun “atteggiamento etico profondamente rasserenante” e tanto meno che “comprendere che non esistiamo ci può liberare dall’attaccamento e dalla sofferenza.” Si lotta per la vita, si lotta per l’esistere, e a modo loro, credo, perfino i buddhisti, i più santi fra loro, non possano liberarsi del tutto da questo anelito fin troppo umano. Pensare di liberarci dalla “illusorietà del mondo” non può voler dire rincorrere l’illusorietà utopica di una serena accettazione della propria non esistenza. Esistiamo in quanto soffriamo, godiamo, viviamo e moriamo. Non c’è liberazione possibile dalla “illusorietà del mondo”, possiamo solo confliggere con tutte quelle illusioni che si vorrebbero assolute e vere, impedendoci così di poter cambiare per adattarci, di volta in volta, alle esigenze che la vita ci impone. Non rassegnati, forse infelici ma vivi. Ed è su questo che la scienza dovrebbe darci lezioni, non tanto filosofiche di saggezza universale, quanto piuttosto di analisi della vita, nel suo destreggiarsi fra casualità e necessità, per fare il verso di un vecchio ma sempre attuale testo di Monod. Vita che è processo di cambiamenti continui in cui l’unica cosa sicura a cui possiamo riferirci, citando il saggio folle Philip K. Dick, è che l’unica realtà certa è quella che continua a esistere anche quando abbiamo smesso di crederci; tutto il resto lo possiamo considerare, anche senza scomodare Nagarjuna, il necessario gioco delle illusorietà indispensabili per continuare a vivere.
Nota 1: Carlo Rovelli, Lezioni di fisica buddhista: le cose sono solo relazioni, pubblicato su «La Lettura» – supplemento del quotidiano “Il corriere della sera” – del 10.12.2017 http://francosenia.blogspot.it/2017/12/un-dialogo-interminabile.html
Nota 2: Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1978, p. 414
Nota 3: Marc Bloch, Apologia della storia. O Mestiere di storico, Einaudi, Torino, 2009, p. 25
Nota 4: H. L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, La casa Husher, Firenze, 2010, p. 139-140
L’IMMAGINE – scelta dalla “bottega” – E’ DI JACEK YERKA
Riflessioni fondamentali per la rifondazione, necessaria e necessariamente in ritardo, del pensiero umano e di quello occidentale in particolare. A quale vertiginoso approdo ci porterà? Per intanto aggrappiamoci all’invito di Spagnul di attenersi al concreto del flusso della vita che ci è stata data e a rispondere alle domande che essa pone. Per il resto chi vivrà vedrà.