Gaza è un cimitero di bambini

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CHIEDERE SCUSA – Ugo Giannangeli

Nei giorni scorsi Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della sera si è posto una domanda: che cosa doveva e deve fare Israele, qual è la risposta ragionevole all’azione del 7 ottobre? Della Loggia si risponde ovviamente giustificando Israele che con tonnellate di bombe sta radendo al suolo Gaza uccidendo indiscriminatamente combattenti, donne, vecchi e bambini. Poi Della loggia si allarga giungendo a criticare il diffuso pacifismo e il rifiuto del ricorso alle armi da parte di larghi settori della società civile; secondo Della Loggia il ricorso alle armi ormai è diventato un tabù.

Eppure la risposta, la sola possibile, nell’interesse dello stesso Israele, era lì a portata di mano: Israele, dopo un attacco così eclatante, avrebbe dovuto prendere atto che oltre 75 anni di occupazione, massacri, prigionia, espropri, esili non avevano piegato il popolo palestinese, arrendersi all’evidenza, rinunciare al proprio antico progetto e… chiedere scusa.

Chiedere scusa ai palestinesi ammazzati prima ancora della nascita dello Stato dalle bande terroristiche Stern e Irgun. A quelli ammazzati ed espulsi nel ‘48  e nel ‘67. Ai vecchi, alle donne e ai bambini massacrati a Sabra e Chatila. Ai milioni di prigionieri transitati per le carceri israeliane. Ai gazawi periodicamente bombardati nel 2008/ 2009, nel 2012, nel 2014, nel 2021 ed ora. Alle donne, ai vecchi e bambini che nel 2018 hanno partecipato alla Grande marcia del ritorno e sono stati uccisi o invalidati dai cecchini israeliani che si esercitavano al tirassegno come in un luna park. Ai palestinesi della West Bank costretti quotidianamente all’umiliazione dei check points, a vedere la propria casa demolita, i propri terreni espropriati, i propri olivi sradicati dai bulldozer.

Dopo le scuse, il risarcimento, laddove possibile. Come?

Aprire le frontiere al ritorno dei profughi come ordinato sin dal 1948 dalla risoluzione Onu 194. Chi vuole torna, chi ha ancora la chiave può provare ad aprire la porta ma la serratura sarà stata cambiata. Pazienza: l’inquilino abusivo fornirà la chiave e pagherà anni di affitto arretrato. Chi non può o non vuole tornare avrà diritto a un equo indennizzo.

Ordinare ai 700.000 coloni della West Bank, di Gerusalemme est e del Golan di tornare a loro scelta nelle loro case in Israele o nel Paese di origine da cui si sono mossi per andare a colonizzare un territorio non loro.

Abbattere 720 km di muro per permettere ai palestinesi di percorrere 100 m camminando per 100 m e non per 5 km.

Liberare tutti i prigionieri, risarcendoli per gli anni di vita rubati. Indennizzare le famiglie dei prigionieri uccisi sotto tortura o a seguito di sciopero della fame.

Ricostruire tutta Gaza, le sue moschee, i suoi ospedali, le sue scuole. Consegnare barche nuove ai pescatori.

Ripiantare 2 milioni di olivi e risarcire gli agricoltori per i mancati raccolti.

Richiamare Ilan Pappé chiedendogli scusa e assegnargli una cattedra universitaria dalla quale poter spiegare la vera storia di Israele. Mettere in Tribunale una targa in ricordo dell’avv. Felicia Langer che ha speso la vita a difendere palestinesi avanti alle Corti militari.

Tutto ciò ha costi anche economici enormi. Ma la collettività ebraica della diaspora saprà sostenerli e lo farà anche nell’interesse di Israele perché possa diventare uno Stato normale, con una popolazione non militarizzata nel fisico e nella mente che esprime governi fascisti e razzisti. Israele potrà darsi dei confini, una Costituzione che riproduca i buoni propositi solo enunciati nella Dichiarazione di indipendenza, potrà annullare l’oltraggiosa legge del 2018 sulla supremazia ebraica, potrà distribuire nelle scuole libri che non inneggiano all’odio e al disprezzo verso i palestinesi, potrà avere un esercito che sarà veramente un IDF, esercito difensivo, e non IOF, esercito di aggressione e di occupazione. Avrà severe leggi sulle armi che non consentano a civili di terrorizzare persone inoffensive con armi da guerra.

C’è molto da fare ma si inizi ad interrompere la vendetta e la rappresaglia. Venga il cessate il fuoco, venga la liberazione degli ostaggi insieme alla liberazione di tutti gli ostaggi palestinesi altrimenti detti prigionieri. La storia dirà se sarà necessario convivere vicini ma separati, forse con reciproca diffidenza, o se i palestinesi saranno capaci di perdonare tutto il male subito e riusciranno a convivere in un unico Stato con i loro ex carcerieri con parità di diritti.

Nel mondo scomparirà l’antisionismo e resterà forse solo un po’ di antisemitismo relegato negli ambiti fascisti e razzisti, attuali sostenitori di Israele. Tornerà ad avere un ruolo il diritto internazionale e l’ONU con vantaggio universale. Mentre scrivo giunge la notizia della richiesta di dimissioni di Guterres, segretario dell’ONU, per avere detto due ovvietà: Israele deve rispettare il diritto umanitario e Hamas è frutto dell’occupazione asfissiante. Segue subito la notizia del diniego di visto di ingresso in Israele ai funzionari ONU. Del resto ricordo che a suo tempo Yair Lapid andò a Ginevra sotto la sede del Consiglio dei diritti umani dell’ONU a gridare che quello era il Consiglio dei diritti dei terroristi.

Israele deve essere recuperato da questa deriva e dalla sua assoluta incapacità di riconoscere le proprie responsabilità. Chi vuole aiutarlo non deve assecondarlo ma metterlo all’angolo e fermarlo. Lettere come quella che sta circolando a firma anche di Walzer e Grossmann contro la sinistra internazionale che sarebbe incapace di empatia per gli israeliani innocenti uccisi non aiutano perché non individuano il nocciolo del problema: come ci si può dolere della mancanza di empatia per le vittime civili israeliane mentre si bombardano civili palestinesi fin dentro le autombulanze e la conta provvisoria ad oggi è di quasi 10.000 uccisi di cui oltre 3500 bambini?

Nonostante la forsennata campagna mediatica in corso la cosiddetta società civile ha capacità critica e di discernimento. Lo dimostrano le oceaniche manifestazioni nel mondo a favore delle ragioni del popolo palestinese. E chi partecipa a queste manifestazioni ha empatia per tutte le vittime ma è capace di individuare le responsabilità.

 

 

La Soluzione Finale di Israele per i Palestinesi – Chris Hedges

Ho documentato la nascita del fascismo ebraico in Israele. Ho riferito sull’estremista Meir Kahane, a cui è stato impedito di candidarsi e il cui Partito Kach è stato messo fuori legge nel 1994 e dichiarato organizzazione terroristica da Israele e dagli Stati Uniti. Ho partecipato alle manifestazioni politiche tenute da Benjamin Netanyahu, che ricevette generosi finanziamenti dagli americani di destra, quando si candidò contro Yitzhak Rabin, che stava negoziando un accordo di pace con i palestinesi. I sostenitori di Netanyahu al grido di “Morte a Rabin” bruciarono un’effigie di Rabin vestito con un’uniforme nazista. Netanyahu ha inscenato un finto funerale per Rabin.

Il Primo Ministro Rabin fu assassinato il 4 novembre 1995 da un fanatico ebreo. La vedova di Rabin, Lehea, incolpò Netanyahu e i suoi sostenitori per l’omicidio del marito.

Netanyahu, che divenne Primo Ministro nel 1996, ha trascorso la sua carriera politica allevando estremisti ebrei, tra cui Avigdor Lieberman, Gideon Sa’ar, Naftali Bennett e Ayelet Shaked. Suo padre, Benzion, che lavorava come assistente del pioniere sionista Vladimir Jabotinsky, che Benito Mussolini definì “un buon fascista”, era un leader del Partito Herut che invitava lo Stato Ebraico a impadronirsi di tutta la terra della Palestina storica. Molti di coloro che formarono il Partito Herut compirono attacchi terroristici durante la guerra del 1948 che istituì lo Stato di Israele. Albert Einstein, Hannah Arendt, Sidney Hook e altri intellettuali ebrei, descrissero il Partito Herut in una dichiarazione pubblicata sul New York Times come un “partito politico strettamente simile per organizzazione, metodi, filosofia politica e fascino sociale ai partiti nazista e fascista”.

C’è sempre stata una vena ebreo-fascista all’interno del Progetto Sionista. Ora ha preso il controllo dello Stato israeliano.

“La sinistra non è più in grado di superare il tossico ultranazionalismo che si è sviluppato qui”, ha avvertito nel 2018 Zeev Sternhell, sopravvissuto all’Olocausto e principale autorità israeliana in materia di fascismo, “il tipo di ultranazionalismo il cui ceppo europeo ha quasi spazzato via la maggioranza del popolo ebraico”. Sternhell ha aggiunto: “Noi vediamo non solo un crescente fascismo israeliano, ma un razzismo simile al nazismo nelle sue fasi iniziali”.

La decisione di cancellare Gaza è stata a lungo il sogno dei cripto-fascisti israeliani, eredi del movimento di Kahane. Questi estremisti ebrei, che compongono la coalizione di governo al potere, stanno orchestrando il Genocidio a Gaza, dove centinaia di palestinesi muoiono ogni giorno. Difendono l’iconografia e il linguaggio del loro fascismo. L’identità ebraica e il nazionalismo ebraico sono la versione sionista del sangue e della terra. La supremazia ebraica è santificata da Dio, così come lo è il massacro dei palestinesi, che Netanyahu paragonò agli Ammoniti biblici, massacrati dagli israeliti. I nemici, di solito musulmani, destinati all’estinzione sono subumani che incarnano il male. La violenza e la minaccia della violenza sono le uniche forme di comunicazione che coloro che sono al di fuori del cerchio magico del nazionalismo ebraico comprendono. Milioni di musulmani e cristiani, compresi quelli con cittadinanza israeliana, devono essere epurati.

Un documento di 10 pagine trapelato dal Ministero dell’Informazione e della Sicurezza Nazionale Israeliano datato 13 ottobre 2023 raccomanda il trasferimento forzato e permanente dei 2,3 milioni di residenti palestinesi della Striscia di Gaza nella penisola egiziana del Sinai.

È un grave errore non prendere sul serio gli agghiaccianti appelli per lo sradicamento totale e la Pulizia Etnica dei palestinesi. Questa retorica non è iperbolica. È un intento reale. Netanyahu in un tweet, poi rimosso, ha descritto la battaglia con Hamas come una “lotta tra i figli della luce e i figli delle tenebre, tra la civiltà e la barbarie”.

Questi fanatici ebrei hanno iniziato la loro versione della Soluzione Finale al problema palestinese. Secondo l’Ufficio Umanitario delle Nazioni Unite, nelle prime due settimane di attacco hanno sganciato 12.000 tonnellate di bombe su Gaza per distruggere almeno il 45% delle unità abitative di Gaza. Non hanno intenzione di farsi dissuadere, nemmeno da Washington.

“È diventato evidente ai funzionari statunitensi che i leader israeliani credono che le vittime civili di massa siano un prezzo accettabile nella campagna militare”, ha riferito il New York Times.

“Nelle conversazioni private con le controparti americane, i funzionari israeliani hanno fatto riferimento a come gli Stati Uniti e altre potenze alleate ricorsero a devastanti bombardamenti in Germania e Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale, incluso il lancio delle due testate atomiche a Hiroshima e Nagasaki, per cercare di sconfiggere quei Paesi”, continua il giornale.

L’obiettivo è un Israele “puro”, purificato dai contaminanti palestinesi. Gaza diventerà una terra desolata. I palestinesi di Gaza verranno uccisi o costretti nei campi profughi oltre il confine con l’Egitto. La redenzione messianica avrà luogo una volta che i palestinesi saranno espulsi. Gli estremisti ebrei chiedono la demolizione della Moschea di Al-Aqsa, il terzo santuario più sacro per i musulmani, costruito sulle rovine del Secondo Tempio ebraico, distrutto nel 70 d.C. dall’esercito romano. La moschea sarà sostituita da un “Terzo Tempio” ebraico, una mossa che infiammerebbe il mondo musulmano. La Cisgiordania, che i fanatici chiamano “Giudea e Samaria”, sarà formalmente annessa a Israele. Israele governato dalle leggi religiose imposte dai partiti ultraortodossi Shas (Guardie Sefardite) e Yahadut HaTora (Giudaismo Unito nella Torah), sarà una versione ebraica dell’Iran.

Il passo verso il totale controllo israeliano sulla terra palestinese è breve. Gli insediamenti ebraici illegali di Israele, le zone militari interdette, le autostrade chiuse e le basi militari hanno sequestrato oltre il 60% della Cisgiordania, trasformando città e villaggi palestinesi in ghetti circondati. Esistono oltre 65 leggi che discriminano direttamente o indirettamente i cittadini palestinesi di Israele e coloro che vivono nei Territori Occupati. La campagna di uccisioni indiscriminate di palestinesi in Cisgiordania, molti dei quali da parte di milizie ebraiche canaglia, insieme alle demolizioni di case e scuole e alla confisca delle rimanenti terre palestinesi esploderà. Oltre 133 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania dall’esercito israeliano e da coloni ebrei dall’incursione di Hamas del 7 ottobre e migliaia di palestinesi sono stati catturati dall’esercito israeliano, picchiati, umiliati e imprigionati.

Israele, allo stesso tempo, si sta rivoltando contro i “traditori ebrei” che rifiutano di abbracciare la folle visione dei fascisti ebrei al potere e che denunciano l’orribile violenza dello Stato. I consueti nemici del fascismo: giornalisti, difensori dei diritti umani, intellettuali, artisti, femministe, liberali, sinistra, omosessuali e pacifisti, sono già presi di mira. La magistratura, secondo i piani avanzati da Netanyahu, sarà limitata. Il dibattito pubblico si affievolirà. La società civile e lo stato di diritto cesseranno di esistere. Quelli etichettati come “sleali” saranno deportati.

I fascisti non rispettano la sacralità della vita. Gli esseri umani, anche quelli appartenenti al loro stesso gruppo, sono sacrificabili per costruire la loro folle utopia. I fanatici al potere in Israele avrebbero potuto scambiare gli ostaggi detenuti da Hamas con le migliaia di ostaggi palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, motivo per cui gli ostaggi israeliani furono sequestrati. E ci sono prove che nei caotici combattimenti che hanno avuto luogo una volta che i militanti di Hamas sono entrati in Israele, l’esercito israeliano ha deciso di prendere di mira non solo i combattenti di Hamas, ma anche i prigionieri israeliani con loro.

“Diverse nuove testimonianze di israeliani testimoni oculari dell’attacco a sorpresa di Hamas del 7 ottobre nel Sud di Israele si aggiungono alle prove crescenti che l’esercito israeliano ha ucciso i propri cittadini mentre combattevano per neutralizzare gli uomini armati palestinesi”, scrive Max Blumenthal su The GrayZone.

Tuval Escapa, un membro della squadra di sicurezza del Kibbutz Be’Eri, osserva Blumenthal, ha istituito una linea diretta per coordinare i residenti del kibbutz e l’esercito israeliano.

Escapa ha detto al quotidiano israeliano Haaretz che quando la disperazione ha cominciato a prendere il sopravvento, “i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili, incluso bombardare le abitazioni per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi”.

Il giornale ha riferito che i comandanti israeliani sono stati “costretti a richiedere un attacco aereo” contro le proprie strutture all’interno del Valico di Erez verso Gaza “al fine di respingere i terroristi” che ne avevano preso il controllo. Quella base ospitava ufficiali e soldati dell’Amministrazione Civile Israeliana.

Israele, nel 1986, ha istituito una politica militare chiamata Direttiva Annibale, apparentemente dal nome del Generale cartaginese che si avvelenò piuttosto che essere catturato dai Romani, in seguito alla cattura di due soldati israeliani da parte di Hezbollah. La direttiva è concepita per impedire che le truppe israeliane cadano nelle mani del nemico attraverso il massimo uso della forza, anche a costo di uccidere i soldati e i civili catturati.

La direttiva è stata applicata durante l’assalto israeliano del 2014 a Gaza noto come Operazione Margine di Protezione. I combattenti di Hamas il 1° agosto 2014 catturarono un ufficiale israeliano, il Tenente Hadar Goldin. In risposta, Israele ha sganciato più di 2.000 bombe, missili e proiettili sull’area in cui era detenuto. Goldin è stato ucciso insieme a oltre 100 civili palestinesi. La direttiva sarebbe stata abrogata nel 2016.

Gaza è l’inizio. La Cisgiordania è la prossima.

Gli israeliani che esultano per l’incubo palestinese presto vivranno un loro incubo.

Traduzione di Beniamino Rocchetto  – Invictapalestina.org

da qui

 

 

Tutti gli errori portano a Gaza – Ilan Pappe

A CHI CONVIENE IL 7 OTTOBRE – Israele usa l’attacco a pretesto di politiche genocide. Agli Usa serve a riaffermare la presenza nell’area mediorientale Ai Paesi occidentali per limitare le libertà, con la scusa del terrorismo

Pur condannando nella maniera più netta possibile il massacro commesso da Hamas, il segretario Onu ha voluto ricordare al mondo che quelle azioni non vengono dal nulla.

Ha affermato che alla terribile tragedia del 7 ottobre non è possibile dissociare la consapevolezza di 56 anni di occupazione dalla reazione emotiva di fronte alla tragedia del 7 ottobre. La risposta israeliana non si è fatta attendere. Il governo di Tel Aviv ha chiesto le dimissioni di Antonio Guterres e lo ha accusato di sostenere Hamas e giustificare il massacro. Lettura che i media hanno sostenuto acriticamente e che ha messo sul tavolo una nuova accusa di antisemitismo. Prima del 7 ottobre veniva bollata come antisemita ogni critica allo Stato di Israele e la messa in discussione delle basi morali del sionismo, paragonate al negazionismo sull’Olocausto. Dopo il 7 ottobre è assimilato all’antisemitismo anche il tentativo di contestualizzare e storicizzare le azioni dei palestinesi, tentativo che in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, è considerato anche come l’anticamera della giustificazione del terrorismo.

La de-storicizzazione degli eventi del 7 ottobre dà ai governi un pretesto per portare avanti politiche che finora avevano evitato di agire in ragione di considerazioni etiche, tattiche o strategiche. Per Israele, l’attacco del primo sabato di ottobre è usato come pretesto per perseguire politiche genocide nella Striscia di Gaza. Per gli Usa è un pretesto per cercare di riaffermare la propria presenza nell’area mediorientale dopo anni di assenza, e per alcuni Paesi occidentali è un pretesto per violare e limitare le libertà democratiche dei loro cittadini, in nome di una nuova guerra al terrorismo.

La de-contestualizzazione storica ha anche messo in luce una discrepanza tra i messaggi di sostegno e solidarietà dei governi occidentali nei confronti di Israele e il modo in cui questi messaggi vengono interpretati. Infatti, sebbene avessero l’intenzione di mostrare la compassione e l’attenzione dell’Occidente verso Tel Aviv, sono stati intesi da Israele come un’assoluzione per le passate violazioni del diritto internazionale e dei diritti fondamentali dei palestinesi, oltre che come un assegno in bianco per continuare l’opera di distruzione della Striscia.

I contesti in cui inquadrare gli ultimi eventi sono vari, e sono tutti storici. (…) Quello più recente e rilevante per la crisi attuale, è la pulizia etnica della Palestina del 1948, operazione che ha compreso anche lo sfratto forzato dei palestinesi nella Striscia di Gaza, proprio da quei villaggi sulle cui rovine sono stati edificati alcuni degli insediamenti israeliani colpiti il 7 ottobre 2023. Questi palestinesi sradicati facevano parte del complesso dei 750 mila palestinesi che fino al 1948 vivevano in oltre 500 villaggi e una dozzina di città, e d’improvviso persero la loro casa e divennero rifugiati.

Il mondo si accorse di questa pulizia etnica, ma non la condannò. Di conseguenza, Israele ha continuato a ricorrere abitualmente alla pulizia etnica come strumento per assicurarsi di avere il minor numero possibile di palestinesi nativi nello spazio della Palestina storica. Il piano ha incluso l’espulsione di 300 mila palestinesi durante e dopo la guerra del 1967 e l’espulsione di oltre 600 mila dalla Cisgiordania, Gerusalemme e la Striscia di Gaza.

L’occupazione a lungo termine della Cisgiordania ha portato centinaia di migliaia di palestinesi a subire incarcerazioni senza processo, punizioni collettive e vessazioni da parte dei coloni israeliani, oltre che a non avere alcuna voce in capitolo sul proprio futuro. Infine, gli oltre 15 anni di assedio di Gaza, uno dei più lunghi della storia, riguarda una popolazione composta quasi per metà da bambini. Già nel 2020 le Nazioni Unite hanno sostenuto che quella dei gazawi non è un’esistenza umana sostenibile. È importante ricordare che l’assedio è stato imposto in risposta alle elezioni democratiche che si sono tenute nella Striscia, quando gli abitanti di Gaza hanno preferito Hamas all’Autorità Palestinese. Ma ancora più importante è ricordare che già nel 1994 la Striscia di Gaza era circondata da filo spinato e totalmente staccata dalla Cisgiordania, perché Israele negava qualunque collegamento organico, sconfessando di fatto l’idea della soluzione dei due Stati solo un anno dopo la firma degli accordi di Oslo, che avrebbero dovuto portare a una pace tra i due popoli proprio sulla base di quella soluzione. Quel filo spinato e l’aumento dell’ebraicizzazione della Cisgiordania erano una chiara indicazione del fatto che Oslo, agli occhi degli israeliani, era solo un’occupazione con altri mezzi, non una genuina ricerca di pace.

Israele controllava i punti di uscita e di ingresso al ghetto di Gaza, monitorava l’ingresso del cibo (a volte pesando anche le calorie), delle merci, delle medicine e degli altri beni di prima necessità. Hamas ha reagito lanciando razzi sulle aree civili di Israele. Israele ha detto che lo faceva perché la sua ideologia prevedeva l’uccisione degli ebrei, paragonando l’organizzazione islamista a un’estensione del nazismo e ignorando del tutto il contesto della Nakba, dell’assedio disumano e barbarico di due milioni di persone e dell’oppressione dei loro compatrioti in altre parti della Palestina storica. Hamas, per molti versi, è stato l’unico gruppo palestinese che prometteva ai palestinesi di vendicarsi delle politiche oppressive israeliane, anche se oggi è chiaro che il modo in cui ha risposto a Israele può portare alla sua stessa fine, almeno nella Striscia di Gaza, e fornisce un pretesto per ulteriori oppressioni del popolo palestinese. L’efferatezza dell’attacco di Hamas non può essere giustificata in alcun modo, ma questo non significa che i suoi atti non possano essere spiegati e contestualizzati. Per quanto orribile sia stato l’attacco, e per quanto barbara sia stata la risposta israeliana, la cattiva notizia è che tutto ciò non cambia per nulla le carte in tavola, nonostante l’ingente costo umano da entrambe le parti. Israele rimarrà uno Stato fondato da un movimento coloniale, elemento che resta nel suo Dna politico e determina la sua natura ideologica. Ciò significa che, nonostante si autodefinisca l’unica democrazia del Medio Oriente, Israele rimarrà una democrazia solo per i suoi cittadini ebrei.

La lotta intestina che ha diviso il Paese fino al 7 ottobre, tra quello che potremmo chiamare lo “Stato di Giudea” da un lato, inteso come lo Stato dei coloni che vogliono un Israele ancora più teocratico e razzista, e dall’altro con lo Stato di Israele inteso come il mantenimento dello status quo, è destinata a riaffiorare, anzi ci sono già avvisaglie di un’imminente ripresa dello scontro.

La definizione di Israele come Stato di apartheid che ne hanno dato alcune organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, resterà valida nonostante l’evolversi degli eventi nella Striscia e anche dopo. I palestinesi non scompariranno e continueranno la lotta di liberazione, la società civile di molti Paesi del mondo si schiererà con loro mentre i governi di quegli stessi Paesi continueranno a sostenere Israele e a garantirgli l’immunità.

La via d’uscita da questa impasse è sempre la stessa: un cambio di regime che garantisca diritti uguali per tutti from the river to the sea (‘dal fiume al mare’ come recita il famoso slogan, ndt) e il ritorno dei rifugiati. Altrimenti, lo spargimento ciclico di sangue non avrà mai fine.

da qui

 

 

Due domande – Francesco Masala

Paradossi

Se dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la carneficina Israeliana a Gaza si arriverà alla creazione di uno stato di Palestina, dopo 75 anni, vorrà dire che Hamas ha avuto ragione, e che tutta la diplomazia dell’Occidente collettivo è solo quella delle portaerei delle armi e dei genocidi?

Record su record

Dopo la prima settimana di novembre lo stato d’Israele di Benjamin Netanyahu ha surclassato il record degli assassinati a Sabra e Chatila, il numero degli assassinati di Srebrenica è stato superato in scioltezza, manca poco per superare il numero degli ebrei assassinati nella rivolta del Ghetto di Varsavia. Cosa ci vuole di più per entrare nella spazzatura della Storia?

 

 

Guerra Israele-Palestina: L’obiettivo finale di Israele è molto più sinistro del ripristino della “sicurezza” – Richard Falk

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres è stato recentemente messo alla gogna da Israele perché ha affermato una verità evidente, osservando che l’attacco di Hamas del 7 ottobre “non è arrivato dal nulla”.

Guterres stava richiamando l’attenzione del mondo sulla lunga serie di gravi provocazioni criminali di Israele nella Palestina Occupata, che si sono verificate da quando Israele è diventata la Potenza Occupante dopo la Guerra del 1967.

All’occupante, un ruolo che dovrebbe essere temporaneo, in tali circostanze è affidato il compito di sostenere il diritto umanitario internazionale garantendo la sicurezza e l’incolumità della Popolazione Civile Occupata, come enunciato nella Quarta Convenzione di Ginevra.

Israele ha reagito con tanta rabbia alle osservazioni del tutto appropriate e accurate di Guterres perché potrebbero essere interpretate come implicanti che Israele “se l’è cercata” alla luce dei suoi gravi e numerosi abusi contro Ia popolazione civile nei Territori Palestinesi Occupati, in modo più flagrante a Gaza, ma anche in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Dopotutto, se Israele potesse presentarsi al mondo come una vittima innocente dell’attacco del 7 ottobre, un episodio che è stato esso stesso pieno di crimini di guerra, potrebbe ragionevolmente sperare di ottenere carta bianca dai suoi protettori in Occidente per reagire a suo piacimento, senza essere infastidito dai vincoli del diritto internazionale, dell’autorità delle Nazioni Unite o della moralità comune.

Infatti, Israele ha risposto all’attacco del 7 ottobre con la sua tipica abilità nel manipolare il dibattito globale che modella l’opinione pubblica e guida le politiche estere di molti importanti Paesi. Tali tattiche sembrano quasi superflue in questo caso, poiché gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno rapidamente rilasciato un’approvazione generale per qualunque cosa Israele abbia fatto in risposta, per quanto vendicativo, crudele o estraneo al ripristino della sicurezza del confine israeliano.

Il discorso di Guterres alle Nazioni Unite ha avuto un impatto così drammatico perché ha bucato la facciata d’innocenza costruitasi ad arte da Israele, in cui l’attacco del 7 ottobre è arrivato all’improvviso. Questa decontestualizzazione ha distolto l’attenzione dalla devastazione di Gaza e dall’Assalto Genocida alla sua popolazione di 2,3 milioni di abitanti, in stragrande maggioranza innocente e da lungo tempo vittima.

Incredibili lacune

Ciò che trovo strano e inquietante è che, nonostante il consenso sul fatto che l’attacco di Hamas sia diventato fattibile solo a causa di straordinarie carenze nelle capacità di intelligence di Israele, presumibilmente ineguagliabili, e nella rigorosa sicurezza dei confini, questo fattore è stato raramente discusso da quel giorno.

Invece di riempirsi la bocca di veleno, perché in Israele e altrove non ci si è concentrati sull’adozione di misure di emergenza per ripristinare la sicurezza israeliana correggendo queste costose mancanze, che sembrerebbero essere il modo più efficace per garantire che nulla di paragonabile al 7 ottobre possa ripetersi?

Posso comprendere la riluttanza del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu a sostenere questa spiegazione o questa forma di risposta, poiché equivarrebbe a una confessione della sua personale corresponsabilità per la tragedia traumaticamente vissuta da Israele quando i combattenti palestinesi si sono riversati oltre il confine.

Ma che dire degli altri in Israele e tra i governi che lo sostengono?

Indubbiamente, Israele sta con ogni probabilità indirizzando urgentemente tutti i mezzi a sua disposizione per colmare queste incredibili lacune nel suo sistema di sicurezza e per rafforzare le sue capacità militari lungo i confini relativamente ristretti di Gaza.

Non è necessario essere un esperto di sicurezza per concludere che affrontare efficacemente questi problemi di sicurezza farebbe di più per prevenire e scoraggiare futuri attacchi di Hamas, rispetto a infliggere questo ciclo continuo di punizioni devastanti alla popolazione palestinese di Gaza, pochissima della quale è coinvolta con l’ala militare di Hamas.

Furia Genocida

Netanyahu ha dato ulteriore plausibilità a tale speculazione presentando una mappa del Medio Oriente senza includere la Palestina, cancellando di fatto i palestinesi dalla loro stessa Patria, durante un discorso di settembre alle Nazioni Unite, dove ha parlato di una nuova pace in Medio Oriente nella prospettiva di normalizzazione tra Israele e l’Arabia Saudita. La sua presentazione equivaleva ad un’implicita negazione del consenso delle Nazioni Unite sulla Soluzione dei Due Stati come tabella di marcia per la pace.

Nel frattempo, la Furia Genocida della risposta di Israele all’attacco di Hamas sta facendo infuriare le persone in tutto il mondo arabo, di fatto in tutto il mondo, anche nei Paesi occidentali. Ma dopo più di tre settimane di bombardamenti spietati, assedio totale e sfollamenti forzati di massa, la discrezione di Israele di scatenare questo fiume di violenza su Gaza deve ancora essere messa in discussione dai suoi sostenitori occidentali.

Gli Stati Uniti, in particolare, stanno sostenendo Israele alle Nazioni Unite, usando il loro veto quando necessario in seno al Consiglio di Sicurezza, e votando con quasi nessuna solidarietà assieme ai principali Paesi contro un cessate il fuoco all’Assemblea Generale. Anche la Francia ha votato a favore della Risoluzione dell’Assemblea Generale, e il Regno Unito ha avuto perlomeno la decenza di astenersi, entrambi probabilmente sottoposti alle pressioni populiste montate da grandi e rabbiose manifestazioni di piazza nei rispettivi Paesi.

Nel reagire alle tattiche israeliane a Gaza si è anche dimenticato che, fin dal primo giorno, il governo estremista ha avviato una serie scioccante di provocazioni violente in tutta la Cisgiordania Occupata. Molti hanno interpretato questo palese scatenarsi della violenza dei coloni come parte della Fase Finale del Progetto Sionista, volto a ottenere la vittoria sui resti della Resistenza Palestinese.

Non c’è motivo di dubitare che Israele abbia deliberatamente reagito in modo eccessivo all’attacco del 7 ottobre, impegnandosi immediatamente in una risposta Genocida, soprattutto se il suo scopo era quello di distogliere l’attenzione dall’intensificarsi della violenza dei coloni in Cisgiordania, acuita dalla distribuzione di armi da parte del governo alle “Squadre di Sicurezza Civile”.

Il piano finale del governo israeliano sembra essere quello di porre fine una volta per tutte alle fantasie di spartizione delle Nazioni Unite, conferendo autorità all’obiettivo massimalista sionista di annessione o sottomissione totale dei palestinesi della Cisgiordania.

Infatti, per quanto ossessivo possa sembrare, la dirigenza israeliana ha colto l’occasione del 7 ottobre per “Finire il Lavoro” commettendo un Genocidio a Gaza, con la scusa che Hamas rappresentava un pericolo tale da giustificare non solo la sua distruzione, ma questo indiscriminato attacco contro l’intera popolazione.

La mia analisi mi porta a concludere che questa guerra in corso non riguarda principalmente problemi di sicurezza posti da Gaza o le minacce alla sicurezza poste da Hamas, ma piuttosto qualcosa di molto più sinistro e assurdamente cinico.

Israele ha colto questa opportunità per soddisfare le ambizioni territoriali sioniste in mezzo “alla nebbia della guerra” inducendo un’ultima ondata di catastrofica espropriazione palestinese. Che si chiami “Pulizia Etnica” o “Genocidio” è di secondaria importanza, anche se si qualifica già come una delle più grandi catastrofi umanitarie del 21º secolo.

Di fatto, il popolo palestinese è vittima di due catastrofi convergenti: una politica, l’altra umanitaria.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Soffrire la fame a Gaza – Tareq S. Hajjaj

La popolazione del sud di Gaza è raddoppiata. Brulica di profughi provenienti dalla parte settentrionale della Striscia, fuggiti a causa della guerra, e accolti dalla popolazione del sud.

Qui i prezzi sono alle stelle. I prodotti che prima costavano 1 Shekel ora ne costano 10. La maggior parte dei beni essenziali sono esauriti e le cose stanno peggiorando. Le persone si svegliano nelle loro case, o nelle scuole o negli ospedali dove hanno cercato rifugio, in una lotta per la sopravvivenza. La prima cosa che controllano è il rubinetto dell’acqua. Tutti aspettano una goccia d’acqua, che sia per bere o per lavarsi. I più fortunati hanno abbastanza acqua per tutto il giorno. Se sei ancora più fortunato, hai abbastanza cibo per te e la tua famiglia.

Tutto è cambiato. La vita si è trasformata, o forse è solo tornata a uno stato di nuda esistenza. Oggi il valore di un uomo si misura dalla sua capacità di portare a casa un solo sacco di pane. Le strade traboccano di gente, con folle di persone che iniziano a cercare il pane fin dal primo mattino. Al calar della notte, tutti si rifugiano al coperto, poiché chiunque cammini per le strade di notte diventa un bersaglio mobile. Anche durante il giorno, le persone corrono rischi enormi sfidando il fuoco ininterrotto degli aerei da guerra israeliani.

È una lotta senza fine: la maggior parte delle volte per la sopravvivenza, per il pane e l’acqua, ma anche per il desiderio morboso di caricare il telefono solo per scoprire quanti dei tuoi amici e familiari sono stati inceneriti o sepolti vivi, o per dire al mondo che sei tu quello che sta morendo, o per raggiungere i tuoi cari e dire loro “non ancora”.

Ad oggi, centinaia di migliaia di famiglie sono rimaste nel nord. Si sono rifiutate di lasciare Gaza City e di fuggire a sud. Molti non hanno parenti o contatti a cui rivolgersi, oppure i loro parenti hanno detto loro che Israele sta bombardando anche il sud di Gaza. Coloro che fuggono trovano i rifugi, i complessi delle Nazioni Unite, gli ospedali e le scuole, affollati oltre ogni immaginazione; allora chiamano i loro familiari rimasti al nord e dicono che qui non c’è posto per loro, che la gente fa ore di fila per il pane.

Coloro che sono rimasti nel nord a volte se la cavano meglio se hanno la fortuna di avere un pozzo d’acqua o un tradizionale forno di argilla che non necessita dell’elettricità o del gas per funzionare. Le loro famiglie sono numerose, di solito 20 persone che vivono sotto lo stesso tetto a causa della guerra, e quindi cuocere il proprio pane è diventata un’opzione più praticabile, soprattutto perché non comporta l’umiliazione di cercare il pane per strada. Al sud la farina non è disponibile. Molte famiglie hanno forni di argilla ma non riescono a trovare la farina per utilizzarli.

Nel frattempo, i bombardamenti e gli attacchi aerei israeliani non cessano. Gli attacchi aerei nel nord stanno prendendo di mira tutto, devastando interi quartieri e aree residenziali. Gli attacchi nel sud sono più mirati e prendono di mira case e famiglie specifiche.

L’occupazione spinge costantemente i residenti di Gaza City e del nord ad andare a sud. E continua a prendere di mira le famiglie che fuggono. Probabilmente quasi mezzo milione di persone sono ancora nel nord, e tutte sono a rischio di sterminio a causa della campagna genocida di bombardamenti a tappeto israeliana, che procede parallelamente all’invasione di terra da parte dell’esercito israeliano.

Tutto quello che è successo finora dimostra una cosa: Gaza è sola. Combatte da sola e muore da sola. Le persone non hanno alcuna fiducia nelle organizzazioni internazionali che pretendono di salvaguardare i diritti umani. Non hanno nemmeno fiducia nella prospettiva di un sostegno regionale. Non credono che qualcuno al mondo sarà in grado di salvarli. Dicono che “l’Egitto è il nostro vicino, è un paese fratello”, ma nonostante ciò non ha aiutato in alcun modo concreto la popolazione di Gaza. In effetti, la maggior parte delle persone sostiene che l’Egitto abbia chiuso il suo valico di frontiera con Gaza in linea con gli ordini israeliani.

A causa di questa schiacciante percezione di isolamento, le previsioni delle persone per il futuro sono apocalittiche. Quando sentono Blinken dire che crede nella soluzione dei due Stati, la gente sa cosa significa. Non si tratta di una soluzione a due Stati basata sui confini del 1967, ma di uno “Stato” palestinese su ciò che resta della Striscia di Gaza e su parti del Sinai. Non sono tranquillizzati dai proclami arabi secondo i quali non accetteranno la pulizia etnica dei palestinesi a Gaza; hanno già fatto tali promesse prima, solo per poi tornare indietro. Ora, l’Egitto sta giurando che non permetterà ai palestinesi di entrare in Egitto – questo significa che le porte del Sinai stanno per aprirsi.

Anche gli abitanti del sud di Gaza, che ospitano migliaia di famiglie provenienti dal nord, sono ormai convinti che il loro turno di essere sfollati in Egitto sia vicino. Contemplano la prospettiva di morire nel deserto, di fame, di sete o di caldo. Quando l’esercito israeliano avrà finito di radere al suolo Gaza City e di spazzarla via completamente, la gente è convinta che rivolgerà lo sguardo a sud.

Quando ci fu la Nakba del 1948, il mondo non era a conoscenza di tutto ciò che accadde. La pulizia etnica di oggi si sta svolgendo sotto gli occhi di tutto il mondo, e anche coloro che hanno condannato le espulsioni del 1948 stanno osservando in silenzio la Nakba del 2023.

Quando ci chiediamo come i nostri nonni e antenati abbiano lasciato le loro case nel 1948 e siano fuggiti a Gaza e in esilio, ora abbiamo la nostra risposta. Sappiamo esattamente perché furono costretti ad abbandonare tutto ciò che avevano e a scappare con poco più che la loro vita. La morte che scende dal cielo ci spingerà ad abbandonare tutto pur di sopravvivere, e questo è ciò che accadrà ai palestinesi di Gaza.

Il seguente articolo è stato trasmesso dal corrispondente di Mondoweiss da Gaza, Tareq Hajjaj, tramite nota vocale.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

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QUI il video Gaza: l’eroismo di un popolo, di Manlio Dinucci

 

 

CIAK, SI (RI)GIRA! – Enrico Euli

Il film l’abbiamo già visto, è sempre lo stesso, è sempre quello…

Lo stesso che abbiamo già visto e rivisto negli ultimi anni.

Anche la colonna sonora non cambia: è il suono delle bombe ad accompagnarlo.

Gira che ti rigira, guerra bella…

E la guerra gira e rigira le ragioni e i torti, i buoni e i cattivi, le verità e le menzogne.

Ritornano i soliti buoni (gli Stati Uniti) ed i soliti buoni a nulla (l’OLP di Abu Mazen).

Ritornano i soliti cattivi terroristi e aggressori ingiustificati ed ingiustificabili (ora Hamas, poco fa i russi, ancora prima Al Qaeda, Saddam o Gheddafi…).

Il film procede poi con la solita trama, a ripetere gli stessi gesti, le stesse inutili parole, gli stessi vuoti appelli a negoziare, le stesse petizioni di principio, le stesse condanne, giustificazioni ed autoassoluzioni.

E gli stessi morti (esseri umani, persone normali, come noi, come siamo e saremo noi).

 

Il copione prevede -nel frattempo- manifestazioni pro-Palestina o pro-Israele: anzichè provare a porsi come terza forza di mediazione ed interposizione non armata fra le parti, indipendentemente dalle opposte punteggiature sul passato, anche recente. Con l’avvio della distruzione di Gaza e col massacro dei suoi cittadini questa strada è ormai stretta, disperata, quasi impraticabile. E’ il risultato che terrorismo e guerra, di entrambe le parti. volevano e vogliono ottenere, e -ancora una volta- riuscendo nell’intento. Il copione prevede infatti che le potenziali terze forze restino assenti, ammutolite, balbettanti, che riescano a malapena a invocare pause o tregue, peraltro dividendosi tra loro: alcuni governi sono apertamente schierati con Israele, altri si stracciano le vesti per i palestinesi. Come già accaduto per la guerra ucraina (ma -come purtroppo vedremo  e agiremo e subiremo- con espansioni e conseguenze ben più gravi ed irreversibili), ci si limita a tifare per la Roma o per la Lazio, a lanciare anatemi, a tentare di aizzare o sedare le popolazioni a seconda delle finalità di potere interne a ciascuno Stato.

Già si guarda al dopo, dicono in tv.

Quando si sarà fatta terra bruciata a Gaza, Israele controllerà il territorio e ne garantirà la sicurezza (per se stesso, non per i palestinesi superstiti, sempre che questi vogliano e possano tornare e che trovino qualcosa che almeno assomigli ad un campo profughi al posto dei loro palazzi sventrati).

Quando Hamas sarà estirpato dalla Striscia, i loro capi sterminati, i loro tunnel e le loro rampe di lancio resi inservibili, gli ostaggi liberati, tornerà la pace e l’OLP tornerà a fare il governo fantoccio, come già accade da tempo in Cisgiordania.

Così dicono. Ma per ogni militante ucciso, questa guerra ne genererà di nuovi a decine.

Per ogni razzo che viene neutralizzato, altri dieci ne arriveranno da chi ha armato Hamas.

Per ogni bambino ucciso, avremo un kamikaze in più pronto a farsi esplodere in una qualunque città dell’Occidente.

Anche questo film l’abbiamo già visto, e sappiamo già come va a finire.

Lo stesso vale per le deportazioni di massa in corso.

Quelle che Israele sta generando a Gaza (e chissà chi si prenderà i profughi questa volta, e quanti soldi arriveranno, come sempre, a Giordania ed Egitto perché se li tengano a casa loro, prima o poi).

É la stessa logica che spinge l’Italia a deportare gli immigrati in Libia, in Tunisia (accordo, per ora, non riuscito) o -come annunciato ieri- in Albania.

Situazioni fuori controllo e fuori legge, che nessuno andrà a verificare: vere e proprie macellerie di stato, lager ammantati di buona creanza, depositi di scarti umani in attesa di rimpatrio, dopo viaggi allucinanti.

Le ‘democrazie’ (statunitensi, europee, israeliane) possono permettersi questo e altro, proprio in virtù del loro autoproclamarsi tali e sostenersi a vicenda in questo immondo teatrino del mondo.

Il set ed il cast li facciamo noi, da sempre.

Ma il cerone inizia a sciogliersi e le maschere stracciate svelano ormai il nostro vero, mostruoso volto, sempre più osceno ed arrogante, sempre meno umano.

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Medici israeliani sollecitano il bombardamento degli ospedali di Gaza

di Tali Shapiro e Jonathan Ofir Mondoweiss

Decine di medici israeliani dicono all’esercito israeliano che deve bombardare gli ospedali di Gaza, affermando che “i residenti di Gaza” hanno “attirato su di sé il loro annientamento” per aver permesso che gli ospedali diventassero “nidi terroristici”.

Macchie di sangue su un’ambulanza della Mezzaluna Rossa Palestinese, dopo un attacco aereo israeliano all’ingresso dell’ospedale al-Shifa di Gaza City, 3 novembre 2023. (foto: Saeed Jaras/APA images)

Circa 90 medici israeliani hanno firmato una lettera che chiede di bombardare gli ospedali di Gaza.

Solo la settimana scorsa, decine di eminenti rabbini israeliani avevano già assicurato ai leader israeliani che hanno il diritto di bombardare l’ospedale al-Shifa di Gaza, e la lettera di questa settimana, firmata da “Medici per i diritti dei soldati dell’IDF [esercito israeliano]“, esorta a bombardare ogni singolo ospedale di Gaza.

La lettera afferma, senza mezzi termini, che a causa del sospetto di “attività terroristiche”, gli ospedali sono “un obiettivo legittimo per l’annientamento”. Si afferma che “le ambulanze che evacuano i pazienti verso sud per essere curati altrove sono a disposizione dei malati”. Non si dice che anche queste ambulanze vengono bombardate da Israele, e non si dice che anche il sud viene martellato senza pietà.

I medici affermano che “i residenti di Gaza… sono quelli che hanno attirato su di sé il loro annientamento” – facendo eco alla retorica genocida dei politici israeliani centristi che hanno persino affermato che “i bambini di Gaza hanno attirato questo su di sé”.

I medici applicano i termini “serpenti”, “vespe” e “nidi di terroristi” per la disumanizzazione del nemico, che sembra estendersi da Hamas a tutto il popolo palestinese…

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La violenta punizione collettiva contro i palestinesi in CisgiordaniaPaola Caridi

Oltre cento palestinesi uccisi in Cisgiordania da quando, il 7 ottobre, Hamas ha compiuto il massacro di 1.400 israeliani, appena oltre il confine di Gaza, e Israele ha dato inizio a un bombardamento a tappeto sulla Striscia.  I palestinesi uccisi in Cisgiordania negli ultimi venti giorni si sommano – dati dell’Ufficio per gli Affari umanitari dell’ONU per il Territorio Palestinese Occupato (OchaOpt) – ai 189 registrati nel 2023, fino al 19 settembre, solo in West Bank. Nella tragica conta dei morti ammazzati, le vittime palestinesi in Cisgiordania, in quest’anno che è ancora lungi dal concludersi, sono già quasi trecento.

Numeri. Numeri che, se lasciati in una fredda statistica e non, invece, com’è doveroso, considerati corpi e menti e anime, non rendono conto di quello che è diventata la Cisgiordania, nel 2023 e almeno nei tre anni precedenti. Questo è un altro dei buchi informativi della questione israelo-palestinese. Dimenticata, o meglio marginalizzata, perché tanto c’erano crisi aperte considerate più rilevanti di una questione troppo vecchia, troppo incancrenita, e che soprattutto si era pensato di risolvere e normalizzare in due modi.

Il primo: con una soluzione – quella scritta nera su bianco negli Accordi di Abramo elaborati dall’amministrazione Trump e mai smentiti dalla successiva amministrazione Biden – che scavalcasse i palestinesi, togliesse dal panorama della normalizzazione Gaza e Gerusalemme est, ed escludesse i palestinesi dal tavolo negoziale, dove invece erano stati invitati i supposti sponsor, alcuni paesi arabi, e neanche i più vicini a Israele/Palestina.

Il secondo strumento usato, che in questi giorni mostra tutta la sua fallacia e la sua insipienza, è stato il buco informativo, questo vuoto durato anni nella cronaca israelo-palestinese che ha gettato il mondo, o per meglio dire, decisori e opinioni pubbliche occidentali, direttamente dentro questa cesura, l’ottobre 2023. Senza capirne i processi, i ‘dettagli minori’, i fatti che hanno preceduto il 7 ottobre. Usando le parole di Antonio Guterres, tutto questo “non è successo in un vacuum”, in un nulla da cui, in un giorno terribile, emergono i miliziani di Hamas e Jihad islamico e tolgono la vita a 1.400 israeliani, in massima parte civili, e in buona parte pacifisti e progressisti, compiendo il più sanguinoso massacro nella storia di Israele.

Lo stesso errore compiuto su Gaza lo si sta compiendo sulla Cisgiordania, in una retorica che ondeggia tra il sostegno a ciò che rimane dell’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas (ormai disconnessa da anni dalla società palestinese e depotenziata) e la descrizione dei palestinesi tra il confine israeliano e la valle del Giordano come armati fino ai denti e fanatici. Nel mezzo, c’è la popolazione palestinese della Cisgiordania, quella che vive in un territorio sotto occupazione militare, in cui gli accordi del settembre 1993 (il processo di Oslo) e le risoluzioni del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sono stati tutti disattesi. In massima parte degli israeliani…

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Il conflitto in Palestina è anche lotta di classe – Giampaolo Conte

L’economia israeliana ha sempre beneficiato di una manodopera palestinese a basso costo, sfruttata e senza diritti, soprattutto nel settore agricolo ed edilizio. Dietro lo scontro politico militare in atto si può leggere anche il tentativo di garantirsi nel tempo il controllo e l’accesso alla forza lavoro di cui ha bisogno?

Leggere i conflitti sotto un paradigma di osservazione socio-economico è diventato ormai desueto con il tramontare del pensiero marxiano, così come leggere le conflittualità in corso sotto il paradigma della lotta di classe. Il potere economico, tuttavia, è determinante come quello politico e militare. Nell’analisi del conflitto israelo-palestinese, tuttavia, le questioni prettamente economiche sono largamente ignorate rispetto a quelle più scenografiche e brutali dell’azione politica e specialmente militare.

Tornando a Marx ed Engels, il conflitto tra le nazioni padronali e proletarie è un modo per intendere il conflitto di classe su scala transnazionale. Come ricorda Domenico Losurdo, la lotta di classe si struttura in più livelli, ovvero si definisce nell’interazione e nell’intersezione tra diversi piani di scontro e conflitto: uno interno, uno tra nazioni e uno di genere. Cercheremo di spiegare il conflitto in atto attraverso queste tre prospettive.

Incominciamo con il ricordare che lo Stato di Israele è un’economia avanzata, con un Pil pro-capite, stime del Fondo monetario internazionale, che si aggira intorno ai 41mila dollari (per intenderci, l’Italia si trova in una posizione più bassa, ovvero con un Pil pro-capite sopra i 35 mila). Israele è dunque uno Stato ricco. Da dove deriva questa ricchezza? Il Paese è all’avanguardia per ricerca e sviluppo nei settori delle nuove tecnologie e vanta un alto livello di produttività: quattro volte superiore la media dei Paesi Ocse. Tuttavia, le potenzialità dell’industria sono limitate dalla mancanza di materie prime, energia a basso costo, ristrettezza del mercato nazionale e disponibilità di manodopera, specialmente qualificata. Israele, tuttavia, può contare su un “esercito di riserva” di lavoratori consistente che si estende potenzialmente su tutta la popolazione attiva in Cisgiordania – principalmente – e potenzialmente anche a Gaza. Lasciamo parlare i numeri…

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Rivelato il piano per completare la Nakba – Gilbert Achcar

Un documento trapelato nei giorni scorsi ha confermato pienamente ciò che abbiamo detto fin dal 7 ottobre e cioè che la destra sionista coglierà l’opportunità dell’operazione “Diluvio di Al-Aqsa” per cercare di realizzare il suo vecchio sogno di espellere la maggior parte dei palestinesi dai territori occupati nel 1967, in modo da completare la Nakba del 1948 e realizzare il loro progetto del “Grande Israele”. Sabato scorso (28/10), il sito web dell’opposizione israeliana “Mecomit” (Local Call) ha pubblicato un importante documento diffuso dal Ministero dell’Intelligence sionista, guidato da Gila Gamliel, membro di spicco del partito Likud guidato da Benjamin Netanyahu. L’autenticità del documento è stata successivamente confermata lunedì (30/10) da alcuni media israeliani, tra cui Haaretz , ed è stato tradotto in inglese dal sito +972, critico nei confronti di Israele.

Il documento, datato 13 ottobre, è intitolato “Opzioni per una politica riguardante la popolazione civile di Gaza”. Le tre opzioni previste sono:

(a) i residenti di Gaza rimangono nella Striscia e sono governati dall’Autorità Palestinese;

(b) La popolazione di Gaza rimane nella Striscia e lì viene stabilita un’autorità araba locale;

(c) La popolazione civile viene evacuata da Gaza nel Sinai.

Il documento ritiene che le opzioni (a) e (b) soffrano di carenze significative, soprattutto perché nessuna delle due può fornire un sufficiente “effetto deterrente” a lungo termine. Per quanto riguarda l’opzione (c), il documento afferma che “produrrà risultati strategici positivi a lungo termine per Israele” ed è “realizzabile”. “Ciò richiede determinazione da parte dei livelli politici di fronte alle pressioni internazionali, con particolare attenzione allo sfruttamento del sostegno degli Stati Uniti e di altri paesi filo-israeliani per l’impresa”.

Il documento prosegue poi descrivendo dettagliatamente ciascuna delle tre opzioni. Ci limiteremo qui alla terza opzione favorita dal Ministero, ovvero l’opzione di espellere la popolazione civile da Gaza. Il documento descrive lo scenario come segue:

“1. A causa dei combattimenti contro Hamas è necessario evacuare la popolazione non combattente dalla zona delle battaglie;

  1. Israele dovrebbe agire per espellere la popolazione civile nel Sinai;
  2. Nella prima fase verranno create tendopoli nell’area del Sinai, la fase successiva prevede la creazione di una zona umanitaria per assistere la popolazione civile di Gaza e la costruzione di città in un’area reinsediata nel nord del Sinai;
  3. Dovrebbe essere creata una zona cuscinetto di diversi chilometri all’interno dell’Egitto e non dovrebbe essere consentito il ritorno della popolazione ad attività/residenze vicino al confine con Israele. Inoltre, dovrebbe essere stabilito un perimetro di sicurezza nel nostro territorio vicino al confine con l’Egitto”.

Il documento poi descrive dettagliatamente lo scenario del’espulsione, che inizia con la richiesta di evacuazione dei non combattenti dalla zona di combattimento e attacchi aerei mirati sul nord di Gaza per favorire un’invasione di terra. In una seconda fase, l’invasione inizierà da nord e lungo il confine fino all’occupazione dell’intera Striscia di Gaza e all’eliminazione dei tunnel di Hamas. Durante tutto questo tempo, “è importante lasciare aperte vie verso sud per consentire l’evacuazione della popolazione civile verso Rafah”. Il documento afferma che questa opzione salverebbe vite civili rispetto alle altre due opzioni e che rientra in un contesto globale di allontanamenti su larga scala come in Siria, Afghanistan e Ucraina. Ritiene che sia dovere dell’Egitto, secondo il diritto internazionale, aprire la strada al passaggio della popolazione civile e che il Cairo, in cambio della sua cooperazione, riceverà assistenza finanziaria per alleviare l’attuale crisi economica.

È interessante notare che il documento del Ministero dell’Intelligence sionista è stato diffuso nel momento in cui Israele ha iniziato a invitare i residenti del nord di Gaza a immigrare a sud del fiume Wadi Gaza il 13 ottobre, una conferma che questo appello era conforme all’opzione (C). Di fatto, tutto ciò che Israele ha fatto finora è del tutto coerente con il piano per il ripetersi della Nakba a Gaza, come descritto nel documento.

Il Financial Times ha pubblicato lunedì (30/10) un resoconto dei suoi corrispondenti nelle capitali europee secondo cui Netanyahu avrebbe cercato di persuadere i governi europei a fare pressione sul Cairo per convincere l’Egitto ad accogliere i profughi provenienti da Gaza. Parigi, Berlino e Londra hanno espresso la convinzione che questa richiesta non sia realistica, ma hanno comunque iniziato a fare pressione sul Cairo affinché aprisse le porte all’Egitto, adducendo considerazioni umanitarie. Dal resoconto emerge che in alcuni ambienti europei vi è la convinzione che l’entità degli sfollati verso il confine egiziano, in aumento con il progredire delle operazioni militari di terra, esacerberebbe la concentrazione di persone al confine a un punto tale che, in concomitanza con la pressione occidentale, potrebbe costringere l’Egitto a cambiare posizione. I pianificatori dell’espulsione devono anche certamente sperare che la folla di profughi al confine meridionale di Gaza riesca a irrompere nel territorio egiziano per sfuggire ai bombardamenti e all’avanzata militare di Israele, imponendosi così alle autorità egiziane che non saranno in grado di sparare sui civili di Gaza.

Nel frattempo, i coloni in Cisgiordania, da parte loro, hanno iniziato a cogliere l’opportunità del “Diluvio di Al-Aqsa” per aumentare la pressione sui palestinesi che vivono nell’Area “C” (che comprende la maggior parte delle terre della Cisgiordania – più del 60%) invitandoli a emigrare non nella zona controllata dall’“Autorità Palestinese” ma in Giordania!

Ciò indica chiaramente l’intenzione della destra sionista di portare a termine la Nakba anche in tutta la Cisgiordania, non appena se ne presenterà l’occasione.

Tradotto dall’originale arabo pubblicato su Al-Quds al-Arabi il 31 ottobre 2023. Sentitevi liberi di ripubblicare o pubblicare in altre lingue, citando la fonte.

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Le ragioni storiche del rastrellamento in corso a Gaza – Michelangelo Severgnini

Se un tempo c’era la storia degli aggressori e degli aggrediti, da quasi due giorni siamo passati al livello successivo.

Da una parte i rastrellatori e dall’altra i rastrellati.

Perché di questo stiamo parlando.

Se bombardare per 3 settimane di fila oltre due milioni di civili perché ritenuti ingiustamente colpevoli dell’operazione militare di Hamas è rappresaglia, andare a scovare militari casa per casa passando sopra i civili è rastrellamento.

Non so se queste parole vi risuonino. Non so se risuonino a chi sta gestendo questa azione militare per conto di Israele. Non so se risuonino a qualcuno nelle redazioni dei giornali italiani.

Ma anche i partigiani italiani si nascosero tra la popolazione civile e ebbero da questa tutta la copertura necessaria durante la seconda guerra mondiale in Italia.

Anche allora i generali nazi-fascisti decisero di spazzare via quelle comunità di civili che davano nascondiglio alle formazioni partigiane. Chiamammo quelle operazioni “rastrellamenti”.

I partigiani non erano terroristi, erano partigiani, dicevamo.

Almeno, così li abbiamo chiamati.

Cos’è che non quadra dunque in questa storia? Perché i termini sono ferocemente stati rimossi oggi?

Lo dico in modo solenne: chi ha condannato Hamas e chi pretende da qualcun altro che Hamas sia condannato, sta esponendo la popolazione di Gaza a ciò che sta succedendo.

Lo dico agli allegri giovinetti della sinistra che condannano Israele, ma anche Hamas.

Lo dico a chi per condannare Israele ha bisogno che sia condannato anche Hamas.

Lo dico a chi considera terrorismo Hamas e eccesso di legittima difesa Israele.

Hamas è un residuato bellico.

Hamas si impose nella striscia di Gaza nelle elezioni del 2006. Allora si era in pieno nella stagione della “guerra al terrore” di Bush. L’islamismo armato era il pericolo numero uno per l’agenda americana e Hamas era facilmente assimilabile a tutte le altre formazioni che in quegli anni furoreggiavano nel Medio Oriente, a cominciare da Al Qaeda e tutte le altre sigle impegnate nella resistenza irachena e altri fronti.

Quando Hamas vince le elezioni, viene pertanto immediatamente inserito nella lista delle formazioni terroristiche mondiali dall’amministrazione Bush con tutto il suo stuolo di servi e paggetti, e da Israele naturalmente. In questo modo si abbassava la saracinesca su ogni possibilità di dialogo. I Palestinesi tutti la presero malissimo: “dunque, prima ci chiedete di essere democratici, poi quando andiamo a votare non vi piace l’esito delle nostre scelte: ma che democrazia è questa?”.

Se da un lato dal 2006 i Palestinesi di Gaza non sono mai stati così soli sul piano internazionale, dall’altro da allora si sono compattati sempre di più sulla linea di Hamas, perché giusta o sbagliata questa era stata la loro scelta democratica e l’Occidente l’aveva respinta con sprezzo.

Una voce in Occidente e negli USA allora si levò contro questa sciagurata decisione: George Soros!…

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Lettera agli ebrei italiani – Franco Lattes Fortini

Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo e – nel medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele.

In uno spazio che è quello di una nostra regione, alle centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della forza-lavoro palestinese, settanta o centomila uomini – corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni israeliani che per tuttala loro vita, notte dopo giorno, con mogli, figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare. Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta complicità dei più. Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta a me ricordare.

Quell’assedio può vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte dell’opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande. Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.

Gli ebrei della Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità. Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello Stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana. L’uso che questa ha fatto della diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, il rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.

Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana e ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla. Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli. Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani? Coloro che ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa – credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno. Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida. Né mentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.

E se ora mi si chiedesse con quale diritto e in nome di quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi fanno da sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e storico, non in quel che con esso hanno ricevuto in destino. Mai come su questo punto – che rifiuta ogni «voce del sangue» e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e presente; sì che partire da questi siano giudicati – credo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o da quel che pare esserne manifestazione corrente.

In modo affatto diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a una estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene. Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati Uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli Americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà.

Non rammento quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse e lo Stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo Libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi. È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e alla vita di un verso di Dante o al senso di una cadenza di Brahms?

La distinzione fra ebraismo e Stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri. Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.

Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti.

Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere. Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria. Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo «che danna un popolo intero intorno ad un patibolo»: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.

La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani. E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io.

Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi. Parlino, dunque.

L’articolo, pubblicato su il manifesto del 24 maggio 1989, è stato riproposto dal quotidiano il 4 novembre scorso con il commento: «I problemi e le domande che pone restano ancora oggi aperti e immutati. Semmai “solo” aggravati»

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” Cara Ursula von der Leyen, siamo a 4000 bambini palestinesi massacrati” – Alessandro Orsini

Cara Ursula von der Leyen,

siamo a 4000 bambini palestinesi massacrati.

Gaza non ha bisogno degli aiuti umanitari dell’Unione europea. Ha bisogno che qualcuno ponga fine ai bombardamenti del terrorista di Stato Netanyahu, tuo stretto alleato. Tu dovresti colpire Netanyahu con le sanzioni e invocare un mandato di cattura della Corte penale internazionale contro di lui per crimini contro l’umanità. Siccome sei un’ipocrita, copri il tuo appoggio politico e diplomatico al criminale di guerra Netanyahu con gli aiuti umanitari. I media dominanti in Italia, essendo stracorrotti, ti danno una mano a manipolare l’opinione pubblica.

I bambini palestinesi vengono massacrati tutti i giorni con il contributo determinante della Commissione europea che fornisce ogni tipo di appoggio a Netanyahu che spara abitualmente nella testa dei bambini palestinesi, com’è accaduto il 5 giugno 2023 a Mohammed Haitham al-Tamimi. Ursula von der Leyen è alleata del ministro della sicurezza nazionale d’Israele, un razzista ammmiratore dell’orrendo terrorista Baruch Goldstein, il massacratore della moschea di Hebron (1994).

1) articolo sull’assassinio di Mohammed Haitham al-Tamimi, due anni, ucciso dai soldati israeliani con un proiettile in testa, il 5 giugno 2023 nei territori occupati

https://www.middleeastmonitor.com/20230606-mother-of…/

2) Video del funerale di Mohammed Haitham al-Tamimi

https://www.youtube.com/watch?v=6rN0413SQ1E

3) Articolo sulle donne palestinesi umiliate e denudate davanti ai loro figli dai soldati di Netanyahu

https://www.arabnews.com/node/2368696/middle-east

Trovate qui sotto un video in italiano e uno in inglese sul ministro razzista d’Israele Ben Gvir del governo Netanyahu

Italiano: https://www.youtube.com/watch?v=1wMIYJIBAVc

Inglese: https://www.youtube.com/watch?v=OplM9oNmTfQ

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L’orrore dell’antisemitismo e la strumentalizzazione della Shoà – Moni Ovadia

L’antisemitismo è stata – ed è – la pseudo ideologia più criminale, più feroce e più esiziale che sia comparsa nella storia dell’umanità. Il suo vertice si è espresso con il più atroce sterminio sistematico di esseri umani progettato e programmato con tecnica industriale che abbia avuto luogo sotto il cielo del pianeta terra. Questa apocalisse era iscritta nel presupposto micidiale dell’antisemitismo già dai tempi del paganesimo idolatrico. Esso sosteneva che l’ebreo è malvagio, pernicioso, distruttore e deve essere annientato per il solo fatto di esistere, per il fatto stesso di essere nato. Gli si attribuiscono azioni e progetti raccapriccianti non per qualche depravata ragione che è caratteristica degli altri criminosi razzismi, ma per la sola ragione di vivere. Il solo apparentamento possibile con l’antisemitismo, è la misoginia, l’odio per le donne, calunniate, sfregiate, segregate, massacrate, torturate che si manifesta contro di esse solo per il fatto di essere donne.

Ogni essere umano che abbia coscienza del senso di appartenenza all’umanità, non può non avere ripulsa dell’antisemitismo perché, qualora esso trionfasse, ne conseguirebbe progressivamente la distruzione della nostra specie intera perché esso concepisce che si possano cancellare dalla terra esseri umani in quanto tali. Noi, su questa terra, all’origine siamo tutti sapiens sapiens africanus con qualche elemento di Neanderthal. L’ebreo non si definisce per etnia o per appartenenza ad una terra come altre genti o, come qualcuno si ostina a dire, per “razza”. Per la legge ebraica, ebreo è colui che nasce da madre ebrea, il padre non conta, può essere di qualsiasi etnia e può, paradossalmente, essere persino nazista. Nell’ebraismo non si concepisce lo stupro etnico, un figlio di madre ebrea, è comunque ebreo. Inoltre, all’ebraismo ci si può convertire: alcuni convertiti, o figli di convertiti, si sono rivelati fra i più grandi Maestri del pensiero ebraico di tutti i tempi.

L’antisemitismo si presenta talora in forme criptiche o semi criptiche. Il mondo dei movimenti operai e rivoluzionari, per esempio, conobbe il diffondersi di pulsioni antisemite. Il grande leader socialdemocratico tedesco August Bebel definì il fenomeno dell’antisemitismo, il “socialismo degli imbecilli”. L’espressione fu ripresa da Lenin il cui nonno, da parte di madre, era un ebreo svedese di nome Blank. Nel 1914 il grande rivoluzionario bolscevico pronunciò un vibrante discorso contro l’antisemitismo di cui si può ascoltare il documento sonoro.

Una delle forme più frequenti di antisemitismo semi-criptico è, a mio parere, quello degli antisemiti che si attaccano ad ogni argomento che riguardi ebrei, questioni ebraiche, ebrei potenti per inoculare il virus. All’interno di questa fattispecie di antisemiti vi sono coloro che rovesciano il loro odio sullo Stato di Israele in quanto popolato da ebrei.

Per contro, negli ultimi decenni è stato creato, proprio in Israele e fra i sionisti, sia della Terra Santa sia della diaspora, un nuovo tipo di antisemitismo che si definisce per parametri altri rispetto a quelli dell’antisemitismo autentico che ho tentato di descrivere qui sopra. Rientrano in questa categorizzazione dell’antisemitismo, anche se ebrei loro stessi, tutti coloro che disapprovano, criticano, denunciano o si oppongono alla politica dei governi israeliani, che contrastano le leggi liberticide che i governi israeliani promulgano, il sistema di apartheid che impongono al popolo palestinese, la colonizzazione violenta delle terre, la distruzione delle loro case, il furto della loro acqua, il sistema di lager in cui hanno trasformato Gaza e le centinaia di migliaia di arresti amministrativi senza processo. Questi “antisemiti” credono nell’uguaglianza di tutti gli esseri umani senza distinzioni.

Chi criminalizza con l’accusa di antisemitismo questi attivisti, che sia ebreo, non ebreo o figlio di sopravvissuti, è un vile che sputa sulle ceneri della nostra gente sterminata nei lager, sul dolore di coloro che furono fucilati e sepolti nelle fosse comuni e di tutti gli ebrei torturati e annientati. L’uso strumentale della Shoà per fare propaganda menzognera, è osceno, ignobile, vergognoso. Se difendere la vita, la dignità e i diritti dei palestinesi come persone e come popolo è antisemitismo… allora io, ebreo da molte generazioni, sono orgogliosamente “antisemita”!

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Francesco Erspamer – “Chi si straccia le vesti per la Palestina oggi dove era negli scorsi decenni?”

Viviamo nella società dell’immagine, una società che ha sostituito non solo Dio e la metafisica ma anche il linguaggio e la scrittura con simulacri visivi, idoli (dal greco êidos “figura”). Non c’è dunque da stupirsi che la gente viva incollata a uno schermo, piccolo o grande, a casa e quando è fuori, e che non sia più in grado di distinguere, o peggio, che non sia più interessata a distinguere fra realtà e virtualità.

La caratteristica delle immagini è che di per sé non hanno tempo: sono istantanee, a differenza di un racconto, di un discorso, di una conversazione. Certo, si può indugiare su di esse: per secoli l’arte è stata un addestramento a un’attenzione protratta oltre il mero riconoscimento, dunque alla riflessione, all’analisi; ma non è il modo in cui le immagini vengono utilizzate dalle nuove tecnologie. Le nuove tecnologie inducono e pretendono impazienza, superficialità, velocità. Altrettanto rapide sono le reazioni: le emozioni esplodono e si consumano (come tutto: è anche e principalmente la società dei consumi) senza lasciare tracce, per essere sostituite da emozioni più nuove. Anche l’empatia è a obsolescenza programmata.

Per questo i tanti che oggi si stracciano le vesti per la Palestina non mi convincono. Dove erano negli scorsi decenni? Cos’hanno fatto allora? Sono scosso anch’io dal sistematico massacro e distruzione che sta avvenendo a Gaza ma ancora di più dal fatto che provoca solo orrore, non interventi politici. L’orrore, come il terrore, passa e viene presto dimenticato; i media questo vogliono, che tutto si riduca a terrore e orrore, senza generare progetti di soluzione. (In America neppure una settimana dopo, la strage in Maine è stata cancellata e tutto continua come prima, vendita di armi automatiche a psicopatici inclusa).

Qualcosa di potrebbe invece fare. Anche noi italiani, alla periferia dell’impero. Impegniamoci per l’uscita dell’Italia dalla NATO e per la chiusura delle basi americane. Avrebbe dovuto accadere decenni fa (il Trattato di Roma, del 1949, prevedeva che dopo vent’anni i firmatari avrebbero potuto porre fine all’impegno senza conseguenze).

Cos’è la NATO? Un’organizzazione che protegge gli interessi del paese dominante, gli Stati Uniti, ma soprattutto che esporta il loro modello di società. Ricordate che in America lo Stato non è l’intera nazione ma ciascuno dei 50 membri della federazione; quando noi diciamo «Stato» loro dicono «government»: lo Stato non esiste. Infatti gli americani non sono né nazionalisti né patriottici (patria deriva da «patres» e se c’è una cosa che non gli interessa sono le radici, i genitori, gli antenati). Gli Stati Uniti sono un’associazione a fini di lucro: chi ne fa parte vuole guadagnarci. Se volete, una specie di massoneria democratica. Nessun valore condiviso eccetto il «diritto» alla libertà individuale di essere quello che si vuole, senza vincoli sociali, e di far soldi, privatamente, senza obblighi nei confronti della comunità. Così la NATO. Difende quel modello, certo non la cultura e tradizioni italiane, tedesche, spagnole, polacche, turche. Ovvio che il liberista Zelensky voglia entrare a farne parte.

In Medio Oriente gli Stati Uniti fanno i loro interessi; che non sono quelli dei palestinesi ma neppure necessariamente quelli degli israeliani; piuttosto proprio di Netanyahu. Sono i nostri? Incrinare anche solo un poco il loro senso di onnipotenza renderebbe l’America molto migliore, un po’ più simile a quella che è stata nel periodo successivo alla sconfitta in Vietnam: l’unico in cui, purtroppo per poco, l’ossessione di sentirsi eccezionali e superiori a chiunque altro aveva lasciato spazio ad altre priorità e rivelato altre qualità.

Impossibile uscire dalla NATO? Forse, ma se non riusciamo a cambiare nulla a casa nostra, non pensate che l’ansia di cambiare le cose altrove sia velleitaria, una scusa per salvarsi l’anima senza rischiare niente?

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Patrick Lawrence – Ancora più in profondità nella depravazione

Diego Ramos, caporedattore di ScheerPost, la settimana scorsa mi ha inoltrato un videoclip che pensava avrei dovuto vedere. Inviandolo con l’oggetto “Tendenza inquietante in Israele”, il mio collega deve aver pensato che non sono stato sufficientemente scioccato dagli eventi in Israele e a Gaza da quando Hamas ha lanciato un assalto nel sud di Israele il 7 ottobre e le forze di difesa israeliane hanno iniziato un attacco risposta volutamente sproporzionata all’incursione – volutamente sproporzionata come questione di politica ufficiale da quando David Ben-Gurion la mise in atto durante il suo premierato negli anni ’50.

Il video che ha inoltrato supera tutto finora provocando un disgusto profondo come non ho mai provato. Presenta una serie di scene in cui gli israeliani si riprendono mentre sadicamente ridicolizzano i palestinesi nel modo più vigliaccamente crudele. Imitano i bambini palestinesi che muoiono o muoiono di fame. Applicano un trucco razzialmente offensivo. Ridono e ballano mentre accendono e spengono le luci e mentre bevono ostentatamente l’acqua dai rubinetti, quest’ultima per deridere gli abitanti di Gaza mentre Israele li priva di elettricità, acqua potabile, cibo e molto altro.

E sto descrivendo i bambini in questi video, di età compresa tra, forse, sei o sette anni fino all’adolescenza o ai vent’anni. Le madri stanno dietro di loro, sorridendo con approvazione e gioia…

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scrive Bertrand Russell:

Lo sviluppo della crisi in Medio Oriente è pericoloso e istruttivo. Per oltre 20 anni Israele si è espanso con la forza delle armi. Dopo ogni fase di questa espansione Israele ha fatto appello alla “ragione” e ha suggerito “negoziati”. Questo è il metodo tradizionale del potere imperiale, perché vuole consolidare con la minima difficoltà ciò che ha già preso con la violenza. Ogni nuova conquista diventa la nuova base della negoziazione proposta dalla forza, che ignora l’ingiustizia della precedente aggressione.

Le aggressioni commesse da Israele deve essere condannate, non solo perché nessuno Stato ha il diritto di annettere territori stranieri, ma perché ogni espansione è un esperimento per scoprire quanta ulteriore aggressione il mondo tollererà. I rifugiati che circondano la Palestina, a centinaia di migliaia, sono stati recentemente descritti dal giornalista di Washington IF Stone come “la macina morale attorno al collo dell’ebraismo mondiale”. Molti rifugiati sono ormai entrati nel terzo decennio della loro precaria esistenza in insediamenti temporanei. La tragedia del popolo palestinese è che il proprio  Paese è stato “donato” da una potenza straniera ad un altro popolo per la creazione di un nuovo Stato. Il risultato fu che molte centinaia di migliaia di persone innocenti sono rimaste  permanentemente senza casa.

Ad ogni nuovo conflitto il loro numero è aumentato. Per quanto tempo ancora il mondo è disposto a sopportare questo spettacolo di sfrenata crudeltà? È assolutamente chiaro che i rifugiati hanno tutto il diritto alla patria da cui sono stati cacciati, e la negazione di questo diritto è al centro del conflitto in corso. Nessun popolo al mondo accetterebbe di essere espulso in massa dal proprio Paese; come si può chiedere al popolo palestinese di accettare una punizione che nessun altro tollererebbe? Un insediamento giusto e permanente dei rifugiati nella loro patria è un ingrediente essenziale di qualsiasi vera soluzione in Medio Oriente.

Ci viene spesso detto che dobbiamo simpatizzare con Israele a causa delle sofferenze degli ebrei in Europa per mano dei nazisti. Non vedo in questo suggerimento alcun motivo per perpetuare alcuna sofferenza. Ciò che Israele sta facendo oggi non può essere perdonato, e invocare gli orrori del passato per giustificare quelli del presente è una grossolana ipocrisia. Non solo Israele condanna alla miseria un vasto numero di rifugiati, ma Israele condanna anche le nazioni arabe che solo di recente sono emerse dallo status coloniale, al continuo impoverimento poiché le richieste militari hanno la precedenza sullo sviluppo nazionale.

Tutti coloro che vogliono vedere la fine degli spargimenti di sangue in Medio Oriente devono garantire che qualsiasi accordo non contenga i germi di un futuro conflitto. La giustizia richiede che il primo passo verso una soluzione sia il ritiro israeliano da tutti i territori occupati nel giugno 1967. È necessaria una nuova campagna mondiale per contribuire a portare giustizia alle popolazioni del Medio Oriente che da troppo tempo soffrono”.

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Andrea Zhok – Jabalya e scuola dell’UNRWA: oggi è il tempo della vergogna

Non abbiamo fatto in tempo a prendere coscienza del massacro del quartiere di Jabalya che Israele ha bombardato una colonna di ambulanze che trasportavano feriti verso l’Egitto e la scuola dell’UNRWA (ONU) nel Nord di Gaza, zeppa di rifugiati che avevano perso la casa nei precedenti bombardamenti.

Le immagini, soprattutto quelle dalla scuola, sono al di là dell’umanamente commentabile.

Tra venti o trent’anni leggeremo nei libri di storia del massacro del ghetto di Gaza come oggi leggiamo del massacro del ghetto di Varsavia.

E di come le classi dirigenti dell’Occidente siano state mute e conniventi, quando non hanno applaudito i macellai.

Oggi è solo il tempo della vergogna, come domani sarà quello della memoria.

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LA NAKBA 2.0 FA RIVIVERE LE GUERRE NEOCON – Pepe Escobar

La guerra tra Israele e i bambini arabi, che fa parte della guerra tra l’Egemone e l’Asse della Resistenza, entrambe sottosezioni della guerra tra NATO e Russia e tra NATO e Cina, sta andando completamente fuori controllo.

Ormai è assodato che, con la Cina che media la pace in tutta l’Asia occidentale e Russia-Cina che si impegnano a fondo per i BRICS 11, con tanto di facilitazione degli accordi commerciali sull’energia al di fuori del dollaro statunitense, la risposta dell’Impero sarebbe stata del tutto prevedibile:

Diamo fuoco all’Asia occidentale

L’obiettivo immediato degli psicopatici neocon straussiani e dei loro collaboratori nella Beltway è quello di colpire la Siria, il Libano e, infine, l’Iran.

Questo spiega la presenza nel Mediterraneo centrale e orientale di una flotta di almeno 73 navi da guerra USA/NATO – due gruppi di portaerei americane [con relativo naviglio di scorta] e oltre 30 navi di 14 membri della NATO coinvolte nell’esercitazione Dynamic Mariner in corso al largo delle coste italiane.

Si tratta della più grande concentrazione di navi da guerra USA/NATO dagli anni Settanta.

Chiunque creda che questa flotta sia stata assemblata per “assistere” Israele nel suo progetto di Soluzione Finale per imporre una Nakba 2.0 a Gaza dovrebbe leggersi un po’ di Lewis Carroll. La guerra ombra già in atto mira a distruggere tutti i nodi dell’Asse della Resistenza in Siria, Libano e Iraq – con l’Iran mantenuto come pezzo culminante della resistenza.

Qualsiasi analista militare con un quoziente intellettivo superiore alla temperatura ambiente sa che tutte quelle costose vasche da bagno americane sono destinate a diventare delle barriere coralline sub-oceaniche, soprattutto se visitate da missili ipersonici.

Naturalmente, tutto questo potrebbe essere solo il solito spettacolo americano di proiezione di potenza/deterrenza. Gli attori principali – Iran e Russia – non sono affatto impressionati. Basta guardare indietro nel tempo, a ciò che un gruppo di pastori di capre di montagna armati di kalashnikov taroccati aveva fatto alla NATO in Afghanistan.

Inoltre, l’egemone dovrebbe fare affidamento su una seria rete di basi a terra, se mai prendesse in considerazione l’idea di lanciare una guerra contro l’Iran. Nessun attore dell’Asia occidentale permetterebbe agli Stati Uniti di utilizzare basi in Qatar, Kuwait, Iraq o persino in Giordania. Baghdad è già impegnata, da tempo, a sbarazzarsi di tutte le basi americane.

Dov’è la mia nuova Pearl Harbor?

Il piano B è quello di allestire un’altra Pearl Harbor (l’ultima è stata solo poche settimane fa, secondo Tel Aviv). Dopotutto, l’organizzazione di una tale sfarzosa esibizione di diplomazia delle cannoniere in un mare interno si traduce un’appetitosa sfilata di facili bersagli…

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La matematica del genocidio – Sarah Babiker

È ottobre del 2023 e tu hai otto anni, Nur, sei chinata sul libro di matematica e un esercizio ti invita a sommare prima i cani e poi i gatti, a confrontare i risultati, a eseguire delle sottrazioni. Io penso intanto ad altri calcoli, quelli pubblicati da poco da Save the Children: in tre settimane di bombardamenti senza tregua, a Gaza sono stati assassinati più bambine e bambini di quelli che muoiono ogni anno in tutte le guerre del mondo. È ottobre del 2023 ed è difficile non morire un po’ ogni giorno di vergogna e di rabbia mentre continua il racconto della barbarie.

Lo ha detto il comico egiziano Bassem Youssef, in un video diventato virale nei primi giorni dello sterminio, sottolineando il dolore con il sarcasmo: quale sarà il tasso di cambio, quanti palestinesi dovranno essere uccisi per ogni israeliano morto, questa volta? Qual è la risposta proporzionata per un governo che descrive un intero popolo come animali non umani, come figli delle tenebre? Ce lo continuiamo a chiedere. Quale tristezza immaginare bambine come te, Nur, sotto le bombe e madri come me che piangono le loro figlie. E che indignazione mi comporta il provare a togliere le bambine e i bambini, a sottrarre le donne al numero totale dei morti, che già supera le 8mila persone, come se la morte dei giovani o degli uomini fosse meno tragica, fosse un prezzo più legittimo da pagare per le vittime israeliane: Nur già lo sai, lo sanno tutti, che sabato 7 ottobre Hamas ha ucciso, secondo le fonti israeliane, 1.400 persone.

Come nei paesi con un’inflazione vertiginosa, la svalutazione sta avanzando così rapidamente che non ha senso fare i conti. Solo che ciò che vediamo svalutarsi nel mercato internazionale dell’empatia non è nessuna valuta nazionale, è la vita umana. Sono le vite del popolo palestinese. Il livello più basso di empatia lo vediamo manifestarsi in altri video, meno virali di quello dell’intervista a Bassem Youssef. Sono quelli di decine di israeliani che si fanno beffe dello sterminio, nelle loro belle case, sovvenzionate spesso dalla stessa politica di colonizzazione che espelle i palestinesi dal loro territorio, che demolisce le case ed espropria i loro campi. Sono civili simpatici che si dipingono i denti di nero e si sporcano la faccia per rappresentare coloro che sono condannati alla povertà dallo stesso governo che ora li bombarda negli ospedali, nelle case e nelle strade. Giovani e famiglie che si prendono gioco della sofferenza degli abitanti di Gaza sottoposti alla punizione collettiva. La propaganda, Nur, è schizofrenica: mentre avalla la morte altrui, diffonde termini come Pallywood con cui insinua che le immagini dei palestinesi feriti o morti siano una montatura.

Non è necessario essere uno degli eserciti meglio equipaggiati al mondo per uccidere migliaia di persone. È facile farlo quando le hai ammassate e rinchiuse in un territorio striminzito. È facile se le lasci senza luce, cibo, acqua potabile e possibilità di comunicare. È facile quando i paesi più potenti del mondo si schierano senza condizioni dalla tua parte. È troppo facile uccidere, quando hai abituato i tuoi cittadini, per quasi un secolo, all’idea che il diritto all’autodifesa giustifica l’espulsione di milioni di persone dalle loro terre e la violenza quotidiana. Ed è ancora più facile quando puoi criminalizzare ogni voce dissidente, quando puoi trattare come traditori i tuoi cittadini che chiedono la fine dello sterminio, quando puoi bollare come antisemita chiunque denunci le politiche coloniali, il regime di apartheid e di morte su cui si fonda il tuo Stato.

Le vite israeliane valgono così tanto di più nell’immaginario coloniale che il mondo grida per gli oltre 200 prigionieri presi prigionieri da Hamas nella sua offensiva mentre migliaia di bambini, giovani e nonne palestinesi vivono detenuti illegalmente nelle carceri israeliane senza che Israele debba giustificarsi. Perché Israele non deve mai giustificarsi, e nemmeno rendere conto della morte dei propri cittadini: 1.400 in un solo giorno. Ci è stato detto che sono stati selvaggiamente assassinati dai barbari. Ma ci hanno parlato anche di bambini decapitati e di stupri di massa, cosa che nessuno ha poi dimostrato. Come se uccidere non fosse abbastanza barbaro di per sé – dal momento che il paese occupante uccide già ogni giorno –, la propaganda sionista aveva bisogno di stabilire una differenza nel modo in cui i civili vengono assassinati. C’è chi uccide in modo civile e per legittima difesa: con i bombardamenti aerei e l’assedio e c’è chi uccide come fanno gli animali non umani, gli uccelli dell’apocalisse che arrivano in parapendio, che irrompono da sottoterra. Barbari discreti, capaci di preparare per anni un simile attacco, senza destare l’allarme dei servizi segreti più avanzati della terra…

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Il conflitto israelo-palestinese e la televisione italiana – Alessandro Orsini

Il problema del conflitto israelo-palestinese per la televisione italiana è il problema di trovare una giustificazione morale all’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Oggi la giustificazione è l’attacco di Hamas del 7 ottobre; ieri era qualcos’altro. Il finale è che Israele non restitusice mai le terre ai palestinesi che occupa illegalmente.

Con o senza l’attacco di Hamas, Israele non restituirà le terre ai palestinesi perché non vuole restituirle.

Se Gaza fosse governata da un movimento francescano, Israele terrebbe le terre dei palestinesi per sé dicendo che la chiesa cattolica ha perseguitato gli ebrei nei secoli passati e questo pone una minaccia alla sicurezza d’Israele perché la chiesa cattolica potrebbe riprendere le persecuzioni.

Se Gaza fosse governata da un gruppo di ebrei, Israele terrebbe le terre dei palestinesi per sé dicendo che esistono ebrei che odiano gli ebrei, come sostengono i coloni ebrei. Pertanto, Gaza potrebbe sempre sferrare un attacco per distruggere Israele, sebbene sia governata dagli ebrei. D’altra parte, gli ebrei si sono già ammazzati tra di loro ai tempi dello scontro tra gli ebrei dell’Irgun e quelli di Haganah. Non potrebbe accadere di nuovo?

Ecco, la televisione italiana serve a questo, a creare consenso intorno all’occupazione delle terre dei palestinesi. Ogni tanto qualche voce critica si leva per indurre alla ragione, ma viene presto criminalizzata. I media italiani sono corrotti? Certo, sono corrotti fino al collo. I palestinesi riavranno le loro terre? Israele cesserà di sparare in testa ai bambini palestinesi, come ha fatto il 5 giugno 2023 con il bimbo di due anni Mohammed Haitham al-Tamimi? No, non smetterà.

A noi professori delle università italiane viene chiesto di usare la cultura per giustificare i proiettili d’Israele nella testa dei bambini palestinesi. E ci sono enormi ricompense per i professori universitari che trovano una giustificazione morale ai fori d’entrata in quei piccoli crani.

Si può dire che fa profondamente schifo? Si parla tanto di valori. Ecco i miei valori: la cultura come strumento di liberazione da ogni forma di oppressione.

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Il conflitto in Medio Oriente: la variabile “impazzita” del gas – Giuseppe Masala

Certamente sarebbe sbagliato dire che il conflitto mediorientale, che trae origine dalla questione palestinese e dalla fondazione dello stato di Israele, possa essere ascrivibile a una questione meramente economica, come è appunto la guerra energetica in corso e che ha la finalità di cambiare (a vantaggio di chi l’ha fatta esplodere) la gravità della competitività mondiale; ogni riferimento agli USA che vogliono, tra l’altro, far fuori la concorrenza europea sui mercati mondiali affamandola di energia, non è certamente casuale.

Possiamo fare questo ragionamento sull’energia sulla scorta del fatto che le guerre contemporanee – soprattutto se coinvolgono le potenze nucleari – non hanno mai l’obbiettivo di distruggere e annichilire l’avversario fino alla completa capitolazione, ma piuttosto quello di raggiungere una gradazione di obbiettivi o direttamente durante la fase armata del conflitto, o immediatamente dopo, attraverso le comunque inevitabili trattative di pace.

Innanzitutto diciamo che dal punto di vista energetico vi è un immediato collegamento tra la “guerra dei tubi” che in qualche modo è in corso da anni nel Quadrante caucasico [Si veda il mio articolo precedente (1)] e quella che rischia di deflagrare nel Quadrante Mediorientale: l’80% del fabbisogno petrolifero di Israele viene soddisfatto attingendo dai pozzi dal Caucaso, e più precisamente quelli dell’Azerbaijan e poi viene trasportato attraverso un corridoio energetico che parte dall’Azerbaijan, continua attraverso la Georgia, sbocca in Turchia e da qui dal porto di Ceyhan viene stivato su petroliere che fanno rotta verso i porti di Israele…

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Il problema dell’antisemitismo odierno – Andrea Zhok

In questi giorni si ritorna a parlare intensivamente di “antisemitismo” in occasione di alcune manifestazioni simboliche (danneggiamento di pietre memoriali, stelle di David dipinte sui muri, ecc.) che rammentano oscuri precedenti storici.

Ora, che l’antisemitismo sia una bruttura umana, nel migliore di casi una scemenza, nel peggiore un crimine, è certo al di là di ogni possibile dubbio. L’antisemitismo è una variante del razzismo, ed è condannabile per le stesse ragioni per cui ogni razzismo va condannato: in quanto visione che generalizza un giudizio morale negativo estendendolo ad ogni membro di un gruppo etnico-razziale, in quanto tale. I giudizi morali sono, e possono essere legittimamente, solo giudizi su atti e persone determinate. Nel momento in cui si formulano giudizi morali negativi su gruppi si estende una (presunta o reale) imputazione negativa a tutti gli appartenenti del gruppo, risparmiandosi la fatica di valutare se ciò sia applicabile ai singoli che ne fanno parte.

Se ora ci chiediamo quali siano le ragioni degli apparenti rigurgiti antisemiti contemporanei, la prima cosa che dobbiamo notare è come oggi manchino le motivazioni che nei periodi più oscuri dell’antisemitismo novecentesco formavano il nerbo di quei pregiudizi. Il nazismo si nutriva di una concezione biologico-razziale che gli permetteva di fare il salto dalle colpe dell’individuo a quelle del gruppo con facilità: l’idea era che il “male” fosse nelle “disposizioni naturali della razza”. Oggi però questa visione è sostanzialmente estinta e non credo che dal secondo dopoguerra sia stata più rivendicata da nessuno (casi psichiatrici a parte).

Questo vuol dire che quando oggi parliamo di “antisemitismo” dobbiamo considerare che non può essere proprio la stessa cosa di quello che per noi è l’immagine archetipa dell’antisemitismo, ovvero la vicenda della persecuzione ebraica in Europa tra il 1935 e il 1945.

Se vogliamo parlare oggi di antisemitismo, dobbiamo parlare di un antisemitismo etnico-politico piuttosto che etnico-razziale, in cui la vicenda storica dello Stato di Israele gioca un ruolo molto significativo, se non totalizzante. E tuttavia, sembra chiaro che qui è in funzione una volta di più quel pernicioso paradigma di generalizzazione, per cui un individuo viene giudicato in modo moralmente negativo semplicemente perché appartenente ad un gruppo. Così, un ebreo che non c’entra nulla con lo stato di Israele può trovarsi coinvolto in un giudizio sprezzante per estensione a partire da un giudizio nei confronti delle politiche di Israele.

Quando ciò accade ci troviamo di fronte ad una reale istanza di antisemitismo.

La domanda ora però diventa: chi è che fomenta questa identificazione forfettaria di Israele, e specificamente delle scelte della sua classe politica, con l’ebraismo in generale?

E la risposta qui è credo abbastanza chiara.

Il primo colpevole di questa identificazione forfettaria e acritica tra ebraismo e stato di Israele è lo stato di Israele.

Lo si può notare in una molteplicità di esempi.

In primo luogo, è la classe politica israeliana che ha continuato, costantemente, dal 1948 ad oggi a tacciare ogni critica internazionale alla propria politica come “antisemitismo”. Essendo Israele in perenne infrazione rispetto a innumerevoli risoluzioni internazionali, specificamente circa il proprio trattamento delle popolazioni autoctone (palestinesi), la risposta reiterata ed infallibile di fronte ai molti che hanno difeso la causa palestinese negli ultimi 80 anni è stata di accusarli di “antisemitismo”. Se disapprovi la Nakba vuol dire che plaudi alla Shoah. Semplice semplice.

L’accusa di antisemitismo non è un’accusa qualsiasi nel mondo occidentale, nato sulle macerie della seconda guerra mondiale: si tratta di un’accusa che pone in continuità con il nazismo e dunque con ciò che è considerato il “male assoluto”. È un’accusa che corrisponde in molti paesi ad un’imputazione di reato. È un’accusa che delegittima l’interlocutore in modo totale, che gli dichiara guerra (non puoi mica discutere con chi, per definizione, vuole solo il tuo sterminio, no?).

Questo riflesso condizionato si associa ad un’altra carta, simmetrica e pericolosissima, ovvero al “vittimismo storico”. Questa carta l’abbiamo vista giocare questi giorni nel modo più palese quando, negli stessi giorni in cui l’esercito israeliano uccideva tra i 300 e i 400 civili al giorno, i suoi rappresentanti all’ONU pensavano bene di presentarsi con la stella gialla di David appuntata sulla giacca. Come ha detto il presidente dello Yad Vashem (istituzione custode della memoria dell’Olocausto) questo gesto “disonora le vittime dell’Olocausto”…

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Varco San Benigno. I portuali di Genova si preparano a bloccare le armi in transito verso Israele – Agata Iacono

Come succede da qualche anno, i lavoratori portuali in Italia riescono a coniugare la lotta per i diritti, contro ogni discriminazione e sfruttamento, con le iniziative concrete a fianco dei popoli oppressi. Hanno costruito una rete tra tutti i portuali e da anni, nel totale silenzio dei media, boicottano il trasporto di armi che partono o passano dai porti italiani. “Nel 2021 assieme ai Portuali di Livorno e Napoli abbiamo boicottato un carico di missili italiani diretti a Israele da usare contro la popolazione di Gaza. Ieri i sindacati Palestinesi hanno lanciato un appello per tentare di bloccare la macchina bellica israeliana. Noi ci siamo sempre distinti per quanto riguardo la solidarietà internazionale a favore di quei popoli che alzano la testa contro gli oppressori. Siamo lavoratori che non si arrendono e che stanno a fianco di tutti i popoli in lotta.” Così scrive il Calp (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali), in un suo comunicato. Più volte si sono rifiutati di essere complici del genocidio in Yemen, individuando e denunciando le navi saudite che trasportavano gli strumenti di morte.

Una rete consolidata, quella del Calp, in tutti i porti italiani, che, meglio e più efficacemente di tanti bei discorsi, di tanti tentativi di analisi spesso demagogiche e dietrologiche, sintetizza con estrema chiarezza il filo rosso che unisce indissolubilmente la coscienza di classe, universale, alla lotta alle guerre e all’oppressione.

E mentre il governo italiano, prima la miscellanea Draghi, quindi il passaggio di testimone a Meloni, senza alcuna opposizione di rilievo, decideva l’invio di armi all’Ucraina e l’incremento delle spese militari, i portuali organizzavano scioperi contro la cobelligeranza dell’Italia.
Il 25 febbraio, alla manifestazione organizzata dal Calp di Genova, si univa anche la mobilitazione nazionale già indetta da USB Mare e Porti con sciopero di 24 ore in tutta Italia per la sicurezza sul lavoro, affinché i soldi destinati all’escalation bellica vengano destinati a tutelare la salute dei lavoratori, e perché venga stroncato il passaggio di armi nei porti italiani. E proprio il Comune di Genova, unica istituzione in tutta Italia, ha approvato una condanna del genocidio a Gaza, grazie al consigliere di “Uniti per la Costituzione” ed ex senatore Mattia Crucioli, che ha esibito in aula la bandiera palestinese.

Il collettivo dei portuali era presente anche alla manifestazione nazionale antimilitarista di Roma del 4 novembre, per denunciare la complicità dell’ Italia nello sterminio di tantissimi civili in Palestina e indicare una modalità pacifica di lotta: il boicottaggio economico-commerciale, lo sciopero civile. Ognuno di noi, nel nostro piccolo, può dare un suo contributo, cercate i prodotti che produce Israele o le aziende che fanno affari con Israele e segnalateli, non comprateli.

“Venite ad aiutarci e a sosteneteci il “10 novembre a Genova”, ha chiesto il Calp alla grande mobilitazione di sabato 4 novembre “Le guerre si fermano, non si festeggiano”, con la massiccia presenza di bandiere palestinesi. “L’appello a bloccare il varco di San Benigno, a Genova, all’alba di venerdì 10 novembre, è solo l’ennesimo atto di una lotta, quella contro il transito di armamenti dal porto, che il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali porta avuti da oltre cinque anni”, riporta il Fatto Quotidiano.

“La catena logistica è necessaria ad alimentare i conflitti rifornendoli di armamenti e non vogliamo fare parte di questo ingranaggio”. La mobilitazione dei portuali genovesi, che oltre al sindacato di base Usb e al SiCobas trova il sostegno di diversi movimenti e associazioni pacifiste, nonviolente e umanitarie, segue analoghe proteste che in questi giorni si sono viste in Belgio e negli Stati Uniti, dove attivisti e sindacati contestano l’invio di armi verso il Medio Oriente. “La compagnia marittima Zim ha messo a disposizione la sua flotta per portare armi verso Israele – spiega Josè Nivoi, referente Mare e Porti dell’Unione sindacale di base”

“Forse siamo diversi, ma noi pensiamo che, soprattutto in periodi di crisi, si debba stare uniti tra lavoratori e non identificarsi col punto di vista del padrone.

Noi pensiamo che ci si debba organizzare, fare fronte comune, contro le condizioni di lavoro che peggioreranno, contro i licenziamenti che cominciano ad arrivare. La storia del porto è fatta di lavoro, di solidarietà e di lotte, e di lavoratori che hanno saputo dire “NO” alle ingiustizie, al fascismo e alla guerra. Se si perde questo coraggio, se si rinuncia ad interrogarsi sul proprio ruolo in questa società, ad avere la capacità di non collaborare allora si rinuncia alla coscienza, diventa tutto giustificabile e la storia ha già dimostrato fin dove si può arrivare.”
Così scrivono in un loro comunicato online.

E ancora:
Pensiamo anche ai traffici di armi che sono tornati prepotentemente nel porto, anche su questo non siamo e mai saremo indifferenti. La guerra la sappiamo combattere anche noi e non passa giorno o notte in cui i lavoratori non discutono e reagiscano. La solidarietà e tanta e la voglia di combattere altissima. I risultati sono e saranno difficili da ottenere ma non ci lamentiamo.

Sarà dura.
Sarà rischioso.
Sarà quello che decidiamo.”

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 “Armi a Israele porteranno più sofferenze”. Dirigente del Dipartimento di Stato Usa si dimette: “Stessi errori degli ultimi decenni”

di Gianni Rosini

Un dirigente del Dipartimento di Stato americano nell’ufficio che sovrintende ai trasferimenti di armi, Josh Paul, si è dimesso in polemica con la decisione dell’amministrazione Biden di inviare armi a Israele nell’ambito del conflitto esploso a Gaza il 7 ottobre scorso, dopo il sanguinoso attacco di Hamas. Il funzionario ha motivato la sua decisione, in completa rottura con le posizioni assunte dal presidente americano che proprio mercoledì è volato a Tel Aviv per incontrare il premier Benjamin Netanyahu e rinnovargli il pieno appoggio di Washington, dicendo che il “cieco sostegno” sta portando a decisioni politiche “miopidistruttiveingiuste e contraddittorie rispetto agli stessi valori che sosteniamo pubblicamente”.

Il dirigente ha spiegato le sue ragioni e la sua posizione nella lettera di dimissioni presentata al Dipartimento di Stato: “La risposta che Israele sta dando, e con essa il sostegno americano sia a quella risposta sia allo status quo dell’occupazione, porterà solo a sofferenze maggiori e più profonde sia per il popolo israeliano che per quello palestinese”, ha spiegato l’uomo che ha ricoperto il ruolo di direttore degli affari pubblici e parlamentari per l’ufficio affari politico-militari del Dipartimento di Stato per oltre 11 anni. E proprio la sua lunga permanenza negli uffici del Dipartimento di Stato gli hanno fatto maturare la convinzione che le politiche militari americane nei contesti più caldi siano state sbagliate. Nessun riferimento preciso, come ad esempio al sostegno militare incondizionato all’Ucraina o, tornando più indietro nel tempo, alla decisione di invadere l’Afghanistan e l’Iraq nei primi anni Duemila. Ma il giudizio è chiaro e senza filtri: “Temo che stiamo ripetendo gli stessi errori commessi negli ultimi decenni e mi rifiuto di farne parte per un periodo più lungo”…

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Caitlin Johnstone – Senza verità e moralità resta sola la manipolazione

Israele lavora così duramente per distorcere la vostra percezione della realtà perché una percezione lucida della stessa è altamente sfavorevole ai suoi interessi 

The Atlantic ha pubblicato un nuovo articolo di apologia di Israele intitolato “La narrazione della decolonizzazione è pericolosa e falsa” – un notevole cambiamento di tono rispetto ai sentimenti di “Decolonizzare la Russia” dello scorso anno.

L’intero articolo è stato  analizzato paragrafo per paragrafo  da un commentatore di nome Sana Saeed, ma per i miei scopi qui vorrei concentrarmi solo su una frase specifica in esso contenuta sul massacro in corso da parte di Israele a Gaza:

“L’obiettivo israeliano a Gaza – per ragioni pratiche, tra le altre – è ridurre al minimo il numero di civili palestinesi uccisi”.

Se non sapeste che il caporedattore di The Atlantic, Jeffrey Goldberg, è un ex guardia carceraria dell’IDF che nel 2002 affermò che “la prossima invasione dell’Iraq sarà ricordata come un atto di profonda moralità”, vi stupirebbe che una frase del genere sia mai stata stampata…

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QUI un’intervista con Gideon Levy

 

 

Lettera di un alto funzionario ONU sul disastro umanitario a Gaza 

di Craig Mokhiber

Caro Alto Commissario Volker Turk,

Palais Wilson, Ginevra

questa sarà la mia ultima comunicazione ufficiale a Lei nella mia qualità di Direttore dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani di New York.

Scrivo in un momento di grande angoscia per il mondo, anche per molti dei nostri colleghi. Ancora una volta, stiamo assistendo a un genocidio che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e l’Organizzazione che serviamo sembra impotente a fermarlo. Come persona che ha indagato sui diritti umani in Palestina fin dagli anni ’80, che ha vissuto a Gaza come consulente delle Nazioni Unite per i diritti umani negli anni ’90 e che ha svolto diverse missioni per i diritti umani nel Paese prima e dopo, questa una questione che mi tocca personalmente.

Ho lavorato in questa sede anche durante i genocidi contro i Tutsi, i Musulmani Bosniaci, gli Yazidi e i Rohingya. In ogni caso, quando la polvere si è posata sugli orrori perpetrati contro popolazioni civili indifese, è apparso dolorosamente chiaro che avevamo fallito nel nostro dovere di soddisfare gli obblighi di prevenzione delle atrocità di massa, di protezione dei vulnerabili e di denuncia dei responsabili. E così è stato per le successive ondate di omicidi e persecuzioni contro i palestinesi durante l’intera vita delle Nazioni Unite.

Alto Commissario, stiamo fallendo di nuovo.

Come avvocato specializzato in diritti umani con oltre tre decenni di esperienza sul campo, so bene che il concetto di genocidio è stato spesso abusato a fini politici. Ma l’attuale massacro su larga scala del popolo palestinese, radicato in un’ideologia coloniale etno-nazionalista, in continuità con decenni di persecuzioni ed epurazioni sistematiche dei palestinesi, basate interamente sul loro status di arabi, e accompagnato da esplicite dichiarazioni d’intenti da parte dei leader del governo e dell’esercito israeliano, non lascia spazio a dubbi o discussioni. A Gaza, le case, le scuole, le chiese, le moschee e le istituzioni mediche civili sono state attaccate senza pietà, mentre migliaia di civili sono stati massacrati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme occupata, le case vengono confiscate e riassegnate in base alla razza e i violenti pogrom dei coloni sono accompagnati da unità militari israeliane. In tutto il territorio regna l’Apartheid.

Questo è un caso da manuale di genocidio. Il progetto europeo d’insediamento coloniale, etno-nazionalista, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese. Inoltre, i governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di gran parte dell’Europa sono totalmente complici di questo orribile assalto. Non solo questi governi si rifiutano di adempiere ai loro obblighi di “garantire il rispetto” delle Convenzioni di Ginevra, ma di fatto stanno attivamente armando l’assalto, fornendo sostegno economico e di intelligence e dando copertura politica e diplomatica alle atrocità di Israele.

Di concerto, i media aziendali occidentali, sempre più prigionieri dello Stato, violano apertamente l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, disumanizzando continuamente i palestinesi per facilitare il genocidio e trasmettendo propaganda di guerra e incitamento all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisce un incitamento alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza. I social media con sede negli Stati Uniti sopprimono le voci dei difensori dei diritti umani e amplificano la propaganda pro-Israele. Le lobby israeliane online e i GONGOs (Government Organised Non-governmental Organisations)molestano e diffamano i difensori dei diritti umani, mentre e le università e i datori di lavoro occidentali collaborano con loro per punire coloro che osano parlare contro le atrocità. Sulla scia di questo genocidio, è necessario chiedere il conto anche a questi attori, proprio come è avvenuto per radio Milles Collines in Ruanda.

In queste circostanze, la richiesta alla nostra organizzazione di un’azione di principio ed efficace è più grande che mai. Ma non abbiamo raccolto la sfida. Il potere esecutivo del Segretario Generale è stato nuovamente bloccato dall’intransigenza degli Stati Uniti e il Consiglio di Sicurezza è sotto attacco per ogni minima protesta e i nostri meccanismi per i diritti umani sono oggetto di continui attacchi diffamatori da parte di una rete organizzata di impunità online.

Decenni di distrazione per le promesse illusorie e in gran parte false di Oslo hanno distolto l’Organizzazione dal suo dovere fondamentale di difendere il diritto internazionale, i diritti umani internazionali e lo stesso Statuto ONU. Il mantra della “soluzione a due Stati” è diventato una barzelletta nei corridoi delle Nazioni Unite, sia per la sua assoluta impossibilità di fatto, sia per il suo totale fallimento nel rappresentare i diritti umani inalienabili del popolo palestinese. Il cosiddetto “Quartetto” non è diventato altro che una foglia di fico per l’inazione e per l’asservimento a uno status quo brutale. L’ossequio (sceneggiato dagli Stati Uniti) agli “accordi tra le parti stesse” (al posto del diritto internazionale) è sempre stato un trasparente gioco di prestigio, progettato per rafforzare il potere di Israele sui diritti dei palestinesi occupati e diseredati.

Negli anni ’80 mi sono avvicinato a questa Organizzazione perché vi ho trovato un’istituzione basata su principi e norme, che si schierava apertamente dalla parte dei diritti umani, anche nei casi in cui i potenti Stati Uniti, Regno Unito ed Europa non erano dalla nostra parte. Mentre il mio governo, le sue istituzioni sussidiarie e gran parte dei media statunitensi continuavano a sostenere o giustificare l’apartheid sudafricano, l’oppressione israeliana e gli squadroni della morte centroamericani, l’ONU si schierava a favore dei popoli oppressi di quelle terre. Avevamo il diritto internazionale dalla nostra parte. Avevamo i diritti umani dalla nostra parte. Avevamo i principi dalla nostra parte. La nostra autorità era radicata nella nostra integrità. Ma ora non più.

Negli ultimi decenni, parti importanti delle Nazioni Unite si sono arrese al potere degli Stati Uniti e alla paura della lobby di Israele, abbandonando questi principi e ritirandosi dal diritto internazionale stesso. Abbiamo perso molto in questo abbandono, non da ultimo la nostra credibilità globale. Ma è il popolo palestinese ad aver subito le perdite maggiori a causa dei nostri fallimenti. È un’incredibile ironia storica che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DUDU) sia stata adottata nello stesso anno in cui veniva perpetrata la Nakba contro il popolo palestinese. Mentre commemoriamo il 75° anniversario della DUDU, faremmo bene ad abbandonare il vecchio cliché secondo cui la Dichiarazione sarebbe nata dalle atrocità che l’hanno preceduta, e ad ammettere che è nata accanto a uno dei più atroci genocidi del XX secolo, quello della distruzione della Palestina. In un certo senso, quelli che l’hanno scritta promettevano i diritti umani a tutti, tranne che al popolo palestinese. E ricordiamo anche che le stesse Nazioni Unite hanno il peccato originale di aver contribuito a facilitare l’espropriazione del popolo palestinese, ratificando il progetto coloniale europeo che ha sequestrato la terra palestinese e l’ha consegnata ai coloni. Abbiamo molto da espiare.

Ma la strada per l’espiazione è chiara. Abbiamo molto da imparare dalle posizioni di sano principio assunte nelle città di tutto il mondo negli ultimi giorni, quando masse di persone si sono schierate contro il genocidio, anche a rischio di percosse e arresti. I palestinesi e i loro alleati, i difensori dei diritti umani di ogni genere, le organizzazioni cristiane e musulmane e le voci ebraiche progressiste che dicono “non in nostro nome”, sono tutti in prima linea. Tutto ciò che dobbiamo fare è seguirli.

Ieri, a pochi isolati da qui, la Grand Central Station di New York è stata completamente occupata da migliaia di difensori ebrei dei diritti umani che si sono schierati in solidarietà con il popolo palestinese e hanno chiesto la fine della tirannia israeliana (molti rischiando l’arresto). Così facendo, hanno eliminato in un attimo il punto di vista della hasbara [propaganda] israeliana –e vecchio tropo antisemita– secondo cui Israele rappresenta in qualche modo il popolo ebraico. Non è così. E, in quanto tale, Israele è l’unico responsabile dei suoi crimini. A questo proposito, è bene ribadire, nonostante le calunnie della lobby israeliana, che le critiche alle violazioni dei diritti umani di Israele non sono antisemite, così come le critiche alle violazioni saudite non sono anti-islamiche, le critiche alle violazioni del Myanmar non sono anti-buddiste, o le critiche alle violazioni indiane non sono anti-induiste. Quando cercano di metterci a tacere con le calunnie, dobbiamo alzare la voce, non abbassarla. Sono certo che converrà con me, Alto Commissario, che in questo consiste l’obbligo di dire la verità al potere.

Ma trovo anche speranza in quelle parti delle Nazioni Unite che si sono rifiutate di compromettere i principi dei diritti umani dell’Organizzazione, nonostante le enormi pressioni in tal senso. I nostri Relatori Speciali indipendenti, le commissioni d’inchiesta e gli esperti degli organi dei trattati, insieme alla maggior parte del nostro personale, hanno continuato a difendere i diritti umani del popolo palestinese, anche quando altre parti delle Nazioni Unite (anche ai livelli più alti) hanno vergognosamente chinato la testa al potere. In quanto custode delle norme e degli standard sui diritti umani, l’OHCHR (Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani) ha il particolare dovere di difenderli. Il nostro compito, a mio avviso, è quello di far sentire la nostra voce, dal Segretario Generale all’ultima recluta delle Nazioni Unite, e orizzontalmente in tutto il sistema ONU, insistendo sul fatto che i diritti umani del popolo palestinese non sono oggetto di discussione, negoziazione o compromesso in nessun luogo sotto la bandiera blu.

Che aspetto dovrebbe avere, dunque, una posizione basata sulle norme dell’ONU? Per cosa lavoreremmo se fossimo fedeli ai nostri ammonimenti retorici sui diritti umani e sull’uguaglianza per tutti, sulla responsabilità per i colpevoli, sulla riparazione per le vittime, sulla protezione dei vulnerabili e sulla legittimazione dei detentori dei diritti, il tutto nel quadro dello Stato di diritto? La risposta, a mio avviso, è semplice: se abbiamo la lucidità di vedere al di là delle cortine propagandistiche che distorcono la visione della giustizia a cui abbiamo prestato giuramento, il coraggio di abbandonare la paura e la deferenza nei confronti degli Stati potenti, e la volontà di prendere veramente la bandiera dei diritti umani e della pace. Certo, si tratta di un progetto a lungo termine e di una salita ripida. Ma dobbiamo iniziare ora o arrenderci a un orrore indicibile. Vedo dieci punti essenziali:

  1. Azione legittima:In primo luogo, noi delle Nazioni Unite dobbiamo abbandonare il fallimentare (e in gran parte falso) paradigma di Oslo, la sua illusoria soluzione a due Stati, il suo impotente e complice Quartetto e la sua sottomissione del diritto internazionale ai dettami di una presunta convenienza politica. Le nostre posizioni devono basarsi in modo inequivocabile sui diritti umani e sul diritto internazionale.
  2. Chiarezza di visione:Dobbiamo smettere di fingere che si tratti semplicemente di un conflitto per la terra o la religione tra due parti in guerra e ammettere la realtà della situazione in cui uno Stato dal potere sproporzionato sta colonizzando, perseguitando ed espropriando una popolazione indigena sulla base della sua etnia.
  3. Uno Stato unico basato sui diritti umani:Dobbiamo sostenere l’istituzione di uno Stato unico, democratico e laico in tutta la Palestina storica, con pari diritti per cristiani, musulmani ed ebrei e, quindi, lo smantellamento del progetto coloniale profondamente razzista e la fine dell’apartheid in tutta la terra.
  4. Lotta all’apartheid:Dobbiamo reindirizzare tutti gli sforzi e le risorse delle Nazioni Unite alla lotta contro l’apartheid, proprio come abbiamo fatto per il Sudafrica negli anni ’70, ’80 e primi anni ’90.
  5. Ritorno e risarcimento:Dobbiamo riaffermare e insistere sul diritto al ritorno e al pieno risarcimento per tutti i palestinesi e le loro famiglie che attualmente vivono nei territori occupati, in Libano, Giordania, Siria e nella diaspora in tutto il mondo.
  6. Verità e giustizia:Dobbiamo chiedere un processo di giustizia transitoria, facendo pieno uso di decenni di indagini, inchieste e rapporti delle Nazioni Unite, per documentare la verità e garantire la responsabilità di tutti i colpevoli, il risarcimento di tutte le vittime e la riparazione delle ingiustizie documentate.
  7. Protezione:Dobbiamo fare pressione per il dispiegamento di una forza di protezione dell’ONU dotata di risorse adeguate e di un forte mandato per proteggere i civili dal fiume al mare.
  8. Disarmo:Dobbiamo sostenere la rimozione e la distruzione delle massicce scorte di armi nucleari, chimiche e biologiche di Israele, per evitare che il conflitto porti alla distruzione totale della regione e, forse, anche oltre.
  9. Mediazione:Dobbiamo riconoscere che gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali non sono in realtà mediatori credibili, ma piuttosto parti effettive del conflitto che sono complici di Israele nella violazione dei diritti dei palestinesi, e dobbiamo sfidarli come tali.
  10. Solidarietà:Dobbiamo spalancare le nostre porte (e quelle del Segretario Generale) alle legioni di difensori dei diritti umani palestinesi, israeliani, ebrei, musulmani e cristiani che sono solidali con il popolo palestinese e con i suoi diritti umani e fermare il flusso incontrollato di lobbisti israeliani negli uffici dei leader delle Nazioni Unite, dove sostengono la continuazione della guerra, della persecuzione, dell’apartheid e dell’impunità e diffamano i nostri difensori dei diritti umani per la loro difesa di principio dei diritti dei palestinesi.

Ci vorranno anni per raggiungere questo obiettivo e le potenze occidentali ci combatteranno ad ogni passo, quindi dobbiamo essere fermi. Nell’immediato, dobbiamo lavorare per un cessate il fuoco immediato e la fine del lungo assedio su Gaza, opporci alla pulizia etnica a Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania (e altrove), documentare l’assalto genocida a Gaza, contribuire a portare massicci aiuti umanitari e alla ricostruzione dei palestinesi, prenderci cura dei nostri colleghi traumatizzati e delle loro famiglie e lottare con tutte le forze per un approccio di principio negli uffici politici delle Nazioni Unite.

Il fallimento dell’ONU in Palestina non è un motivo per ritirarsi. Piuttosto, dovrebbe darci il coraggio di abbandonare il paradigma fallimentare del passato e di abbracciare pienamente un percorso più basato sui principi. Come Alto Commissariato per i Diritti Umani, uniamoci con coraggio e orgoglio al movimento anti-apartheid che sta crescendo in tutto il mondo, aggiungendo il nostro logo alla bandiera dell’uguaglianza e dei diritti umani per il popolo palestinese. Il mondo ci guarda. Tutti noi dovremo rendere conto della nostra posizione in questo momento cruciale della storia. Schieriamoci dalla parte della giustizia.

La ringrazio, Alto Commissario Volker, per aver ascoltato questo ultimo appello dalla mia scrivania. Tra pochi giorni lascerò l’Ufficio per l’ultima volta, dopo oltre tre decenni di servizio. Ma non esitate a contattarmi se posso esservi utile in futuro.

Cordialmente,

Craig Mokhiber

Direttore dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani di New York

https://www.foxnews.com/world/outgoing-senior-un-official-calls-one-state-solution-slams-us-israel-chilling-words

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

da qui

 

 

Francesca Albanese, relatrice ONU: “Israele ha già effettuato una pulizia etnica di massa dei palestinesi sotto la nebbia della guerra”

La relatrice per i diritti umani delle Nazioni Unite ha avvertito che i palestinesi corrono il grave pericolo di una pulizia etnica di massa e ha invitato la comunità globale a mediare un cessate il fuoco.

“La situazione nei territori palestinesi occupati e in Israele ha raggiunto il culmine”, ha affermato Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati.

“C’è il grave pericolo che ciò a cui stiamo assistendo possa essere una ripetizione della Nakba del 1948 e della Naksa del 1967, anche se su scala più ampia. La comunità internazionale deve fare di tutto per evitare che ciò accada di nuovo”, ha affermato.

Ha osservato che i funzionari pubblici israeliani hanno apertamente sostenuto un’altra Nakba, il termine per gli eventi del 1947-1949, quando oltre 750.000 palestinesi furono espulsi dalle loro case e terre durante le ostilità che portarono alla fondazione di Israele. La Nakba, che portò all’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967, causò lo sfollamento di 350.000 palestinesi.

“Israele ha già effettuato una pulizia etnica di massa dei palestinesi sotto la nebbia della guerra”, ha detto. “Ancora una volta, in nome dell’autodifesa, Israele sta cercando di giustificare ciò che equivarrebbe a pulizia etnica.”

“Qualsiasi operazione militare continuata da parte di Israele è andata ben oltre i limiti del diritto internazionale. La comunità internazionale deve fermare queste enormi violazioni del diritto internazionale adesso, prima che la tragica storia si ripeta. Tempo è dell’essenza. Sia i palestinesi che gli israeliani meritano di vivere in pace, uguaglianza di diritti, dignità e libertà”, ha concluso.

da qui

 

 

‘Siamo a malapena vivi’: i messaggi da Gaza provocano lacrime al Festival della letteratura palestinese – Arifa Akbar

Con i contributi di poeti, romanzieri e di un premio Nobel, questa serata molto intensa – interrotta da aggiornamenti da Gaza in tempo reale – ha segnato la sofferenza di entrambe le parti del conflitto.

È stato un evento che ha rischiato di non svolgersi. Ma alla fine più di 500 persone hanno riempito la sala di un sottopiano di Londra per una serata di poesia e performance che ha segnato la solidarietà culturale con il popolo palestinese. Ma il PalFest – il festival della letteratura palestinese, un evento annuale che si tiene a Londra dal 2008, co-fondato dalla scrittrice egiziana Ahdaf Soueif – è rimasto senza una sede dopo che la Royal Geographical Society ha cancellato la sua disponibilità, a causa di timori per la sicurezza alla luce della guerra tra Israele e Hamas.

Gli organizzatori avevano venduto 600 biglietti e avevano pochi giorni per trovare una sede alternativa. All’ultimo minuto si sono assicurati la sala della National Education Union di Londra. Il pubblico è rimasto in piedi intorno al palco e si è seduto per terra quando i posti a sedere si sono esauriti, oltre ai partecipanti online.

L’evento è iniziato con un minuto di silenzio, definito da Soueif come “per tutti, specialmente per tutti i bambini, che vengono uccisi in questi momenti di conflitto”. Gli aggiornamenti da Gaza hanno interrotto i lavori in tempo reale, con l’annuncio del taglio dell’elettricità e delle telecomunicazioni e l’annuncio di un’offensiva di terra da parte delle truppe israeliane.

Soueif ha definito le uccisioni di civili “azioni deplorevoli e crudeli” e ha anche riconosciuto la “tremenda importanza” delle voci ebraiche che si sono espresse contro la guerra, tra cui diverse figure presenti in sala. Ha definito la Nakba – lo sfollamento di massa e l’esproprio dei palestinesi durante la guerra arabo-israeliana del 1948 – un “processo in corso” e gli oratori hanno riflettuto intensamente sul significato di 75 anni di occupazione israeliana per i palestinesi.

Il Premio Nobel Abdulrazak Gurnah ha parlato di un suo viaggio a Ramallah nel 2009 che gli ha dato un “piccolo assaggio” della vita sotto occupazione, citando studenti costretti a viaggiare per tre ore per seguire le loro lezioni e persone malate impossibilitate a viaggiare in diverse parti del Paese per ricevere cure mediche. Ha condannato gli attacchi “intollerabili e imperdonabili” di Hamas e ha parlato anche dei “ritorni brutali e vendicativi” di Israele. Ha riassunto con le parole: “È troppo, uccidere la gente in questo modo”.

Le attrici Julie Christie e Harriet Walter hanno letto brani di scrittori mediorientali, mentre il romanziere Mohammed Hanif ha lanciato un appello urgente: “Il mondo ha un cuore abbastanza grande da permettere alle madri e ai padri israeliani, e ai genitori palestinesi, di abbracciare i loro figli per farli addormentare con la ragionevole certezza che saranno vivi il mattino seguente?”.

Il sassofonista e rapper Soweto Kinch ha eseguito brani musicali, mentre il poeta palestinese-egiziano Tamim Barghouti ha parlato dell’impatto dell’occupazione. Nel frattempo, lo scrittore Matthew Teller ha raccontato di essere cresciuto in una famiglia ebraica in Gran Bretagna e di aver messo gradualmente in discussione gli ideali sionisti a cui era stato educato. “Andavamo in vacanza in un insediamento a Gerusalemme Est. Tutti quelli che incontravamo erano ebrei, israeliani o entrambi, e ogni storia che sentivamo parlava del miracolo di Israele”. “Quando ho iniziato a viaggiare in Medio Oriente”, ha aggiunto, “ho sentito nuovi modi di raccontare le storie che conoscevo. E ogni volta che tornavo in Israele, avevano sempre meno senso, fino a non averne affatto”.

L’attore Tobias Menzies ha letto gli agghiaccianti post sui social media del poeta palestinese Mosab Abu Toha, attualmente a Gaza, che parlavano di bombe che cadevano e di civili che morivano intorno a lui. Uno, di due giorni fa, recitava: “I miei vicini sono stati uccisi”. Un altro parlava di come non ci fossero abbastanza letti d’ospedale: “I bambini urlano. È buio, tranne che per la luce delle esplosioni. Siamo a malapena vivi”.

Soueif ha riconosciuto l’immensa carica emotiva della serata: si versavano lacrime, mentre lei si asciugava le sue. Omar Hamilton, direttore del PalFest, ha parlato dell’importanza dell’evento che ha dato la possibilità di condividere insieme la sofferenza dei gazawi, piuttosto che seguirla da soli. Ma ha espresso la sua preoccupazione per l’erosione del diritto di riunirsi e scambiare idee sui palestinesi, nel Paese e a livello internazionale, dato che c’è chi rischia di essere sospeso, licenziato o retrocesso. Ha citato un progetto di legge in America per mettere al bando l’attivismo studentesco sulla Palestina. “Speriamo davvero”, ha detto, “che questo non si trasformi in una nuova realtà. Il diritto fondamentale di riunirsi e di scambiare idee dovrebbe essere una base essenziale del Paese, ma si sta rapidamente erodendo”.

In precedenza, Rashid Khalidi, l’eminente storico palestinese-americano e professore della Columbia University, aveva parlato di “persecuzione da parte di università e governi dell’attivismo studentesco” – e a questa opinione ha fatto eco Mustafa Sheta, direttore generale del Freedom Theatre in Cisgiordania. Venerdì, parlando dall’ufficio del campo profughi di Jenin, ha sottolineato l’importanza dell’arte e della cultura come strumenti di resistenza.

Ha citato figure culturali palestinesi che sono state sottoposte a “detenzione amministrativa” senza accusa, tra cui Bilal al-Saadi, presidente del consiglio di amministrazione del Freedom Theatre, imprigionato dal settembre 2022, e Mohammed abu Sakha, un artista di circo, anch’egli arrestato e detenuto senza processo. Sheta ha raccontato che gli è stato impedito di viaggiare all’estero e che è stato minacciato da agenti dell’intelligence israeliana con telefonate anonime.

Prima dello scoppio della guerra attuale, il Palestinian Performing Arts Network (PPAN), un’organizzazione che riunisce gli artisti di teatro, aveva programmato per novembre una vetrina della cultura palestinese che spaziava dal circo alla danza e alla musica.

“Gli artisti hanno un ruolo importante nel parlare dell’identità palestinese durante questa invasione”, ha aggiunto Sheta. “Abbiamo paura di parlare liberamente, ma continueremo a essere artisti. Siamo parte del processo di lotta contro l’apartheid e il razzismo”.

https://www.theguardian.com/culture/2023/oct/30/gaza-palestine-festival-of-literature

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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Le testimonianze del 7 ottobre rivelano che l’esercito israeliano ha “bombardato” i cittadini israeliani con carri armati e missili – Max Blumenthal

L’esercito israeliano ha ricevuto l’ordine di bombardare le case israeliane e perfino le proprie basi dopo essere state sopraffatte dai militanti di Hamas il 7 ottobre. Quanti cittadini israeliani che si dice siano stati “bruciati vivi” sono stati in realtà uccisi dal fuoco amico?

 

Numerose nuove testimonianze di testimoni israeliani dell’attacco a sorpresa di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele si aggiungono alle prove crescenti che l’esercito israeliano ha ucciso i propri cittadini mentre combattevano per neutralizzare gli uomini armati palestinesi.

Tuval Escapa, un membro della squadra di sicurezza del Kibbutz Be’eri, ha istituito una hotline per coordinare i residenti del kibbutz e l’esercito israeliano. Ha detto al quotidiano israeliano Haaretz che quando la disperazione ha cominciato a prendere il sopravvento, “i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili – incluso bombardare le case dei loro occupanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi”.

Un rapporto separato pubblicato su Haaretz ha osservato che l’esercito israeliano è stato “costretto a richiedere un attacco aereo” contro la propria struttura all’interno del valico di Erez verso Gaza “al fine di respingere i terroristi” che ne avevano preso il controllo. All’epoca quella base era piena di ufficiali e soldati dell’amministrazione civile israeliana.

Questi rapporti indicano che dall’alto comando militare sono arrivati ​​ordini di attaccare case e altre aree all’interno di Israele, anche a costo di molte vite israeliane.

Una donna israeliana di nome Yasmin Porat ha confermato in un’intervista con Israel Radio che i militari “senza dubbio” hanno ucciso numerosi civili israeliani durante gli scontri a fuoco con i militanti di Hamas il 7 ottobre.

Come hanno riferito David Sheen e Ali Abunimah su Electronic Intifada, Porat ha descritto un “fuoco incrociato molto, molto pesante” e il bombardamento dei carri armati israeliani, che ha causato molte vittime tra gli israeliani.

Mentre era trattenuto dagli uomini armati di Hamas, Porat ha ricordato : “Non ci hanno abusato. Siamo stati trattati in modo molto umano… Nessuno ci ha trattato violentemente”.

Ha aggiunto: “L’obiettivo era rapirci e portarci  a Gaza come ostaggi, non ucciderci”.

Secondo Haaretz, l’esercito è riuscito a ripristinare il controllo su Be’eri solo dopo aver effettivamente “bombardato” le case degli israeliani che erano stati fatti prigionieri. “Il prezzo è stato terribile: sono stati uccisi almeno 112 residenti di Be’eri”, riporta il giornale. “Altri sono stati rapiti. Ieri, 11 giorni dopo il massacro, in una delle case distrutte sono stati scoperti i corpi di una madre e di suo figlio. Si ritiene che altri corpi giacciano ancora tra le macerie”.

Gran parte dei bombardamenti a Be’eri sono stati effettuati da equipaggi di carri armati israeliani. Come ha notato un giornalista del quotidiano i24 sponsorizzato dal Ministero degli Esteri israeliano durante una visita a Be’eri, “case piccole e pittoresche [sono state] bombardate o distrutte” e “prati ben tenuti [sono stati] divelti dai cingoli di un veicolo blindato, forse un carro armato.”

Anche gli elicotteri d’attacco Apache hanno avuto un ruolo importante nella risposta dell’esercito israeliano il 7 ottobre. I piloti hanno detto ai media israeliani di essersi precipitati sul campo di battaglia senza alcuna informazione di intelligence, incapaci di distinguere tra combattenti di Hamas e non combattenti israeliani, e tuttavia determinati a “svuotare la pancia” dei loro aerei.

“Mi trovo in un dilemma su cosa sparare, perché ce ne sono così tanti”, ha commentato un pilota Apache.

Il video girato da uomini armati di Hamas in uniforme chiarisce che hanno sparato intenzionalmente a molti israeliani con fucili Kalashnikov il 7 ottobre. Tuttavia, il governo israeliano non si è accontentato di fare affidamento su prove video verificate. Invece, continua a promuovere affermazioni screditate di “bambini decapitati” mentre distribuisce fotografie di “corpi bruciati in modo irriconoscibile” per insistere sul fatto che i militanti hanno sadicamente immolato i loro prigionieri, e ne hanno persino violentati alcuni prima di bruciarli vivi.

L’obiettivo dietro l’esposizione da parte di Tel Aviv di tali atrocità è chiaro: dipingere Hamas come “peggiore dell’ISIS” coltivando al contempo il sostegno al continuo bombardamento da parte dell’esercito israeliano della Striscia di Gaza, che ha provocato oltre 7.000 morti, tra cui almeno 2.500 bambini al momento della pubblicazione . Mentre centinaia di bambini feriti a Gaza sono stati curati per quelle che un chirurgo ha descritto come “ustioni di quarto grado” causate da nuove armi, l’attenzione dei media occidentali rimane concentrata sui cittadini israeliani presumibilmente “bruciati vivi” il 7 ottobre.

Tuttavia, le prove crescenti degli ordini di fuoco amico impartiti dai comandanti dell’esercito israeliano suggeriscono fortemente che almeno alcune delle immagini più sconcertanti di cadaveri israeliani carbonizzati, case israeliane ridotte in macerie e carcasse di veicoli bruciati presentate ai media occidentali erano, in realtà, l’opera degli equipaggi dei carri armati e dei piloti di elicotteri che hanno ricoperto il territorio israeliano con proiettili, cannoni e missili Hellfire.

Sembra infatti che il 7 ottobre l’esercito israeliano abbia fatto ricorso alle stesse tattiche impiegate contro i civili a Gaza, facendo aumentare il bilancio delle vittime dei propri cittadini con l’uso indiscriminato di armi pesanti…

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Alessandro Orsini: “9000 civili massacrati a Gaza. La Commissione europea è la vergogna più grande del mondo”

Da una parte, l’Occidente chiede a Netanyahu di non sparare sui civili a Gaza; dall’altra, fornisce a Israele tutto il sostegno politico, militare ed economico per massacrare i civili a Gaza.

Il sistema dell’informazione in Italia sulla politica internazionale, essendo uno dei più corrotti del mondo, nasconde questo fatto per nascondere che i bambini di Gaza vengono massacrati anche dalle democrazie europee e non soltanto da Israele. Vengono massacrati anche dalla Commissione europea e dalla Casa Bianca. In questo modo, i media italiani, che sono stracorrotti, possono fingere che l’Occidente difenda i diritti umani, quando, in realtà, difende un ordine internazionale in Palestina che li calpesta sistematicamente. La Commissione europea è responsabile del massacro dei bambini palestinesi? Certo che lo è. Ogni bambino palestinese massacrato a Gaza è anche sulla coscienza della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen.

La Commissione europea è la vergogna più grande del mondo. Prima ha sostenuto una politica basata sullo scontro frontale con la Russia volta al massacro dei bambini ucraini; adesso sostiene una politica volta al massacro dei bambini palestinesi rifiutandosi di introdurre sanzioni contro Israele e rifiutando di invocare un mandato di cattura della Corte penale internazionale contro Netanyahu per crimini contro l’umanità a Gaza e in Cisgiordania.

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Ambasciatrice palestinese in Italia: “A Gaza un genocidio che Israele compie davanti agli occhi del mondo intero”

(intervista di  Cristina Mirra)

Avevo intervistato l’Ambasciatrice palestinese in Italia Abeer Odeh due anni fa. Riflettevamo in riferimento alla decisione della Corte penale internazionale di dichiararsi competente per indagare sui crimini di guerra di Israele nei confronti dei palestinesi. La situazione è degradata drammaticamente, come sappiamo, e siamo qui ancora a dare voce a chi l’informazione di questo Paese, non dà.

Con l’ Ambasciatrice oggi riflettiamo su come stanno anche cambiando i rapporti di forza a livello internazionale, ora che gli accordi di Abramo hanno perso vigore e sono perlomeno rimandati a data da definirsi. Sì perché queste ultime settimane stanno cambiando tutto. Anche ridestando la platea mondiale e unendo il mondo arabo intorno al dilaniato popolo Palestinese. In questa intervista inoltre, diamo all’Ambasciatrice la possibilità di rispondere all’ambasciatore israeliano in Italia, che ha pubblicamente confessato: “noi in Israele, almeno la popolazione, siamo non interessati a discorsi razionali… Per noi c’è un solo scopo: distruggere Gaza, distruggere questo male assoluto”.

L’INTERVISTA

 

La popolazione a Gaza cosa sta passando in questo momento? Penso in particolare ai bambini.

La popolazione di Gaza è vittima di una pulizia etnica e di un genocidio che Israele compie davanti agli occhi del mondo intero. Le vittime innocenti uccise dalle aggressioni israeliane mentre scriviamo sono già più di 8.805. Di queste, più di 3.600 erano bambini. Molti altri – e parliamo di migliaia – sono ancora sotto le macerie. I feriti sono più di 22.240, di cui alcune migliaia gravi. Non c’è modo di sfuggire alla morte a Gaza in questi giorni. Anche coloro che si sono diretti verso sud, costretti dall’illegale trasferimento forzato imposto da Israele, sono stati uccisi nel tentativo di cercare rifugio. A Gaza stiamo vivendo un incubo che la comunità internazionale non sembra interessata a interrompere salvandoci da una catastrofe totale.


Che senso ha togliere acqua, cibo e medicine, oltre che l’elettricità ai civili? Staccare la corrente addirittura ai degenti negli ospedali e ai neonati nelle incubatrici?

Lo scopo di Israele è sbarazzarsi della popolazione palestinese di Gaza. Quando dicono di voler distruggere Gaza lo pensano davvero e lo fanno, attraverso la pulizia etnica e il genocidio.


Come si arriva al 7 di Ottobre? Cosa c’è stato prima?

Se qualcuno dovesse pensare che le cose prima di sabato 7 ottobre andassero bene si sbaglierebbe di grosso. Le cose andavano malissimo – e la “causa palestinese” è rimasta irrisolta – da almeno 75 anni: perché nel 1948 è nato lo Stato di Israele al prezzo della distruzione di 531 villaggi palestinesi, dell’uccisione di 15.000 loro abitanti nel corso di vari massacri e dell’esodo di 800.000 profughi, senza che al nostro popolo sia mai stato riconosciuto uno Stato palestinese; e perché viviamo sotto occupazione dal 1967, nonostante centinaia di risoluzioni delle Nazioni Unite ne chiedano la fine.
Occupazione significa condizioni di vita miserabili dettate dallo strangolamento della nostra economia, come ha recentemente ricordato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres; significa la demolizione da parte delle forze israeliane delle nostre case, scuole, cliniche, negozi, strade, stalle e capanni, reti idriche e igienico-sanitarie; significa detenzioni arbitrarie di bambini, condizioni insopportabili dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, uccisioni ingiustificate dettate da una giustizia sommaria e da punizioni collettive che equivalgono a crimini di guerra; e significa l’impossibilità di avere un nostro Stato.
Abbiamo costantemente avvertito dell’imminente scoppio di una guerra. Abbiamo espresso preoccupazione per la necessità di fare pressione su Israele affinché interrompa le sue violazioni e le aggressioni contro i palestinesi. Abbiamo detto che la nostra gente non poteva più sopportare tutto questo.

Quali sono gli obiettivi che Hamas si è dato in questa controffensiva?

Non posso parlare a nome di Hamas. Ma posso dire che se non fossimo sotto occupazione non ci sarebbe bisogno di controffensive. La leadership palestinese ha sempre aderito allo stato di diritto, sperando in un sostegno pacifico a livello internazionale per realizzare il nostro legittimo diritto all’autodeterminazione. Questo sostegno non è mai arrivato e il nostro popolo lo ha visto molto chiaramente. Non possiamo sorprenderci che a questo punto altri possano optare per altri mezzi di resistenza.

Il governo israeliano dice di voler sradicare Hamas, ma un’operazione così sanguinosa e brutale contro civili e bambini non porta, in prospettiva, a decuplicare la forza Hamas in Palestina e nel mondo?

Il governo israeliano è ipocrita: se davvero avesse voluto la pace, avrebbe dovuto rispettare gli accordi presi con l’Autorità Palestinese e con l’OLP, rispettando il diritto internazionale e ponendo fine all’occupazione. La verità, emersa chiaramente in questi giorni, è che Israele persegue la pulizia etnica della Striscia di Gaza e la distruzione di tutte le sue infrastrutture, coerentemente con l’assoluta negazione di uno Stato palestinese.

La creazione di un unico Stato palestinese sembrava essere ancora lontana fino al 7 di Ottobre. Ora è diventata priorità nelle agende dei governi occidentali. Quello che sta accadendo sta portando alla ribalta la questione palestinese, come ne esce il governo Netanyahu e il sionismo?

Lo slogan “Due Stati per due Popoli” è sempre stato sulla bocca dei governi occidentali, non nelle loro agende. Neanche oggi sembra esserci, purtroppo, se guardiamo alle azioni concrete in questo senso. Il nostro popolo sta pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane, sogni interrotti, speranze infrante. Al momento vediamo solo la tragedia e non vediamo nessuno pronto a fermarla…

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Rovelli: «Fermare la carneficina, non è una richiesta strana»

(intervista di ANDREA CAPOCCI)

La Breakthrough Science Society, un’organizzazione indiana che promuove la cultura scientifica, ha scritto un appello per la pace a Gaza firmato da un migliaio di scienziati di tutto il mondo. Tra i primi c’è il fisico italiano , che con la scienza e la filosofia indiana vanta una lunga frequentazione. In questi giorni Rovelli è negli Usa, dove è stato appena pubblicato il suo ultimo saggio Buchi bianchi e dove lo ha raggiunto il manifesto. Nei giorni scorsi il Foglio lo aveva accusato di aver giustificato Hamas. L’appello di oggi sgombra ogni dubbio: «condanniamo senza mezzi termini l’attacco sui civili israeliani e la cattura di ostaggi» si legge nel testo. Ma il fisico preferisce smarcarsi dalle polemiche. «Il problema non è condannare questo o quello» spiega. «Le condanne lasciano il tempo che trovano».
Professor Rovelli, qual è il problema allora?
Il problema è fermare i massacri e il dolore infinito che generano da ogni parte. Fermare le carneficine, sedersi a un tavolo, cercare soluzioni ascoltando gli altri. Non è una richiesta strana: lo hanno chiesto la grandissima maggioranza dei paesi del mondo nell’assemblea generale delle Nazioni Unite. Lo chiedono milioni di persone nelle piazze. Lo chiede il Papa e i leader di altre religioni. Lo chiedono tutti gli intellettuali ragionevoli. C’è solo una sparuta minoranza del mondo che invece vuole «risolvere» tutto a cannonate e portaerei. Purtroppo questa minoranza ha il potere delle armi e il potere della propaganda: i media italiani sono in gran parte asserviti a questo potere, nella pia illusione che sia quello che ci garantisce.
Però desta polemiche il fatto che dagli atenei di tutto il mondo arrivino più appelli per il cessate-il-fuoco su Gaza che di sostegno a Israele.
Ma è ovvio. La gente protesta perché chiede che le armi tacciano, non perché le armi sparino di più, come fanno ora quelle israeliane. In questo momento chi sta compiendo massacri è più di ogni altro l’esercito israeliano. Certo, non è l’unico: c’è un’ininterrotta scia di sangue, di guerre, massacri e carneficine che porta fin qui. Ma se ciascuno continua a guardare quelle del passato e a usarle per giustificare la vendetta, o a cercare di prevalere ammazzando tutti gli altri, il risultato è guerra infinita. L’unica cosa ragionevole è fermarsi ora come chiedono tutti, eccetto Israele e Stati Uniti.
Sbaglia chi vede un antisemitismo strisciante in queste prese di posizione?
È una baggianata colossale. Milioni di persone nelle strade a chiedere un cessate il fuoco, tra cui innumerevoli ebrei, sempre messi in risalto e applauditi nelle manifestazioni non solo non sono antisemitismo, ma il contrario: sono la prova che la maggior parte della gente vuole vivere in pace, senza odio né oppressione. Tutti vedono le ragioni di Israele: gli israeliani vogliono vivere in sicurezza, senza bombe o aggressioni e nessuno lo mette in dubbio. Il punto è che massacrare migliaia di palestinesi al ritmo di un bambino palestinese ucciso ogni dieci minuti nelle ultime due settimane non mi sembra un buon auspicio per la convivenza pacifica. È proprio chi sconsideratamente suggerisce che i milioni che chiedono pace siano antisemiti a soffiare sul fuoco della guerra e del razzismo. Ci sono fanatici da entrambi i lati di questo conflitto. Sono minoranze estreme che fanno i danni peggiori: ricordiamo che gli accordi di Oslo sono saltati anche perché un estremista israeliano ha ammazzato Rabin che lavorava per la pace e aveva stretto la mano ad Arafat.
Il vostro appello invita l’Onu a intervenire per un cessate-il-fuoco. Ma gli organismi internazionali appaiono impotenti.
Invece di ripetere che sono impotenti diciamo perché lo sono: sono impotenti perché una minoranza super-armata fa ciò che vuole e ignora le domande dei più. L’ironia più amara è che questa minoranza armata lo fa in nome della “democrazia”. Cioè, in nome della “democrazia” si agisce contro la maggioranza e si massacra. Qualcuno si è mai chiesto quanto sia ragionevole la pretesa di Israele di essere una democrazia? Una democrazia è un sistema di governo in cui chi è soggetto al potere di uno stato ha diritto di votare per il governo. I territori occupati da Israele, a Gaza e in Cisgiordania, sono soggetti al potere di Israele ma chi abita lì non vota. L’unico caso simile che conosco è il Sudafrica dell’apartheid: una democrazia sì, ma dove votavano solo alcuni e non i neri. Anche lì c’erano “territori con autonomia”: per i neri.
In assenza dell’Onu, cosa possono fare i governi o la società civile per avvicinare una tregua?
Il governo italiano può fare pressione sugli alleati americani. Sono loro che decidono e che hanno i cordoni della borsa di Israele a cui danno le armi e davanti alle cui coste mettono le portaerei per garantire l’impunità dei massacri a Gaza. Biden e Netanyahu giocano al poliziotto buono e al poliziotto cattivo: l’uno chiede all’altro di non esagerare, e l’altro gli risponde che farà il possibile. L’attuale primo ministro italiano si è fatto eleggere promettendo più autonomia in politica estera e ora è schiacciato sulle posizioni statunitensi. La risoluzione Onu che chiedeva un cessate il fuoco è stata votata da Francia, Spagna e Inghilterra: perché non da noi? La società civile può poco, dato il completo asservimento dei media mainstream al potere americano. Ma qualcosa può, in fondo alla fine la nostra è una democrazia. Ci ricorderemo, spero, per chi votare: per chi si impegna davvero per la pace nel mondo.

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«Se Israele è un modello, la democrazia mi fa paura» – Eyal Sivan

il Manifesto, 7 novembre 2023.

(Intervista di Cristina Piccino)

Intervista con il regista israeliano, militante contro l’Occupazione: i suoi film per interrogare la storia, il razzismo insito nell’Occidente, la parzialità delle contestazioni interne.

Regista, produttore, saggista, docente di cinema, Eyal Sivan ha costruito film dopo film una narrazione di Israele dall’«interno » secondo un’interrogazione appassionata della memoria e uno sguardo in dialogo costante col presente e con la realtà del mondo. Dal conflitto Israele-Palestina alla Shoah (Uno specialista, il processo a Eichmann ripercorso con la guida di Hannah Arendt) ogni passaggio approda a una rifondazione dell’immaginario sulle questioni trattate. Forse anche per questo i suoi lavori sono stati spesso controversi o al centro di polemiche, come Route 181 (2004) realizzato insieme al regista palestinese Michel Khleifi, un road movie lungo la linea di confine della risoluzione dell’Onu (mai attuata) del 1947 che stabiliva un possibile stato binazionale. Sivan nato a Haifa, militante sin da giovanissimo contro l’Occupazione, fotografo prima che cineasta, rifiuta il servizio militare e nell’85 si trasferisce a Parigi. Ci parliamo al telefono da Marsiglia dove vive oggi.  

In uno dei tuoi primi film, «Izkor- Gli schiavi della memoria» (1991) analizzavi come Israele nella sua narrazione utilizza la Storia per giustificare le scelte nel presente. Dal 7 ottobre, il giorno dell’attacco terrorista di Hamas, il governo israeliano utilizza costantemente il paragone tra il nazismo e Hamas.  

Izkor, che tu hai citato, è un film di oltre trent’anni fa. La cosa più terribile è che in questo processo non c’è nulla di nuovo, a volte ho l’impressione che tutto è stato detto. Il gesto dell’ambasciatore israeliano di presentarsi all’Onu con la stella di David sul petto conferma questa convinzione. Si vuole dimenticare che quanto è accaduto lo scorso 7 ottobre non inizia in quel momento, e utilizzare la dialettica della Shoah per inquadrarlo è una profanazione verso la memoria della Shoah stessa che ridotta a terrorismo viene denigrata. Lo trovo un insulto come essere umano, come ebreo, nei confronti della mia storia famigliare. Strumentalizzare la Shoah per giustificare qualsiasi atto rimanda a quella ideologia della vittima, fortemente consolidata nella nostra società, secondo la quale quando si è «vittime» ci si trova nella posizione di una «innocenza assoluta» – che di per sé non esiste. Ma non ha alcuna importanza: noi perché vittime della Shoah possiamo permetterci tutto, anche bombardare un campo di rifugiati, gli ospedali, le scuole – «l’innocenza totale» di cui godiamo ci assolve. Tale visione è appunto una profanazione della memoria e una forma di revisionismo. Se Hamas sono nazisti, allora l’Olocausto, il nazismo diventano un atto terrorista? Che dire dei milioni di persone sterminate dall’ideologia hitleriana? L’Europa accetta questa retorica sul nazismo perché è un buon modo con cui sottrarsi alle proprie responsabilità: considerare l’Olocausto terrorismo ci dice che in fondo non è stato così grave uccidere tutti gli ebrei europei. E l’unicità storica della Shoah viene meno. C’è un altro punto: coi nazisti non si poteva cercare un accordo di pace giusto? E neppure negoziare o tentare uno scambio di prigionieri. Dentro questo paragone ogni possibilità di mediazione viene annullata. Ma gli israeliani sono «condannati» a vivere coi palestinesi, anche se continuano in questo massacro di massa – con un numero di palestinesi uccisi spaventoso che viene sempre più avvicinato a una idea di genocidio. Così Israele dopo averli sempre denunciati si trova nella posizione di chi commette dei crimini contro l’umanità. È una politica davvero suicida per tutti gli israeliani.

Molti paesi europei, tra cui Germania e Francia, hanno vietato manifestazioni di solidarietà con la Palestina, mentre le critiche verso la politica israeliana sono tacciate di antisemitismo. Al tempo stesso si moltiplicano i gesti antisemiti.  

I governi di destra, liberal-conservatori europei giocano col fuoco: c’è un pericolo concreto di importare questo conflitto all’interno dell’Europa che è già caratterizzata da politiche repressive contro l’immigrazione, dall’islamofobia; e l’atteggiamento espresso verso questo conflitto sembra voler mettere da parte le questioni interne ai paesi europei. Definire ogni critica alla politica israeliana come antisemita rimanda ancora una volta a quello «stato d’eccezione » – assai ambivalente – di cui Israele beneficia. Dai bombardamenti su Gaza nel 2007, alle aggressioni dei coloni che hanno causato molti morti. Il mondo intero ha lasciato fare contro ogni diritto internazionale. Israele gode della facoltà di agire senza limiti, proprio in virtù di quello «stato d’eccezione»: ciò che per gli altri vale, per loro non esiste. Questa politica dei governi europei è stata però controproducente per Israele: poter andare avanti nei propri crimini, commessi ben prima del 7 ottobre ha posto infatti gli ebrei, gli israeliani in un crescente pericolo.

Nei documenti ufficiali del governo israeliano diffusi la settimana scorsa c’è il progetto di espellere i Gazawi nel deserto egiziano del Sinai. Lo credi possibile? Si legge che «saranno aiutati dal loro fratelli arabi e musulmani». Ma sappiamo che questa storia della solidarietà coi palestinesi nel mondo arabo è abbastanza ipocrita.  

Quel documento risulta redatto il 3 ottobre, e rispecchia la politica israeliana dal 1948 che si sintetizza in un massimo di terra e un minimo di popolazione araba. La differenza oggi è che con l’arrivo al governo dell’estrema destra più radicale finalmente – come dicono – possono finire il lavoro non fatto nel ’48. È il grande sogno, o l’illusione di espellere i palestinesi dalla coscienza collettiva – una cosa che peraltro è già in atto da quando Gaza è diventata una prigione a cielo aperto, da quando sono stati eretti i muri che eliminavano milioni di palestinesi dalla spazio comune nella percezione israeliana come in quella europea. Riguardo i paesi arabi, nonostante quanto si dica i loro regimi dittatoriali sono amici dell’occidente: vale per l’Egitto coi suoi sessantamila prigionieri politici o per i paesi del Golfo. Le popolazioni arabe sono nelle mani di queste dittature ma ai paesi occidentali interessa soltanto salvaguardano i loro profitti. Non mi aspetto nulla dai paesi arabi, Al-Sisi sta negoziando quanto gli conviene in termini di soldi, armi, cancellazione del debito e se trovano un accordo favorevole accetterà i palestinesi nel deserto. Non esiste una politica araba di solidarietà, si tratta di singoli stati e di interessi economici. Lo stesso vale per la Turchia: ha accettato i profughi siriani per soldi promettendo agli europei di «trattenerli» così da avere mano libera nella repressione dei curdi. Più che solidarietà la definirei una generale attitudine commerciale. Quel piano israeliano conferma che l’attuale conflitto non è né etnico né di sangue ma politico, è così che deve essere visto e trattato.

Prima dell’inizio della guerra in Israele sembrava esserci un movimento di opposizione contro il governo.  

Non utilizzerei la parola «guerra», lo è forse da parte israeliana ma i palestinesi non hanno un esercito: guerra è per me uno scontro tra forze eguali. Questa è un’operazione militare e un’aggressione alla popolazione civile…

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Palestina, la sconfitta della nonviolenza incompiuta – Mao Valpiana

C’è stato un tempo in cui la nonviolenza abitava in Palestina. Dal 1983 il Palestinian Centre for the Study of Nonviolence (PCSN) ha agito nella tradizione della lotta di liberazione gandhiana e sulla scorta degli studi del politologo Gene Sharp, individuando 120 tecniche nonviolente di resistenza all’oppressione israeliana. I coloni sradicavano ulivi centenari, e gruppi misti di palestinesi e israeliani nonviolenti di notte ne ripiantavano il doppio. In questo modo migliaia di acri furono salvati dall’occupazione. La nonviolenza aveva finalmente trovato una via nuova per radicarsi nel mondo arabo, proseguendo la straordinaria esperienza di Abdul Ghaffar Khan, il Gandhi musulmano, capo indiscusso dei pashtun che nel 1929 fondò un esercito nonviolento di centomila Servi di Dio contro il colonialismo britannico. I suoi testi furono tradotti in arabo e diffusi a Gaza dove molti musulmani apprezzavano il fatto che la nonviolenza fosse parte integrante dell’Islam.

Nel 1987 le autorità israeliane accusarono Mubarak Awad, il leader del Centro palestinese per lo studio della nonviolenza, di violare le leggi del paese incitando alla rivolta e organizzando la disobbedienza civile; gli fu intimato di lasciare il paese e venne espulso. Oggi vive negli Stati Uniti e si è rivolto ai leader di Hamas e al governo di Tel Aviv chiedendo loro di «accettare un cessate il fuoco immediato, compresa la cessazione degli attacchi missilistici contro Israele e degli attacchi militari contro Gaza». I semi di nonviolenza che erano stati piantati in Palestina quarant’anni fa, sembrano non essere più in grado di germogliare.

Il pessimismo è condiviso dalla palestinese Nivine Sandouka, direttrice esecutiva della Ong Our Rights di Gerusalemme: «56 anni di occupazione e 15 anni di assedio a Gaza, hanno fatto crescere enormemente la radicalizzazione, e tolto spazio all’umanizzazione: la maggioranza dei giovani guarda a chi dice di difenderli con le armi. Ma l’unica nostra possibilità – prosegue Sandouka-– è dimostrare che solo il dialogo e la pace difenderanno davvero i diritti della Palestina».

Eran Nissan, attivista israeliano per la pace che vive a Jaffa, leader dell’organizzazione progressista Mehazkim, dice che la maggioranza dei suoi concittadini sono consapevoli che la soluzione non potrà essere militare ma politica: «Dopo il 7 ottobre, in Israele i partiti del controllo e dell’apartheid hanno fallito la loro narrazione, ora c’è la possibilità per il partito dell’uguaglianza, che è cresciuto enormemente con grandi manifestazioni maggioritarie, di offrire una via d’uscita, la coesistenza, per una terra che deve essere condivisa tra i due popoli».

La via d’uscita è nelle mani di chi romperà la spirale di odio, rifiutando la logica perversa della guerra. Solo i civili israeliani e palestinesi che sceglieranno la via della nonviolenza, dell’agire comune per la pace, potranno ridare speranza al futuro della regione.

L’organizzazione mista israelo-palestinese The Parents Circle – Families Forum (PCFF), riunisce più di 600 famiglie in lutto che hanno auto vittime nel conflitto; ha pronunciato parole inequivocabili: «I nostri cuori sono spezzati. È un tempo di grande dolore. Il costo della violenza non si conta con i numeri, si conta in sogni frantumati. È il momento per tutte le parti coinvolte di riflettere sull’insensatezza di questo conflitto e riconoscere l’umanità condivisa che ci lega tutti».

Siamo arrivati all’oscenità macabra della solidarietà misurata in numero di morti, come se un cadavere contasse meno di dieci cadaveri. Come se 1400 vittime identificate avessero più dignità di 8000 vittime anonime.

L’unica conta dei morti possibile è la somma per denunciare quante vite spezzate produce il mostro della guerra. I 3018 i bambini morti nei primi giorni di guerra dall’attacco del 7 ottobre, sono di Israele, Gaza, Cisgiordania. Ogni ora crescono. Quei bambini non hanno bandiere, solo un sudario bianco. La guerra è questo: che sia guerra santa per la jihad, o guerra per l’esistenza milchamà, guerra di difesa o guerra di attacco, la catena va spezzata. Non è la lotta del bene contro il male. È odio contro odio. Solo la pace è il bene, per tutti, e la guerra è il male assoluto. Benedetto quel bambino che risponderà all’odio con umanità, che non ucciderà, che ci permetterà di ricominciare la conta dei vivi.

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Le forze israeliane rapiscono l’attivista palestinese Ahed Tamimi

La nota attivista palestinese Ahed Tamimi, questa mattina, è stata in pratica rapita dalle forze di occupazione israeliane a Ramallah, in Cisgiordania, dopo un’irruzione nella sua casa.

Alle forze di occupazione israeliane non è bastata la cattura della ragazza, le hanno distrutto anche la casa, situata nel villaggio di Nabi Saleh, a nord-ovest di Ramallah.

La vicenda di Tamimi e della sua famiglia divenne nota nel 2017 quando fu arrestata. I suoi familiari erano stati già detenuti, torturati e uccisi dall’occupazione.

Era ancora minorenne quando nel 2017 fu imprigionata. Fu liberata dopo otto mesi di carcere, durante i quali compì 17 anni.

In un’intervista a teleSUR nel 2018, Tamimi ricordò: “Gerusalemme è nostra di diritto e non la abbandoneremo così facilmente”.

“La storia è ciò che indica di chi è Gerusalemme, perché noi siamo gli abitanti originari e Gerusalemme era, è e sarà per sempre la capitale della Palestina”, ribadì Tamimi.

Inoltre, precisò un fattore importante: i palestinesi “non sono contro gli ebrei, siamo contro il sionismo. È diverso essere ebrei ed essere sionisti”.

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Muoia Sansone con tutti i palestinesi – Giuseppe Cassini*

Narra la Bibbia (Giudici, 16): «Sansone giunse a Gaza. I Filistei, appena informati del suo arrivo, si accordarono: “All’alba lo uccideremo”. Ma egli afferrò le porte della città e le divelse… Quando infine fu catturato e incatenato, il popolo ringraziò Dio: «Ha messo nelle nostre mani colui che devastava la nostra terra e moltiplicava i nostri morti». Quindi lo incatenarono tra le colonne del tempio davanti al popolo. Ma Sansone si aggrappò alle due colonne centrali gridando: «Che io muoia con i Filistei!». E il tempio crollò. Furono più i Filistei uccisi di quanti egli aveva ucciso in vita». Tutto ciò avvenne a Gaza millenni fa, ma ora si sta ripetendo.

Si dice a ragione che la guerra fa strage della verità. Affinché non succeda stavolta, conviene riepilogare alcuni punti fermi, senza tema di venir accusato di pregiudizi, perché chi ha visitato fin da giovane Mauthausen, Dachau, Auschwitz e lo Yad Vashem resta immune da ogni traccia di antisemitismo.

Il massiccio sbarco di ebrei in Palestina è fenomeno recente. Si fonda su uno slogan coniato nel primo ‘900 dal movimento sionista: «Un popolo senza terra per una terra senza popolo». Uno slogan «fondamentalmente falso» l’ha definito l’insigne musicista Daniel Barenboim, precisando che un secolo fa «la popolazione ebraica in Palestina era solo il 9%». Lo confermano stime attendibili: gli israeliti non erano più di 50.000 e i palestinesi 500.000 circa. Ma ancora nel 1946 si contavano 600.000 israeliti in una terra abitata in prevalenza da palestinesi (molti cristiani). Oggi ebrei e palestinesi sono a parità: poco più di 6 milioni gli uni e gli altri. Non potendo negare la realtà demografica, i governanti israeliani hanno tentato di cancellarla in altro modo. «Non esistono palestinesi, esistono solo arabi» sosteneva Golda Meir nel 1969. E via negando, fino all’attuale ministro delle Finanze, Smotrich, che il 19 marzo a Parigi ha stupito i francesi affermando: «Il popolo palestinese è un’invenzione che ha meno di cent’anni. Hanno forse una storia, una cultura? No. Esistono solo arabi».

Oggi 12 milioni di abitanti convivono nella stessa terra ma fanno sogni diversi. Nel profondo di ogni palestinese si annida la convinzione che prima o poi gli ebrei se ne andranno, come se n’andarono gli ultimi crociati nel 1291. Gli israeliani, invece, sognano di tuffarsi nel Lete per uscirne beneficiati del dono dell’oblio. Questo tentativo di far sparire per magia 6 milioni di palestinesi è stato definito dal quotidiano Haaretz un «memoricidio».

Il 7 ottobre Hamas ha brutalmente trucidato 1400 israeliani; ora Tsahal punta a eliminare almeno 14.000 palestinesi, secondo la regola non scritta dei dieci contro uno. Ma la barbarie di Hamas nello sgozzare bimbi ebrei è sotto gli occhi di tutti; mentre il massacro decuplicato di bimbi palestinesi non viene percepito come altrettanto grave, perché Hamas difetta della potenza mediatica d’Israele. Il che aiuta a spiegare come mai l’Occidente usi due pesi e due misure in questo conflitto. «Il diritto internazionale è carta straccia se implementato selettivamente» ha deplorato il re di Giordania, dopo aver visto il Sud globale affollare le piazze a sostegno di Hamas e dei suoi tagliagole.

Nel frattempo Smotrich, in quanto ministro delle Finanze, deve decidere come coprire le spese del conflitto. Tagliare agli ultraortodossi i sussidi che aveva appena aumentati? Inaccettabile, anche se in genere quelli non lavorano, non servono nell’esercito, non pagano tasse e lanciano sassi a chi capita il sabato di camminare nei loro quartieri (la Bibbia imporrebbe la lapidazione – cfr. Esodo 35, 2 e Numeri 15, 32 – ma ora non si usa più).

I ministri di estrema destra imbarcati da Netanyahu sono propensi ad accaparrarsi l’intera Cisgiordania per diritto biblico; e pazienza se la Corte Penale Internazionale ha condannato gli espropri, gli insediamenti e il muro di 700 km che toglie acqua e terra fertile a chi vive lì da sempre. Di fatto i coloni continuano ad avanzare metro dopo metro, rendendo inattuabile l’ormai ipocrita soluzione dei «due popoli due Stati». Se però lasciamo marcire questa crisi, la erediteranno le nuove generazion – così come per la crisi climatica non gestita da noi a tempo debito. Forse, un’alternativa sarebbe ancora esperibile, a queste condizioni: dimissioni di Netanyahu e del suo governo razzista; liberazione di Marwan Barghouti (il Mandela palestinese in carcere dal 2002); piano per una confederazione israelo-palestinese sui generis; dispiegamento dei “caschi blu” votato dal CdS dell’Onu. Utopie? Forse. Ma chi vive laggiù non ne può più di versare sangue: aspira solo alla requie, alla pace. Nel poema epico dei Maya c’è un brano che potrebbe ispirarli: «Ogni luna, ogni anno, ogni giorno, ogni vento arriva e passa. Anche tutto il sangue giunge al luogo del suo riposo (Toda sangre tanbièn llega al lugar de su quietud)».

* ex ambasciatore in Libano

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Caitlin Johnstone – Stanno sganciando bombe su un campo di concentramento pieno di bambini

Stanno sganciando bombe su un campo di concentramento pieno di bambini.

Non stiamo parlando del passato. Sta avvenendo in questo momento. E lo stanno facendo proprio ora.

Non mostrano segni di cedimento.

Nessuna parte di questa affermazione dovrebbe essere lontanamente controversa: stanno lanciando bombe su un campo di concentramento pieno di bambini.

Persino i “cagasotto” e gli pseudo-sinistri che sbagliano ogni altra questione di politica estera riescono ad azzeccare questa, è così ovvio. Chiunque si sbagli su questo tema può essere definitivamente liquidato senza alcuna perdita reale.

Per quanto si parli del 7 ottobre, resterà il fatto che Israele sta facendo piovere esplosivi militari su un campo di concentramento pieno di bambini e deve urgentemente fermarsi.

Per quanto si parli di quanto Hamas sia malvagio e cattivo, sarà comunque un dato di fatto che Israele sta facendo piovere esplosivi militari su un campo di concentramento pieno di bambini e che deve essere fermato.

Per quanto si possano pronunciare le parole “scudi umani”, sarà comunque un dato di fatto che Israele sta facendo piovere esplosivi militari su un campo di concentramento pieno di bambini, e che deve essere fermato.

Non importa quanto si accusino i critici di Israele di amare i terroristi, sarà comunque un fatto che Israele sta facendo piovere esplosivi militari su un campo di concentramento pieno di bambini, e che deve essere fermato.

Non importa quanto si accusino i critici di Israele di odiare gli ebrei, sarà comunque un dato di fatto che Israele sta facendo piovere esplosivi militari su un campo di concentramento pieno di bambini, e che ha urgente bisogno di fermarsi.

Non importa quante parole si usino o quanti giri di parole si cerchino di mettere in scena o quanti ad hominem si lancino contro le persone che criticano ciò che Israele sta facendo, rimarrà comunque un fatto che Israele sta facendo piovere esplosivi militari su un campo di concentramento pieno di bambini, e che deve essere fermato.

Sì, vado avanti e presumo che le persone che sostengono che sia necessario continuare a sganciare esplosivi militari su un gigantesco campo di concentramento pieno di bambini siano dalla parte che sarà giudicata negativamente dalla storia.

Un’enorme quantità di depravazione occidentale si nasconde dietro l’assunto inespresso che uccidere le persone con le bombe sia in qualche modo meno malvagio che ucciderle con proiettili o lame. Con campagne di bombardamento all’estero senza sosta, l’Occidente ha desensibilizzato il pubblico alla realtà di ciò che le bombe fanno…

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Antisemitismo, atomica, colonialismo, democrazia, due popoli=due stati, fake-news, fondamentalismo, giardini di Gaza, guerra, Hamas, nazifascismo, numeri, Onu, 7 ottobre 2023, sinistra, tabù, terrorismo. Breve dizionario emozionale – Gigi Bettoli

Premessa. Il mondo al tempo della regina degli Hobbit.

Difficile rimanere seri al tempo della regina degli Hobbit, sempiterna occupatrice dei mass media, con la sua corte di saltimbanchi.

Capaci solo di perseguitare i poveri per fare regali ai ricchi, manco avessero sbagliato luogo ed epoca e, invece che nella Contea, abitassero nella Nottingham dello Sceriffo.

A differenza delle antiche teorie dello storico dell’economia Amintore Fanfani, però, il suo regno – della regina, of course – non sembra corrispondere all’equazione: bassi governanti = epoche di sviluppo; governanti longilinei = epoche di crisi.

Ma i tempi sono realmente cupi, e la prima vittima è la verità. Apri la tv, ed i vicini rischiano di vedersela arrivare sul capo. Il Grande Fratello – quello originale di George Orwell 1 – era un’ingenuità al confronto di quello che ci accade oggi.

«Come nelle esposizioni coloniali di inizio Novecento, il dissidente viene mostrato a un pubblico ammaestrato che non può non irriderlo o compiangerlo» 2.

Vae victis per le vittime della caduta del Muro di Berlino. Una speranza di liberazione planetaria ci ha transumato 3 istantaneamente dalla Guerra Fredda alla Terza Guerra Mondiale Globale.

Stavamo meglio prima, inutile nascondercelo.

Antisemitismo

Chiunque si azzardi a sostenere che lo Stato d’Israele commette quotidianamente crimini contro l’umanità è dichiarato antisemita.

Tanto per cominciare, sarebbe una contraddizione in termini, a leggere questa voce dalla Enciclopedia Italiana:

«semìtico agg. [der. di semita, sul modello del ted. semitisch] (pl. m. -ci). – Relativo a un gruppo di lingue (accadico, fenicio, ebraico, aramaico, arabo, etiopico, ecc.), parlate da popolazioni antiche e moderne dell’Asia sud-occidentale e dell’Africa settentrionale, che un passo biblico (Genesi 10, 21-31) fa discendere, per la maggior parte, da Sem figlio di Noè; per estens., relativo ai popoli parlanti tali lingue (assunti talora, con scarso fondamento, come gruppo etnico unitario), alla loro storia, alla loro civiltà: lingue s. (dette anche complessivamente il semitico, s. m.), facenti parte della famiglia linguistica afroasiatica; letteratura, filologia s.; l’antica religione s.; migrazioni di popoli semitici» 4.

Quindi dovrebbe essere antisemita anche chiunque attacchi, verbalmente o peggio ancora materialmente, gli arabi, tra cui sono compresi i palestinesi. Che ciò non accada, è a causa di malafede o di ignoranza?

Atomica

Gli israeliani ne hanno tra le 100 e le 200 nella base di Dimona nel deserto del Negev 5.

Ne hanno sempre negato l’esistenza, fino a ieri, quando un ministro ha dichiarato che potrebbero utilizzarla su Gaza.

Netanyahu l’ha sospeso, credo solo perché ha ammesso l’esistenza dell’arsenale atomico israeliano. Ma così almeno sappiamo con chi abbiamo a che fare, ed il rischio che corriamo a lasciarli fare.

Intanto, il tecnico pacifista Mordechai Vanunu è da decenni incarcerato e perseguitato dal regime israeliano per aver rivelato il mostro celato a Dimona. Lo hanno potuto catturare in Italia: i critici del “lodo Moro”, e della realistica politica di equidistanza tra arabi ed israeliani dei vecchi governi democristiani e socialisti italiani, dovrebbero ricordarsene, invece di sragionare sempre di “piste palestinesi” per il terrorismo di Stato/Nato (fascisti, P2) che ha insanguinato a lungo il nostro paese.

Colonialismo (come smontarlo)

Anni fa, in una serata organizzata a Spilimbergo, lo storico Antonio Moscato dovette sgolarsi a lungo con il pubblico, che protestava perché l’intellettuale definiva Israele come uno stato “colonialista” e non “fascista”.

Ad un certo punto, Moscato esplose in una domanda risolutiva, rivolta ai contestatori: non è forse che voi pensiate che “colonialista” sia qualcosa di meno grave che “fascista”?

E’ così: si confonde il fascismo (= regime politico capitalistico reazionario di massa, secondo le definizioni classiche) con il colonialismo, che è la summa tragica di razzismo, schiavismo, sfruttamento illimitato delle risorse dell’umanità. E “sostituzione etnica” di popolazioni originarie schiavizzate e/o eliminate col genocidio: quella sì, altro che le stupidate dei melonidi.

E Israele è, per l’appunto, una colonia occidentale nel mondo arabo, costruita mascherandola con l’ideologia di stato israeliana della riparazione del genocidio ebraico per mano nazifascista. Sfogando tutte le tensioni create in Europa – che si potevano risolvere altrimenti: per esempio, assegnando come risarcimento agli ebrei sopravvissuti un pezzo di Germania, invece di annetterla a Polonia, Cecoslovacchia ed Unione Sovietica – su una popolazione che nulla aveva a che fare con le vicende europee.

Per far cadere un regime coloniale, come dimostrano tanti esempi (da ultimo il Sudafrica, anch’esso terra di perseguitati protestanti, come lo furono le colonie americane della “Nuova Inghilterra” puritana), basta togliergli la spina. Non armandolo più, e boicottando i prodotti delle sue aziende (ad esempio Teva, l’azienda monopolista di farmaci generici)…

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PERCHE’ IL SIONISMO VIENE DEFINITO COME UN TIPO DI COLONIALISMO – Enrico Semprini

Colonialismo è la definizione che rappresenta in modo corretto le caratteristiche di questo fenomeno politico.

Dire: “i sionisti sono come i nazisti” è errato e non per una sorta di riguardo nei confronti del sionismo. E’ sempre importante comprendere quali siano le caratteristiche di ciò che si vuole combattere. Solo una visione precisa del fenomeno ci aiuta a capire perché i governi dei paesi che hanno una vocazione coloniale, si identificano con questa prospettiva e la difendono.

I governi occidentali riconoscono sé stessi nel colonialismo sionista, lo armano e lo giustificano: questo vale anche per l’attuale governo italiano e ne esamineremo le ragioni.

 

Partiamo, però, dagli Stati Uniti d’America.

 

Chi non è più giovane ricorda di aver passato l’infanzia televisiva guardando film (di propaganda U.S.A.) che illustravano la “conquista del West”, come grande atto di civilizzazione. Si vedevano queste carovane di bravi agricoltori indifesi con famiglia, che venivano attaccati da perfidi indiani desiderosi solo di massacrare i coloni per motivi misteriosi o, meglio, per una innata cattiveria e crudeltà. Si magnificava Buffalo Bill che massacrava intere mandrie di bufali, rei di devastare le coltivazioni e dunque meritevoli di estinzione, nella realtà beni primari per la vita delle popolazioni native. I cattivi venivano sempre ammazzati per le strade da coraggiosi sceriffi che impugnavano velocemente la colt e tutti giravano allegramente con le pistole attaccate al cinturone.

Nel frattempo eravamo orgogliosi di bere CocaCola e masticare cevingum (così dicevamo italianizzando il termine), interiorizzavamo quanto fosse stato bello realizzare il più grande genocidio della storia.

A scuola imparavamo quanto fosse stata fondamentale la scoperta dell’America per lo sviluppo del mondo e ringraziavamo Cristoforo Colombo, orgoglio italiano, di aver portato gli europei fin laggiù.

Nessuno ci aveva mai detto che l’arrivo degli europei in territorio americano aveva prodotto la morte di oltre 100 milioni tra donne e uomini di ogni età che là vivevano senza alcuna necessità del dominio di qualche paese europeo.

Nessuno ci raccontava che nel 1830 il Congresso approvò l’Indian Removal Act (Legge sulla rimozione degli indiani), che consentiva di deportare con la forza i nativi che vivevano nelle aree abitate dagli europei. Man mano che l’espansione degli Stati Uniti proseguiva, la porzione di territorio a disposizione degli indigeni diventava sempre più piccola, fino al punto che i colonizzatori occuparono l’intero Paese e confinarono i nativi in apposite riserve.

 

Non è un caso che alcuni osservatori politici abbiano fatto paralleli tra la colonizzazione nord- Americana e quella Israeliana. Infatti Israele non si è mai dato una costituzione ed ha in comune con l’esperienza statunitense originaria la mancanza di una frontiera definita, perché continuamente fluttuante nel tempo e nello spazio. Per questo ci si arroga la libertà di cacciare continuamente la popolazione indigena dai suoi territori e dalle sue abitazione (basta guardare la cartina che segue).

E’ per questa ragione che il governo israeliano sta tentando di occupare la striscia di Gaza, creando l’ennesimo stato di fatto attraverso l’annessione di nuovo territorio nonché l’esodo forzato, la nuova Nakba palestinese (che tradotto significa “catastrofe”) di cui si sente parlare in questi giorni attraverso la scusa di “estirpare Hamas”.

Veniamo al nostro paese.

A scuola ci parlavano delle angherie che gli italiani subivano dalla dominazione austriaca e veniva magnificata l’abile spedizione dei 1000 garibaldini che unificarono l’Italia sotto il regno di Sardegna; tuttavia nessuno ci diceva che, fin dai primi anni dopo l’unificazione, le mire espansioniste italiane si diressero verso il nord Africa e che il nostro paese partecipò con un contingente alla repressione della rivolta dei Boxer in Cina, come parte di un sodalizio chiamato “alleanza delle otto nazioni”.

 

Tuttavia per capire perché ci sono degli uomini di governo israeliani che si definiscono “fascisti” bisogna indagarne le ragioni e lo si capisce solo cercando di farsi una idea delle caratteristiche del colonialismo italiano durante l’epoca fascista.

 

La conquista delle colonie da parte italiana per mano fascista, si caratterizzava per una pratica di repressione brutale: il Viceré dell’Etiopia, poi governatore in Libia, Rodolfo Graziani, subì durante una cerimonia pubblica, il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba, un attentato dinamitardo al quale scampò per un soffio. Per questo Graziani ordinò una durissima rappresaglia. Per tre giorni gli occupanti massacrarono uomini, donne, vecchi e bambini. Fecero tra i 4mila e i 6mila morti.

Migliaia di capanne furono date alle fiamme, i fuggiaschi falciati a colpi di bombe.

 

“STERMINIO PROGRAMMATO. Il “pogrom” fu l’inizio di una sistematica campagna di sterminio dell’intera nobiltà di etnia amhara e degli intellettuali etiopi. Con il pretesto di prendere i cospiratori e impedire futuri complotti, Graziani fece passare per le armi centinaia di cadetti militari, sospetti ribelli. E persino indovini, cantastorie, stregoni ed eremiti, colpevoli a suo dire di diffondere notizie false sulla dominazione italiana.

Si dedicò poi a far piazza pulita del clero copto. Affidò il compito al generale Pietro Maletti che, in due settimane del maggio 1937, incendiò 115mila capanne, tre chiese e un convento e fucilò circa 3mila tra monaci e ribelli. Il “gran finale” arrivò nella città di Debra Libanos. Convinti, sulla base di fragili indizi, che gli abitanti della città- monastero fossero complici degli attentatori di Addis

 

Abeba, gli uomini di Maletti fucilarono l’intera comunità, oltre 2mila persone. In totale, la rappresaglia di Graziani fece 30mila vittime.

 

Nel villaggio di Enda Selassie fu uno scempio: «Presero donne e bambini, li stiparono in una chiesa e appiccarono il fuoco».

 

RASTRELLAMENTI. Nel 1939 partì invece una massiccia campagna di rastrellamenti nella regione dell’Alto Scioa, che culminò con l’uso delle armi chimiche. A Zeret un folto gruppo di civili, tra cui feriti e parenti di guerriglieri, s’era rifugiato in una grotta. Furono bombardati con l’iprite, fucilati o infoibati: le vittime furono oltre 1.500.

  

 (La vignetta utilizzata nell’articolo risale all’epoca coloniale)

 

Mussolini, fin dalle direttive del 31 dicembre 1934 indirizzate al Capo di Stato Maggiore Badoglio, aveva previsto in modo esplicito l’uso dei gas, scrivendo a proposito della necessità di raggiungere la «superiorità assoluta di artiglierie di gas».

Questo in spregio alla convenzione di Ginevra del 1925 che le bandiva dall’utilizzo in guerra (dopo la traumatica esperienza del primo conflitto mondiale) e che era stata sottoscritta pure dalla stessa Italia fascista.

L’eliminazione dell’aristocrazia e dell’intellighentia locali fu completata con la deportazione di 400 notabili in Italia e la segregazione nei lager di Nocra, in Eritrea, e Danane, in Somalia.

 

IL GENOCIDIO DEI SENUSSITI. Nel capitolo genocidi, il crimine peggiore fu commesso in Libia ai danni della comunità senussita, rea di appoggiare il capo della guerriglia locale: Omar al- Mukhtar. L’intero altopiano della Cirenaica (Gebel e Marmarica) venne evacuato nel 1930 per ordine di Graziani. Metà della popolazione della Cirenaica, 100mila libici, fù deportata in vari lager, dove il 40% degli internati non sopravvisse. Esecuzioni pubbliche e fosse comuni erano all’ordine del giorno.

 

FRONTIERE SIGILLATE. Non contento Graziani, in Libia, fece alzare un reticolato di 270 km per sigillare la frontiera con l’Egitto. Spesa: 20 milioni di lire dell’epoca (oltre 15 milioni di euro attuali). E l’ennesima prova che il nostro colonialismo, in quanto a stile governativo, era in linea con le altre potenze e non cercò mai la via del dialogo. Fino al 1935 eritrei, somali e libici non godettero di diritti.ESPROPRI E RAZZIE. Nell’epoca del governatore Italo Balbo (1934-1940), quando in Libia vennero chiusi i lager, i nomadi furono cacciati e le loro terre furono assegnate ai coloni italiani per favorirne l’incremento demografico. «Un colossale furto, uno dei più palesi e odiosi che siano mai stati compiuti in Africa», ha sentenziato lo storico Angelo Del Boca.

Senza contare le razzie in Cirenaica: 95% degli ovini e 80% di dromedari e cavalli confiscati o uccisi. Certo non sarebbe corretto ricordare solo brutalità e abusi: qualcosa di buono fu fatto e ancora rimane. Si potrebbe tuttavia insinuare maliziosamente, come fa Salerno nella sua testimonianza, che agli italiani non convenisse, in fondo, pacificare quei domini. La fine dello stato di belligeranza avrebbe infatti significato la perdita di promozioni sul campo, medaglie e, soprattutto, di indennità di guerra. «Non si trattava di cifre irrisorie. Ogni mese, 900 lire di paga maggiorata», ha ricordato Salerno. Un conto era la retorica di regime; un altro gli interessi personali di tanti italiani.”

 

In questo stralcio vediamo in effetti tutto il programma del sionismo: è molto chiaro che ci sono persone che per interessi personali non hanno avuto e non hanno nessuna volontà di trovare la via della pace, perché interi flussi di denaro andrebbero in fumo e l’economia israeliana dovrebbe “fare da sé”. Teniamo conto che l’Ispi[1] diceva a maggio: “ Tuttavia anche la Banca centrale è convinta che se passeranno le riforme sulla giustizia, Israele perderà 13,7 miliardi di dollari l’anno per i prossimi tre anni: solo per cominciare. I cambiamenti legislativi e istituzionali “saranno accompagnati da un aumento del premio di rischio paese, un impatto negativo sull’export, un declino degli investimenti interni e della domanda nei consumi”.

 

Oltre alle contingenze economiche è sempre necessario chiarire che la caratteristica peculiare e necessaria del colonialismo è il razzismo.

Nell’ottocento le potenze coloniali occidentali si erano date un vero e proprio codice internazionale che glorificava le magnificenze del colonialismo.

 

Il problema della giustificazione morale e politica dell’espansione coloniale europea negli altri continenti ha accompagnato, senza trovare una definizione univoca e unanime, le vicende del fenomeno fin dal suo inizio (15° sec.). I teorici dell’espansione coloniale hanno sostenuto a lungo il tema del compito degli Europei di recare la civiltà agli altri popoli, ma non sono mancate, specialmente a partire dal 18° sec., posizioni critiche nei riguardi dell’attività coloniale, basata sull’esclusivo interesse allo sfruttamento economico dei possessi.

 

Anche le guerre di questi ultimi decenni sono sempre fatte per “recare la civiltà agli altri popoli” o per reprimere le altrui cattiverie.

 

Da questo punto di vista colpisce l’effetto di un reportage di una giornalista italiana durante la trasmissione “Propaganda Live”. Il reportage presentato da Francesca Mannocchi mostra la risposta di un bambino palestinese che, alla domanda “cosa vuoi fare da grande?”, risponde “combattere” mentre l’intervistatrice spiega al bambino che invece suo figlio di 7 anni vorrebbe fare il cantante. La cosa che ha lasciato attoniti è stato il dibattito in studio che ne è seguito, perché un giornalista, Paolo Celata, nel suo intervento successivo, ha messo in relazione la frase del bambino con quanto dichiarato da un sopravvissuto israeliano all’attacco del 7 ottobre: “quando penso a loro, ai loro bambini piccoli, penso che sono quelli che cresceranno e uccideranno i miei nipoti”.Ciò che fa accapponare la pelle è che nella dichiarazione del bambino palestinese messa in relazione con la frase dell’israeliano, sembra quasi di leggere un destino ineluttabile, un danno biologico irreversibile che sembra portare a giustificare il genocidio della popolazione in atto.

Nella trasmissione, infatti, non c’è stata nessuna riflessione chiara che dicesse che la via di uscita per quel bambino consisterebbe nel poter avere una alternativa che al momento non c’è, perché non esiste la possibilità di diventare un cantante nelle condizioni di distruzione che vengono rappresentate nel reportage.

Tuttavia quel bambino stava esprimendo una posizione umanamente comprensibile: esprimeva la volontà di lottare contro la devastazione e la morte che colpivano ogni giorno, da quando era nato, la sua esperienza di vita distruggendo i suoi affetti; non esprimeva “un astratto” desiderio di morte, ma un concreto desiderio di ribellione che non può che essere condiviso e compreso.

 

Mi viene in mente una frase che disse il padrone di una azienda nel momento in cui si concluse uno sciopero in vista di una trattativa: “dovete essere contenti di quelle che vi sembrano dubbie promesse di disponibilità al dialogo, perché comunque, oggi, ci avete fatto un gran danno, dovete essere soddisfatti!”. Eravamo di fronte proprio alla idiozia di chi non vuole capire: in uno sciopero non c’è nessuna soddisfazione nel fatto di aver creato un grande o un piccolo danno.

L’unica soddisfazione possibile la si vive quando si ottiene un risultato che rende più dignitosa la condizione di chi si trova ad essere protagonista della schiavitù salariata, cioè quando lo sciopero risolve un problema e crea una prospettiva.

 

Tuttavia c’è da credere che in cuor suo il nostro interlocutore avrebbe preferito una soluzione che prevedesse il nostro annientamento attraverso lo stillicidio degli incontri inconcludenti, piuttosto che ammettere l’ammissione della realtà ossia la condizione schifosa in cui aveva lasciato per anni i suoi dipendenti sfruttandoli. Allo stesso modo in cui un sionista non vuole ammettere che la brutalità della ribellione è l’effetto di una persecuzione coloniale che si perpetua da decenni.

 

Come i sionisti, cioè i colonialisti, quel padrone fa parte di una schiera di esseri umani che deve imporre civiltà a noi esseri che civili non siamo e, chiaramente, neppure umani: la speranza di entrambi è che, in breve o medio tempo, noi come palestinesi o noi come sindacalisti scompariamo dalla faccia della terra!

 

La resistenza è necessaria!

 

 

Con il popolo palestinese, non con Hamas – Somayeh Haghnegahdar

L’ambizione sfrenata per il potere, la sete di potere, l’estremismo e la mentalità del “tutto o niente” spianano la strada al disastro. La guerra non è mai bella, perché il suo esito comporta sempre morte e distruzione. Nel frattempo, noi persone comuni con aspirazioni umane lottiamo e diventiamo vittime di massa.

Purtroppo, come la storia ci ha dimostrato più volte, le guerre hanno un impatto devastante sui civili innocenti. Le famiglie vengono distrutte, le case distrutte e i futuri distrutti. Sono le persone comuni a sopportare il peso della violenza, mentre gli istigatori della guerra se ne stanno seduti a guardare da lontano.

Non si può negare che Israele abbia occupato la Palestina ed è anche importante riconoscere che Hamas ha compiuto un attacco terroristico il 7 ottobre 2023. Questi eventi hanno avuto un profondo impatto sulla regione ed è fondamentale comprendere le complessità che li circondano.
Quando consideriamo l’occupazione della Palestina da parte di Israele, dobbiamo riconoscere le profonde radici storiche e culturali di questo conflitto. Entrambe le parti hanno valide rivendicazioni sul territorio e trovare una soluzione che soddisfi tutti è un compito arduo.

Il punto di partenza della nostra protesta contro la guerra tra Hamas e Israele avrebbe dovuto essere il 7 ottobre, con l’uccisione e la presa di ostaggi di israeliani da parte di Hamas.

Hamas non è un movimento sociale di protesta, ma piuttosto un’organizzazione islamica estremista che deve la sua formazione e la sua esistenza al sostegno della Repubblica Islamica. È importante capire che Hamas non è semplicemente un gruppo di individui disaffezionati in cerca di cambiamento, ma piuttosto un gruppo altamente organizzato e ben finanziato con un’agenda specifica. La Repubblica Islamica ha svolto un ruolo fondamentale nel permettere ad Hamas di crescere e prosperare, fornendo supporto finanziario, ideologico e logistico. A differenza di altri gruppi che utilizzano proteste pacifiche per esprimere le proprie rimostranze, Hamas ha una lunga storia di utilizzo del terrorismo per raggiungere i propri obiettivi. Pertanto, è fondamentale riconoscere che Hamas non è solo un gruppo politico, ma un’organizzazione pericolosa che rappresenta una minaccia significativa per la stabilità della regione.

Il dominio di questa forza non porterà mai democrazia, libertà e indipendenza al popolo palestinese. Basta guardare all’esperienza dell’Iran dopo la Repubblica Islamica e del popolo afghano salito al potere con i talebani. La storia ci ha dimostrato che l’aggressione e la coercizione non fanno altro che alimentare il risentimento e perpetuare cicli di violenza.

Il nostro popolo in lutto in Iran, che ha vissuto l’esperienza di essere dominato da un governo ideologico estremista religioso estremamente reazionario e ne è ancora ostaggio, non può identificarsi con Hamas o Hezbollah in Libano perché ha vissuto le conseguenze della loro presa di potere per quattro decenni. Nel corso della nostra storia, abbiamo visto che le forze islamiche hanno ripetutamente fallito nel promuovere i valori di indipendenza, libertà e democrazia. Le loro tendenze naturali le portano sempre a lottare per il potere, cercando di dominare e imporre la propria ideologia alla società. Questo è stato un modello costante nei loro confronti con le potenze dominanti ed è evidente che non hanno la capacità di creare una società giusta ed equa.

Sebbene sia vero che non sosteniamo l’uso di persone innocenti come scudi umani, non possiamo rimanere indifferenti alla loro morte. Piangiamo la perdita di ogni vita umana, sia israeliana che palestinese. Tuttavia, abbiamo giurato solennemente di non diventare uno strumento del governo islamico e degli islamisti della regione, né di contribuire alla catastrofica miseria del popolo palestinese sotto il controllo di Hamas.

Come movimento “Donne, Vita, Libertà”, siamo la voce di coloro che in Medio Oriente credono nei diritti delle donne, nella democrazia e nella libertà. Siamo determinati a sostenere questi valori e non siamo più disposti a sacrificare questi diritti e valori. La guerra deve finire.

Bisogna fermare le uccisioni, ma non staremo mai al fianco di Hamas, ad ogni costo, perché coloro che oggi nella Repubblica Islamica piangono lacrime di coccodrillo per i bambini della Palestina a Gaza, esattamente sono coloro che costruiscono e sostengono Hamas, e sono gli assassini dei nostri figli in Iran e loro figli in Palestina e degli assassini delle generazioni future.

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

Un commento

  • Domenico Stimolo

    I bimbi palestinesi….e la piccola bimba inglese.

    Mentre decine di migliaia di bambini palestinesi di Gaza vengono uccisi, smembrati, martoriati, mutilati, nelle parti principali del corpo, senza nome e volto, la retorica dell’ estrema destra italiana costruisce a ” tavolino” una vicenda ” strappalacrime” di bimba, nata purtroppo con gravissime deficienze, nelle lontane terre britanniche.
    Casi drammatici presenti in tutti i paesi europei e della NON Gaia Terra. Ciascun Stato ha le proprie leggi comportamentali .
    E, ripescando la retorica della “perfida Albione – l’ Inghilterra fu così chiamata dal dittatore Mussolini poiche’ promotrice delle sanzioni contro l’ Italia per la guerra fascista dichiarata e fatta contro il popolo dell’ Etiopia – , la notizia della bimba inglese e’ stata fatta diventare evento di prima pagina.
    …..Nel frattempo i bimbi palestinesi sono dilaniati a decine di migliaia dalle bombe assassine del governo di estrema destra di Istraele.
    ……e questa enorme tragedia ormai e’ finita in seconda, terza o quarta pagina .
    ( d.s.)

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