Sanità pubblica sempre più alla deriva

articoli di Ivan Cavicchi,  Paolo Russo e Mariano Rampini. A seguire una sintesi del “Rapporto Fnomceo-Censis” sul valore economico e sociale del Servizio sanitario italiano 

Al movimento sulla sanità arrivano solo le mancette del governo – Ivan Cavicchi

Sono molto colpito da una contraddizione: sulla sanità, come opposizione. Contro il governo di destra, abbiamo costruito un fronte sociale e politico vasto che non ha precedenti, al punto di fare della sanità, forse per la prima volta, una questione davvero strategica.
Ma nonostante questo vasto schieramento, reso compatto da un comune e fin troppo facile obiettivo prioritario, quello di rifinanziare la sanità pubblica, i risultati sono oggettivamente asimmetrici scarsi e risibili. Così dobbiamo ammetterlo: la nostra battaglia sul rifinanziamento della sanità, almeno per il momento, l’abbiamo persa.
I DATI SONO IMBARAZZANTI: pochi soldi per i servizi, neanche i soldi sufficienti per coprire i costi dell’inflazione, confermato un definanziamento programmato negli anni a venire, una privatizzazione in continua crescita e in aggiunta una grande beffa a danno del lavoro e degli operatori i quali, da una parte prendono con la finanziaria la maggior parte degli spiccioli, per rinnovare i contratti, e dall’altra si vedono tagliare retroattivamente le pensioni quindi i diritti acquisiti.
Vorrei quindi che ragionassimo sul perché, noi così giusti forti e agguerriti, abbiamo perso questa importante battaglia.
Sun Tzu l’autore cinese de L’arte della guerra, direbbe che pur con un esercito agguerrito e motivato, abbiamo perso perché probabilmente, a causa dei nostri limiti strategici, non potevamo in nessun modo vincere.
IL PRIMO LIMITE è stato quello di non aver organizzato la nostra battaglia sul rifinanziamento della sanità per mezzo di una “piattaforma” cioè in pratica siamo andati all’arrembaggio del governo ma senza una strategia. Rifinanziare la sanità non è solo una questione finanziaria come sembra ma che necessita che si costruiscano tutte le condizioni e i processi necessari utili a produrre le risorse necessarie prima di tutto usando con intelligenza la carta della riforma della spesa storica. Ma non l’abbiamo fatto.
Il secondo limite è stato quello di non aver contestato al governo la sua idea sbagliata di sostenibilità sulla base della quale esso si sente autorizzato a non finanziarci. E quindi di non aver proposto un’altra idea di sostenibilità quella basata sulla produzione di salute come ricchezza economica. L’art 32 cioè il diritto alla salute se liberato dalle compatibilità neoliberiste può produrre ricchezza e ridurre il costo della cura. Ma per fare ciò bisogna ripensare parecchie cose a partire dal comparto della prevenzione In questo caso si che avremmo messo in crisi per davvero il governo Meloni. Ma la parola sostenibilità non è mai stata pronunciata.
Il terzo limite è pratico e pragmatico e si aggancia al precedente: alla fine abbiamo di fatto chiesto al governo, di dare alla sanità un mucchio di soldi e quindi di adottare una politica finanziaria incompatibile nonostante la crisi economica.
Quindi di tirare fuori, un mucchio di soldi sull’unghia fino a chiedergli , la parificazione della spesa sanitaria italiana alla media europea (40 mld), e il vincolo del 7.5% della spesa sanitaria in rapporto al pil.
Neanche Keynes nelle circostanze date avrebbe osato tanto.
IL GOVERNO HA RISPOSTO picche incassando l’approvazione dell’Europa e come risposta ci ha dato una mancetta (3 mld) perché la mancetta è la sua idea di sostenibilità e perché la mancetta negli anni è diventata un metodo che noi però anche con le piazze piene non abbiamo mai contestato come tale.
Il quarto limite è che nonostante le terribili contraddizioni che ha la sanità abbiamo chiesto al governo di rifinanziarla nella sua più totale invarianza cioè di rifinanziare tutto il carrozzone, privato compreso, quindi di rifinanziare le sue diseconomie le sue contraddizioni e le sue criticità
Con questi chiari di luna Sun Tzu direbbe che dato il contesto di crisi, non avremmo in nessun modo potuto vincere la battaglia perché con la propaganda le battaglie non si vincono .
COSÌ ABBIAMO MANCATO l’obiettivo. Questo non per la sinistra ma per milioni di persone ormai sempre più senza diritti è una cosa gravissima
Se ha ragione Sun Tzu avremmo potuto vincere ma per vincere avremmo dovuto fare un altro genere di battaglia. Ma non l’abbiamo fatto.
La Meloni mentre distrugge la sanità pubblica a parte l’approvazione delle agenzie di rating a sentire i sondaggi non perde voti. Questo vuol dire che la nostra battaglia sulla sanità non è servita a niente. Se è così questa sarebbe la nostra vera sconfitta politica
Per alcuni, compreso noi, era scontato che sulla sanità noi avremmo perso la battaglia. Ma chiediamoci onestamente, avremmo potuto vincere? Potremmo mai vincere battaglie tanto complesse e difficili come quella della sanità senza una vera strategia senza un pensiero ma soprattutto senza un onesto pensiero riformatore?

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Sanità, l’ultimo business dei privati. In appalto anche le sale operatorie – Paolo Russo

«Ho l’assicurazione ma se dovessi operarmi andrei nel pubblico, mi dà più sicurezza». È un ragionamento che fanno in molti, soprattutto quando si tratta di un intervento serio, magari al cuore o per la rimozione di un tumore. Ma pochi, o forse nessuno, sanno della nuova tendenza dilagante nella sanità, quella di affidare la gestione delle sale operatorie dei nostri ospedali ai privati. Per carenza di personale, è il ritornello di Regioni e amministratori quando si tratta di giustificare il passaggio di consegne. Salvo poi scoprire che l’appalto dei blocchi operatori costa molto più di quanto si spenderebbe decidendosi finalmente ad assumere il personale che manca. O anche a riorganizzare una rete di sale operatorie, che una recente ricognizione condotta dal ministero della Salute ha scoperto nella metà dei casi lavorare in media al ritmo blando di appena un intervento al giorno. Tanto che sono tantissimi gli ospedali che operano sotto i livelli standard di sicurezza, proprio perché fanno troppi pochi interventi per acquisire sufficiente esperienza e dimestichezza.

Ma oramai è così, la privatizzazione strisciante non risparmia più nemmeno il tempio sacro dei nostri ospedali: le sale operatorie.

L’ultimo ad averle appaltate ai privati è il Policlinico di Tor Vergata, quello dell’omonima università romana di cui era rettore il nostro ministro della Salute, Orazio Schillaci, prima di conquistare il suo scranno nel governo Meloni. Nonostante il buco da 100 milioni che rende rosso fuoco il bilancio del Policlinico, il suo direttore generale, Giuseppe Quintavalle, ha appena informato la Regione Lazio di aver dato il via libera alla proposta di Althea Italia, azienda leader nella gestione integrata delle tecnologie biomediche, per la ristrutturazione, l’allestimento e la gestione integrata dei blocchi A e B, oltre che della terapia intensiva e del day surgey. Che comprende anche la gestione delle sale, il servizio di telemedicina, l’assistenza domiciliare e la manutenzione delle apparecchiature. Un pacchetto completo, insomma. La scelta è stata giustificata specificando che il contratto di partenariato pubblico-privato costituisce «uno strumento determinante per la pubblica amministrazione», mediante il quale realizzare obiettivi strategici grazie a una serie di incentivi. In altre parole un affare. Per chi lo sia veramente è facile intuirlo dopo aver ascoltato le parole di Marco Scatizzi, presidente dell’Acoi, l’Associazione dei chirurghi ospedalieri italiani: «Sicuramente il costo degli appalti è nettamente superiore a quello del personale che bisognerebbe assumere per far gestire al pubblico, in massima sicurezza, le sale operatorie dei suoi ospedali. Invece stanno dilagando da Nord a Sud contratti di servizio con società private, che a volte riguardano solo la strumentazione, a volte anche gli anestesisti, gli infermieri di sala e persino i chirurghi». In pratica, sottolinea il loro rappresentante, «un sistema simile a quello dell’appalto ai gettonisti ma più in grande». Solo che così i costi finiscono nel capitolo «beni e servizi» dei bilanci di Asl e ospedali, da anni in crescita esponenziale proprio a causa degli appalti ai privati di vario genere. Un escamotage costoso, che viene utilizzato dai direttori generali delle aziende sanitarie per non sforare l’anacronistico tetto di spesa per il personale, ancorato per legge ai livelli del lontano 2004, in più diminuiti dell’1,4%. Un ostacolo che né questo né i precedenti governi si sono mai decisi a rimuovere. Fatto è che la privatizzazione delle sale operatorie prosegue sotto traccia.

Negli ospedali pubblici di Urbino e Pergola tempo fa è partita una procedura d’appalto triennale per la gestione di una serie di servizi, tra cui il pronto soccorso, i punti nascita e l’assistenza medica di anestesia presso il blocco operatorio. «Si tratta di una commistione pubblico-privato nella quale non risulta chiara la catena di comando», denuncia la Cgil Marche. E parlando di interventi chirurgici non è cosa da poco. Anche se l’assessore regionale marchigiano alla Sanità, Filippo Saltamartini, smentisce che si tratti di «privatizzazione dei reparti», definendola invece «acquisto di prestazioni mediche». Cavilli lessicali che non cambiano troppo la sostanza delle cose.

Agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria la ristrutturazione delle sale operatorie e è stata affidata alla Ngc, alla quale viene assegnata anche la loro gestione logistica e di approvvigionamento. La stessa società in Sicilia, al Policlinico Paolo Giaccone di Palermo, anni fa si è accaparrata un appalto di 27 milioni di euro nei cosiddetti «global service», poi rescisso per alcune inadempienze sulle quali ha indagato la Procura del capoluogo. Ma per capire quanto il fenomeno sia dilagante basta dire che la stessa Ngc vanta circa 90 nosocomi sotto contratto.

«L’ospedale di Voghera è al 70% in gestione ai privati», rivela il professor Scatizzi, secondo il quale questo processo di affidamento in appalto «è in forte accelerazione e si sta diffondendo a macchia di leopardo un po’ in tutta Italia».

Colpa dei vuoti in pianta organica. Ma anche della cattiva gestione di quel che abbiamo nel pubblico. Recentemente l’Agenas, l’agenzia pubblica per i servizi sanitari regionali, ha presentato il nuovo Piano esiti dei nostri ospedali, dove a causa dello spezzatino che si fa delle sale operatorie, in molti casi non si raggiunge la soglia di sicurezza in termini di interventi eseguiti in corso d’anno. Per il by-pass coronarico ad esempio solo il 24% delle strutture supera la soglia di sicurezza dei 200 interventi l’anno. E il dato è anche in netto peggioramento. Per la frattura al femore un ospedale su quattro fa così pochi interventi da mettere a rischio la gamba dei propri pazienti, mentre il 23% delle strutture è sotto gli standard per il tumore alla mammella e 163 ospedali non arrivano a fare 10 interventi l’anno di rimozione del tumore al fegato, considerati una soglia minima.

Storture di una organizzazione pensata per far fregare le mani ai privati. Anche a discapito della sicurezza degli assistiti.

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Sanità pubblica senza valore? Ma chi l’ha detto?

di Mariano Rampini

Torno ancora una volta a bazzicare il mondo stupefacente dei numeri. E lo faccio, con il poco sapere che mi è concesso, segnalando i risultati di un’indagine condotta a quattro mani tra la Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo: la dizione esatta sarebbe «medici chirurghi e odontoiatri») e la Fondazione Censis, istituto di ricerche presieduto da Giuseppe De Rita, che da sempre dedica una particolare attenzione ai temi della sanità in generale.

Ebbene questa volta i numeri arrivano in soccorso del tanto vituperato SSN (Servizio Sanitario Nazionale). Lo fanno sfatando una “visione” dello stesso Ssn considerato troppo a lungo dalle forze politiche come un settore della cosa pubblica tra i meno “produttivi” e quindi non meritevole di incentivazioni di spesa tali da rilanciarne l’attività. Come dire: la sanità assorbe solo denari e non ne restituisce, quindi gli stanziamenti a suo favore vanno contingentati.

Vero? Nient’affatto. E il Censis, per dimostrarlo ha effettuato ₋ come si legge nella lunga e dettagliata sintesi che provvedo ad allegare sotto questo articolo ₋ una «quantificazione dell’impatto della spesa sanitaria pubblica sul valore della produzione ricorrendo a un modello di valutazione fondato sull’analisi delle interdipendenze settoriali, le tavole input-output di Leontief, determinando il valore economico creato per ciascun euro di spesa pubblica investito nel servizio sanitario».

Lungi da me l’idea di entrare nel merito dei calcoli effettuati dai ricercatori Censis, mi ci perderei. Però qualche risultato è possibile sottolinearlo. A cominciare dalla considerazione del Ssn non come elemento a sé stante, bensì come parte integrante dell’intero sistema economico. Attraverso l’azione di coloro che operano al suo interno ma anche e soprattutto al suo esterno, «si promuove la generazione aggiuntiva di beni e servizi» e l’attività di tutti questi soggetti finisce col creare, direttamente e indirettamente, un valore economico.

Per definire quale sia questo impatto, il Censis ha preso le mosse dalla spesa sanitaria pubblica del 2022, pari a qualcosa di più di 131 miliardi di euro (il 6,7% del Pil). Partendo da questa cifra e ricomprendendovi «il valore della produzione interna diretta, indiretta e l’indotto a essa ascrivibile», si arriva a un totale di 242 miliardi di euro.

Si tratta di una cifra che non rimane confinata all’interno del solo sistema sanitario ma produce effetti anche su tutti i settori direttamente coinvolti e poi a quelli «limitrofi» allargandosi anche a quelli più distanti. Insomma viene a generarsi un circuito economicamente virtuoso che alla fine della fiera fa sì che per ogni euro di spesa pubblica investito nel Ssn, si generi un valore della produzione correlata non molto lontano dal doppio. E va considerato anche il valore aggiunto complessivo che il Censis stima vicino ai 127 miliardi di euro (un’altra bella fetta di Pil).

Insomma, esaminando a fondo la capacità di produrre reddito dell’intero sistema sanitario, si scopre che questo non è più solo e soltanto un costo a carico della collettività ma diventa un investimento. Questo avviene grazie a un complesso insieme di fattori tra i quali anche quelli derivanti dagli effetti che interessano i sistemi fiscale e contributivo. Si tratta di ben 50 miliardi di euro suddivisi tra 28 miliardi di imposte dirette e indirette e circa 22 miliardi di contributi sociali dei lavoratori dipendenti.

I dati sui quali la Fondazione Censis ha sviluppato la sua ricerca sono un’infinità, troppi per essere riportati tutti in queste righe. Ce n’è uno però che ha di per sé un’importanza non indifferente perché dimostra come l’impatto sull’ economia generale e sull’occupazione rendono auspicabile un incremento della spesa sanitaria pubblica. Il nostro Paese infatti deve fronteggiare una situazione che sconfina nell’emergenza ma di cui si parla troppo poco: l’aumento del fabbisogno sanitario correlato all’invecchiamento della popolazione che rende necessario un forte miglioramento dell’assistenza.

Un ulteriore elemento da tenere in considerazione per incrementare i finanziamenti pubblici alla sanità viene poi dal confronto con quanto accade in Paesi come Francia e Germania dove la spesa sanitaria pubblica rispetto al Pil è più alta e non di poco.

In Italia, nel 2022, la spesa pro-capite per la sanità è stata di 2.226 euro; in Francia, nello stesso anno e a parità di potere di acquisto, è stata di 3.793 euro. In Germania si è arrivati invece a spendere 4.702 euro, sempre pro-capite.

Ipotizzando un balzo in avanti della nostra spesa sanitaria (con buona pace dei governi passati e presenti, con la speranza che quelli a venire tengano debito conto di questi dati) che la porti allo stesso livello di quella francese, si avrebbe un suo aumento complessivo di circa 89 miliardi (10,9 del Pil). Effetto benefico? Un incremento degli occupati (più lavoro, insomma) nella generalità delle attività dirette, indirette e in quelle dell’indotto di 1,5 milioni di unità.

Qualora invece la scelta punti a portare il finanziamento sanitario allo stesso livello di quello tedesco, gli effetti benefici sull’intero sistema economico sarebbero ancor più eclatanti: ci sarebbero 2,5 milioni di occupati in più rispetto all’attuale. Con tutto quel che ne deriva per l’intera popolazione non solo in termini di salute ma di benessere complessivo.

UNA REALTA’ AMARA

Nonostante tutto però queste indicazioni sembrano lasciare indifferenti i nostri governanti (oggi più che mai … ma anche ieri, ahimè). Il piano di stanziamenti previsto dalla manovra economica dell’attuale governo, infatti, punta a ridurre le liste di attesa ₋ cioè uno dei punti più dolenti della nostra assistenza sanitaria pubblica ₋ con una maggior dotazione di 280 milioni di euro annui fino al 2026. Sono soldi che saranno destinati solo a incentivare lo straordinario degli operatori. Per eliminare le attese si sceglie di far lavorare di più chi è in servizio. Un’idea fallimentare in partenza perché la vera malattia del Ssn a tutt’oggi è la carenza di personale: mancano all’appello (nel senso che proprio non ci sono) 20 mila medici e ₋ fatto ancora più grave ₋ 70 mila infermieri, figure indispensabili in ogni settore sia essa ospedaliera, sia essa territoriale. Spingendo sulla leva degli straordinari si rischia grosso sia in termini di burn-out (“bruciando” letteralmente le forze dei singoli operatori), sia in termini di efficienza e di risultati. Con un personale stanco e costretto a un super lavoro si rischia un forte aumento percentuale degli errori. E in molti casi questi ultimi non potrebbero mai essere compensati dai 100 euro orari lordi concessi ai medici e dai 60 per gli Ip.

Il risultato di queste politiche miopi (quello degli straordinari è l’ultimo esempio ma il vulnus originario è quello della spending review che ha “inchiodato” la spesa per il personale a quella del 2004) però non riesce del tutto a intaccare la considerazione che gli italiani hanno del loro Ssn.

La Fnomceo, infatti, si sta dando un gran da fare in difesa della sanità pubblica. Ha infatti commissionato all’Istituto di rilevazioni sociali Piepoli, una ricerca sulla considerazione che gli italiani hanno del loro Servizio sanitario. Il campione prescelto (mille persone per rappresentare i cittadini tra i 15 e i 75 anni, oltre a duecento interviste a soggetti tra i 15 e i 19 anni e a un campione di più di trecento medici e odontoiatri) ha infatti espresso un parere favorevole verso l’assistenza sanitaria pubblica.

Il 90% di loro ritiene che debba essere una delle priorità del governo nella predisposizione della manovra finanziaria e non basta: il 73% vorrebbe che fosse il primo settore a ricevere attenzioni in quest’ambito.

Le luci però non sono così brillanti come appaiono a una lettura sommaria di questi risultati. C’è una notevole differenza tra i pareri favorevoli espressi a nord rispetto a quelli del campione di cittadini del sud che in qualche modo punta il dito sulla frammentazione regionale del governo della sanità.

Se è vero che in totale il 54% degli intervistati ritiene che questa debba restare pubblica, disaggregando i dati si scopre che il parere è stato espresso da un picco del 69% di chi vive nelle Regioni del nord Italia e solo dal 41% di chi, al contrario vive nel sud e nelle Isole. Come dire che le Regioni del nord Italia appaiono più attente (con le dovute eccezioni come ci ha dimostrato il recente, terribile impatto con il Covid) mentre nel sud si finisce col sollecitare una guida più centralizzata del sistema sanitario.

L’indagine dell’istituto Piepoli batte ancora su questo chiodo e lo fa sottolineando come il fenomeno della “migrazione sanitaria” sia ancora consistente. La ricerca di centri di eccellenza fuori dalla propria Regione è sempre viva e il 63% degli intervistati vi fa riferimento. Anche qui l’immagine di un’Italia a velocità variabili torna a presentarsi: le risposte fornite in merito da cittadini delle Regioni meridionali e delle Isole tocca punte del 79%. Moltissimi ₋ quasi la maggioranza, cioè il 93% del campione ₋ ritiene che lo Stato debba venire in soccorso di chi sceglie di andare a curarsi in un’altra Regione. E otto persone su dieci, senza nessuna distinzione regionale questa volta, pensa che sia necessaria un’organizzazione della sanità che assicuri a chiunque l’eccellenza senza doversi necessariamente impegnare in “viaggi della speranza” che, tra l’altro hanno costi economici e sociali di non poco conto. Non va infatti dimenticato ₋ l’indagine non lo fa ₋ che un italiano su quattro ha difficoltà, anche serie, a pagare di tasca propria le prestazioni sanitarie. Anzi ci sono almeno tre milioni di concittadini che se costretti ad affrontare prestazioni a pagamento, finisce col rinunciare a curarsi.

Rapporto Fnomceo-Censis

Il valore economico e sociale

del Servizio sanitario italiano

Sintesi dei principali risultati

Roma, 24 ottobre 2023

INDICE

1.Dal servizio sanitario tanti benefici in tanti ambiti

2. Quantificando i benefici economici: valore creato e settori più coinvolti

2.1. Valore creato e moltiplicatore

2.2. La pluralità dei settori beneficiari

3. L’IMPATTO SULL’OCCUPAZIONE

3.1. Tanto lavoro, di qualità

3.2. Scenari di espansione dell’occupazione

3.3. Impatti virtuosi visibili

4. Potenziare subito l’ecosistema della ricerca

4.1. Più risorse per fare di più e meglio

4.2. Dalle scoperte alla concreta applicazione: l’importanza della velocità di transizione

4.3. L’ineludibile centralità del medico

5. LA COESIONE SOCIALE

5.1. Il valore della presenza diffusa

5.2. L’interesse nazionale a una sanità di eccellenza

TABELLE

  1. Dal servizio sanitario tanti benefici in tanti ambiti

Il Servizio sanitario è una delle istituzioni più apprezzate dagli italiani, tanto più dopo la sfida del Covid in cui gli operatori sanitari, a cominciare dai medici, sono stati in prima linea conquistando un’elevatissima social reputation presso gli italiani. Il Servizio sanitario contribuisce in modo rilevante:

  • al miglioramento del benessere e della qualità della vita degli italiani, grazie alla sua vocazione universalista e alla massa di servizi e prestazioni quotidianamente erogata;
  • ad una società più equa, poiché ammortizza l’impatto sul diritto alla salute delle differenze socioeconomiche, territoriali o di capitale culturale.

Inoltre, il Servizio sanitario ha impatti molto positivi in altri ambiti quali:

  • l’economia, in cui per un colossale indotto di imprese di una molteplicità di settori, molti ad elevata propensione all’innovazione, genera una domanda che stimola all’espansione della produzione e allo sviluppo per un maggior benessere;
  • l’occupazione, con un’elevata quota di addetti che direttamente, indirettamente e nell’indotto fanno capo all’impiego della spesa sanitaria pubblica. In larga parte è occupazione di qualità, motivante, in linea con le aspettative più avanzate del nostro tempo;
  • la ricerca e l’innovazione, poiché è all’interno delle sue strutture che matura una parte significativa della ricerca contribuendo alle innovazioni terapeutiche poi utilizzate su larga scala. Inoltre, il Servizio sanitario operando come potenziale committente dai grandi numeri è uno straordinario stimolo per tutti gli attori dell’ecosistema della ricerca, perché è il garante che gli elevati investimenti richiesti per individuare e rendere disponibili al paziente terapie innovative potranno essere ripagati. Inoltre, l’intreccio tra ricerca e concreta attività sanitaria nelle strutture e nei servizi della sanità quotidianamente erogata è garanzia di più alte performance dell’attività di ricerca, anche nella velocità di adozione dei ritrovati scientifici;
  • la coesione sociale, poiché la tutela della salute come diritto riconosciuto a tutti i cittadini è uno straordinario collante in una società in cui, come già evidenziato, le disparità socioeconomiche da tempo si vanno ampliando. Garantire la salute a tutti e ovunque è anche un potente fattore di rassicurazione in tempi di grande incertezza. Inoltre, la presenza capillare nei territori delle strutture e dei servizi della sanità comporta una distribuzione puntuale e diffuso dei benefici, anche economici e occupazionali, ad esso associati.

La presente ricerca certifica che il Servizio sanitario è molto più che un erogatore di servizi e prestazioni sanitarie, comunque indispensabili al benessere e alla qualità della vita degli italiani.

È un attore primario dello sviluppo italiano perché le risorse pubbliche destinate alla sanità vanno considerate come investimento e non come spesa, proprio perché hanno un impatto altamente positivo sul piano economico, occupazionale, della innovazione e ricerca e sulla coesione sociale.

2. Quantificando i benefici economici: valore creato e settori più coinvolti

2.1. Valore creato e moltiplicatore

La quantificazione dell’impatto della spesa sanitaria pubblica sul valore della produzione è stata effettuata ricorrendo a un modello di valutazione fondato sull’analisi dell’interdipendenze settoriali, le tavole input-output di Leontief, determinando il valore economico creato per ciascun euro di spesa pubblica investito nel Servizio sanitario.

In concreto, l’investimento pubblico viene immesso nel sistema economico e per tramite l’azione degli attori economici via via coinvolti promuove la generazione di produzione aggiuntiva di beni e servizi e la conseguente occupazione. Il Servizio sanitario opera come un committente che esprime una domanda che viene soddisfatta direttamente e indirettamente attraverso l’azione di una molteplicità di soggetti di settori diversi, attivando la creazione diretta e indiretta di valore economico.

In Italia, dati recenti indicano che la spesa sanitaria pubblica nel 2022 è stata pari a 131,1 miliardi euro, il 6,7% del Pil (tab. 1). Nelle elaborazioni per la presente ricerca, però, si è partiti da un valore della spesa sanitaria pubblica lievemente superiore, poiché inclusivo anche della spesa per consumi collettivi che, a sua volta, incorpora quella per ricerca e sviluppo.

Così, a partire da un valore della spesa sanitaria pubblica pari a 131,3 miliardi di euro, il valore della produzione interna diretta, indiretta e dell’indotto ad essa ascrivibile è stimata pari a 242 miliardi di euro (tabb. 2-3).

La spesa sanitaria pubblica si trasforma in spesa B2B, rivolta dapprima alle imprese dei settori più direttamente coinvolti dalla sua attività, poi di quelli limitrofi e, via via, di quelli più distanti. Inoltre, i redditi distribuiti agli occupati delle imprese coinvolte diventano a loro volta spesa B2C con effetti espansivi per i settori che ne beneficiano.

La transizione dalla spesa al valore della produzione avviene con un moltiplicatore pari a 1,84 che significa che per ogni euro di spesa sanitaria pubblica investito nel Servizio sanitario viene generato un valore della produzione non distante dal doppio. Inoltre, il valore aggiunto complessivo creato è pari a 127 miliardi di euro: il 7,3% del valore aggiunto totale e il 6,5% del Pil.

Ecco i dati impressivi del circuito economico che viene attivato dalla spesa sanitaria pubblica. Infatti, per le imprese essa si trasforma in domanda di beni e servizi a cui rispondono attivando gli opportuni processi di produzione con relativa creazione di occupazione e, a loro volta tali imprese rivolgono una domanda pagante ad altre imprese dello stesso settore o di altri settori. È così che si genera l’effetto cumulativo che si irradia nel sistema economico con una dinamica intersettoriale e che, nello specifico delle attività del Servizio sanitario, mostra una particolare efficacia.

La dinamica evidenziata certifica impressivamente che la spesa sanitaria è un investimento, non un costo, perché nel concreto dei processi economici è capace di generare, per tramite effetti diretti, indiretti e indotti anche in settori distanti da quelli più propriamente coinvolti dall’attività della sanità, una vera e propria redditività differita che si esprime nel valore della produzione stimolata e in quella, come si vedrà, dell’occupazione.

Il quadro macro della generatività della spesa sanitaria pubblica si completa con gli effetti sulla raccolta fiscale e contributiva: il totale delle imposte dirette e indirette e dei contributi sociali ascrivibili al circuito attivato dalla spesa sanitaria pubblica citata è pari a oltre 50 miliardi di euro. Sono generati oltre 28 miliardi di imposte dirette e indirette e quasi 22 miliardi di contributi sociali dai lavoratori dipendenti coinvolti.

2.2. La pluralità dei settori beneficiari

L’effetto diffusivo nel sistema economico dell’impatto della spesa sanitaria pubblica significa che essa coinvolge settori diversi, inclusi molti distanti dall’attività sanitaria propriamente detta. I settori che direttamente e indirettamente beneficiano della spinta della spesa sanitaria pubblica sono (tabb. 4-5):

  • le attività dei servizi sanitari per un valore della produzione pari a 125 miliardi di euro con quasi 1,3 milioni di occupati. È un settore ampio e articolato che include i servizi ospedalieri, dagli ospedali alle case di cura specialistiche e di lungodegenza, i servizi degli studi medici e odontoiatrici, e le altre attività di assistenza sanitaria come laboratori di analisi cliniche, radiografici, centri di diagnostica di altro tipo ecc. L’ampiezza e l’articolazione degli attori che sono coinvolti esprime implicitamente la potenza con cui la spesa sanitaria pubblica irradia i suoi positivi effetti, con dinamica cumulativa, nell’economia;
  • il settore dell’assistenza sociale con 8,6 miliardi di valore di produzione e un’occupazione di 180 mila persone. Il settore include case di riposo con assistenza infermieristica, strutture residenziali per anziani, disabili e altre attività di assistenza sociale non residenziali. È anch’esso un settore con una molteplicità di strutture diffuse sui territori, che diventano altrettanti terminali di una domanda che si rivolge a imprese di settori che operano come fornitori dei beni e servizi di cui hanno bisogno;
  • il commercio al dettaglio e all’ingrosso, con oltre 9 miliardi di valore di produzione e oltre 95 mila occupati. Tale settore può essere considerato come l’esempio paradigmatico di quanto ampio e diffuso sia l’impatto economico della spesa sanitaria pubblica poiché, mettendo in movimento una molteplicità di imprese, finisce per coinvolgere anche settori non prossimi alla sanità

Ci sono poi una molteplicità di ulteriori settori che beneficiano dell’impulso della spesa sanitaria pubblica come, ad esempio, l’industria farmaceutica o quella dei dispositivi medici, che creano occupazione di qualità in imprese competitive e altamente innovative.

C’è poi il boost a settori professionali e di servizi qualificati di tipo amministrativo, legale, contabile, di consulenza gestionale con un valore della produzione che va oltre i 3 miliardi di euro e un’occupazione di oltre 30 mila unità. E, ancora, la domanda che viene rivolta e stimola l’attività di servizi di supporto essenziali come servizi di vigilanza e di facility management con quasi 43 mila occupati.

I dati mostrano la possenza, l’ampiezza e l’articolazione settoriale del contributo economico del Servizio sanitario e della spesa sanitaria pubblica italiana al sistema delle imprese e, in generale, allo sviluppo dell’economia.

3. L’IMPATTO SULL’OCCUPAZIONE

3.1. Tanto lavoro, di qualità

Ulteriore fondamentale beneficio di natura economica, con rilevanti effetti sociali, ascrivibile alla spesa sanitaria pubblica consiste nell’impatto sull’occupazione.

Infatti, gli occupati interni diretti, indiretti e indotti afferenti al meccanismo cumulativo innescato dalla spesa sanitaria pubblica sono stimati complessivamente in 2,2 milioni di persone, pari all’8,7% degli occupati totali.

Il Servizio sanitaria ha 670 mila dipendenti, di cui oltre 470 mila del ruolo sanitario, a cui aggiungere oltre 57 mila medici di medicina generale, titolari di guardie mediche e pediatri di libera scelta (tab. 6). È pertanto uno dei principali datori di lavoro nel nostro paese così come all’interno dei singoli territori, cosa che ovviamente amplifica il valore della sua capacità di generare lavoro.

Si tratta, peraltro, di lavoro complessivamente di qualità, motivante, potenzialmente pregno di senso in una fase storica segnata invece da una visibile crisi della cultura e dell’identità legata al lavoro.

C’è poi l’occupazione la cui creazione viene stimolata tramite il meccanismo generativo descritto, per cui la spesa sanitaria pubblica genera una domanda che consente a imprese di settori via via più distanti di espandere la produzione e in parallelo l’occupazione.

3.2. Scenari di espansione dell’occupazione

Gli impatti sull’economia e sull’occupazione mostrano che un incremento della spesa sanitaria pubblica è auspicabile, oltre che per migliorare la qualità dell’assistenza così da fronteggiare in modo appropriato l’aumento atteso dei fabbisogni sanitari a causa dell’invecchiamento della popolazione, perché è un investimento generativo il cui positivo impatto sull’occupazione è forse l’esito più impressivo.

Peraltro, il fatto che l’Italia abbia una spesa sanitaria pubblica rispetto al Pil inferiore a quello di paesi omologhi come la Francia e la Germania prova ulteriormente che investire più risorse pubbliche nella sanità è utile, possibile e, per certi versi, necessario.

A questo proposito, nella presenta ricerca sono stati costruiti scenari di riferimento che consentono di fissare i benefici occupazionali che deriverebbero dall’espansione della spesa sanitaria pubblica italiana sino ai valori dei paesi indicati.

Infatti, nel 2022 in Italia la spesa sanitaria pro-capite in euro è stata pari a 2.226 euro e il totale della spesa sanitaria pubblica al 6,8% del Pil. Nello stesso anno in Francia la spesa sanitaria pubblica pro-capite a parità di potere d’acquisto è stata pari a 3.739 euro e nel complesso la spesa sanitaria pubblica è risultata pari al 10,1% del Pil francese. In Germania invece essa è stata pari a 4.702 euro in PPA, e il totale al 10,9% del Pil tedesco.

Nell’ipotesi di un incremento della spesa sanitaria pubblica pro capite italiana sino al valore di quella francese, la spesa pubblica sanitaria totale italiana crescerebbe di 89 miliardi di euro diventando pari all’10,9% del Pil, con un incremento del totale occupati diretti, indiretti e indotti di 1,5 milioni di unità, per un totale di 3,8 milioni (tab. 7).

Se invece la spesa sanitaria pubblica pro capite italiana salisse al livello di quella della Germania, la spesa sanitaria pubblica totale del nostro paese aumenterebbe di 146 miliardi portando l’incidenza sul Pil a 13,3%, e il totale degli occupati diretti, indiretti e indotti a 4,7 milioni, con 2,5 milioni di occupati in più.

Ecco i benefici occupazionali stimati, ma molto realistici, che sarebbero associati ad un investimento pubblico più alto nella sanità italiana: da 1,5 milioni a addirittura 2,5 milioni di occupati in più, nei settori più strettamente legati alla sanità sino a quelli che invece beneficerebbero degli effetti indiretti e anche indotti.

3.3. Impatti virtuosi visibili

Le simulazioni condotte hanno un valore teorico e tuttavia sono un riferimento utile per il dibattito sul potenziamento delle risorse pubbliche per il Servizio sanitario italiano, che comunque in graduatorie internazionali sulla qualità della sanità spesso sopravanza sia quella francese che quella tedesca.

I dati di spesa sanitaria pro capite standardizzati consentono di dire che l’impegno di risorse pubbliche nel nostro paese potrebbe salire ancora, quanto meno approssimando i valori di cui beneficiano i cittadini dei due paesi omologhi.

E tale scelta non significherebbe solo una maggiore disponibilità di risorse per finanziare la produzione di servizi e prestazioni ma, grazie alla più volte citata dinamica delle interdipendenze settoriali, cioè gli effetti diretti, indiretti e indotti ascrivibili all’incremento di spesa pubblica, avrebbe anche l’effetto positivo di generare più occupazione.

Nel rigoroso scrutinio degli impieghi utili delle risorse pubbliche che deve presiedere alla crescente competizione tra i vari settori per imporsi come destinatari delle risorse stesse, la scelta dell’investimento in sanità ha anche lo straordinario beneficio di creare in modo diffuso nuova occupazione.

4. Potenziare subito l’ecosistema della ricerca

4.1. Più risorse per fare di più e meglio

L’ecosistema della ricerca con i suoi tanti e diversi attori, dagli enti ai ricercatori alle imprese, è da considerarsi un componente costitutivo del sistema sanitario italiano.

La recente traumatica esperienza del periodo pandemico ha generato nella società italiana, al di là di minoranze rumorose, un’elevata social acceptance del ruolo della ricerca sulla salute, con alte aspettative sul suo contributo nel rendere disponibili risposte terapeutiche e assistenziali efficaci per le sfide sanitarie del nostro tempo, dalle patologie ancora ad alta mortalità a quelle croniche invalidanti alla lotta tempestiva a improvvisi e inattesi virus e agenti patogeni.

L’Italia ha uno stanziamento di spesa pubblica per ricerca e sviluppo per protezione e promozione della salute umana pari a circa il 12,7% del totale della spesa stanziata per ricerca e sviluppo. È un dato che colloca il nostro paese al quinto posto della graduatoria della Unione Europea per valore pro capite a parità di prezzi d’acquisto (tab. 8). La dinamica nel tempo è stata oscillante poiché:

  • nel periodo 2012-2019 ha avuto una crescita del 5,2% %;
  • nel 2019-2022, come portato del boost indotto dagli effetti dell’emergenza, è salito del 49%;
  • nel decennio 2012-2022 l’incremento è stato di oltre il 56%.

In totale la spesa pubblica italiana per ricerca e sviluppo per protezione e promozione della salute umana è pari a 1,6 miliardi di euro.

Inoltre, alcuni generali indicatori di performance segnalano che l’ecosistema della ricerca del nostro paese esprime buone performance, poiché l’Italia è al secondo posto della graduatoria europea e al sesto di quella mondiale per numero di pubblicazioni relative all’area tematica della medicina nelle riviste scientifiche.

In pratica, la ricerca sanitaria italiana è di ottimo livello e meriterebbe un significativo potenziamento delle risorse, anche in relazione agli effetti di retroazione che ha sull’innovazione di filiere industriali ad alta creazione di valore aggiunto e di occupazione di qualità.

Il Servizio sanitario è il committente primo degli esiti delle attività di ricerca per la tutela della salute, e pertanto potenziare la sua capacità di finanziare direttamente progetti di ricerca e quella di accogliere e utilizzare diffusamente i ritrovati amplierebbe lo spettro di opportunità per l’intero ecosistema della ricerca, con un boost certo sugli esiti.

4.2. Dalle scoperte alla concreta applicazione: l’importanza della velocità di transizione

Il nesso tra ricerca sanitaria e attività ordinarie del Servizio sanitario è decisivo, poiché la prima può contribuire in modo rilevante al miglioramento dell’assistenza sanitaria nel tempo. Infatti, gli esiti dell’attività degli attori dell’ecosistema della ricerca contribuiscono ad una migliore conoscenza della salute e delle patologie consentendo di mettere a disposizione soluzioni di prevenzione e cura.

Un errore antico è quello di concepire l’offerta sanitaria in essere come tendenzialmente uguale a sé stessa, con performance dipendenti quasi esclusivamente dall’ammontare di risorse rese disponibili ed eventualmente da qualche adattamento organizzativo.

In realtà, il sentiero di sviluppo della sanità beneficia soprattutto dell’innovazione, cioè dei contributi che provengono dalla ricerca e dalla tempestività ed efficacia con cui entrano nel quotidiano della sanità ordinaria, innalzando gli outcome delle cure.

La ricerca poi ha un impatto molto positivo sulle filiere industriali coinvolte dalle sue attività e nella produzione e commercializzazione dei suoi ritrovati, perché le imprese sono sistematicamente stimolate a misurarsi sulle frontiere più avanzate dell’innovazione.

4.3. L’ineludibile centralità del medico

La social acceptance del valore per la sanità della ricerca e delle innovazioni tecnologiche, incluse quelle digitali fondate sul massiccio utilizzo di dati personali, non è priva di taluni timori.

Infatti, al di là delle pulsioni irrazionali e antiscientifiche, è comunque presente nella public opinion la preoccupazione che si impongano relazioni impersonali, con relativa perdita di riferimenti umani e caldi nei processi di cura.

In realtà, emerge l’opposizione di principio degli italiani ad un’idea di sanità che, alla fin fine, vorrebbe marginalizzare o addirittura escludere il medico dai processi decisionali sulla cura e la tutela della salute.

Nella cultura sociale collettiva degli italiani prevale la convinzione che al centro dei processi di cura, responsabile delle decisioni essenziali è e deve restare il medico. Non c’è tecnologia o algoritmo che possa sostituire, ad oggi, la figura e la relazionalità con il medico.

Ogni processo di innovazione, ogni ritrovato terapeutico comunque deve entrare nella sanità in conformità all’esercizio del ruolo di riferimento decisionale del medico. La fiducia sociale ampia di cui beneficiano i medici, quindi, è il viatico per rendere socialmente accettabili su larga scala nuove terapie e innovazioni tecnologiche.

5. LA COESIONE SOCIALE

5.1. Il valore della presenza diffusa

Sono noti i contributi che la buona sanità per tutti garantita dal Servizio sanitario ha dato nel tempo al miglioramento della qualità della vita degli italiani. L’Italia è tra i paesi più longevi al mondo e, anche, quello con una più alta aspettativa di vita senza disabilità (tab. 9).

D’altro canto, la qualità della sanità italiana, pur nelle tante difficoltà e contraddizioni del suo quotidiano operare nelle varie Regioni, resta tra le più alte al mondo, in grado di incidere in un modo positivo sulle vite delle persone, soprattutto quando emergono problemi di salute, anche gravi.

Il valore sociale del Servizio sanitario richiama ulteriori contributi rilevanti, come quello alla coesione sociale sui territori. Ciò avviene certamente tramite l’erogazione di servizi sanitari che sono fondamentali per il benessere delle persone e la qualità della vita in ambito locale, ma anche perché è una piattaforma decisiva per l’occupazione locale, di cui rappresenta una componente significativa, che ovviamente è opportuno e utile espandere.

Attualmente il totale del personale del comparto della sanità (personale sanitario, tecnico e amministrativo) come quota per 1.000 occupati ha un valore superiore a 30 in 15 Regioni, con una punta di 41,7 per 1.000 (tab. 10).

La spesa sanitaria pubblica è un investimento economico i cui effetti si dispiegano su tutti i territori del nostro paese, e pertanto le sue risorse possono essere considerate ad alto impatto economico e occupazionale, con in più il pregio di distribuire i benefici in modo diffuso nei territori.

Alla spesa sanitaria pubblica come investimento non fanno capo cattedrali nel deserto, ma un meccanismo diffusivo dei molteplici impatti positivi sul tessuto imprenditoriale locale, l’occupazione, l’innovazione e, anche sulla coesione sociale delle comunità sui territori.

Il Servizio sanitario, poi, contribuisce a tenere insieme la società anche perché esercita una funzione di rassicurazione delle persone di ogni ceto sociale, facendole sentire con le spalle coperte in caso di insorgenza di patologie.

Malgrado le tante disparità territoriali da sempre sottolineate, resta che la spesa sanitaria pubblica pro- capite è superiore a 2.000 euro in tutte le regioni, che sono state erogate diffusamente oltre 1,3 miliardi di prestazioni di prevenzione e cura in anno e che operano sui territori 29 mila strutture pubbliche e private accreditate per un totale di 236 mila posti letto. Sono numeri che raccontano di un’attività diffusa che materializza la sensazione sociale che, in caso di bisogno sanitario, esiste una tutela accessibile e di qualità a cui si ha diritto.

Inoltre, una figura presidio chiave che beneficia di alta fiducia e buona social reputation come il Medico di medicina generale (Mmg), malgrado le attuali problematiche di shortage, conta ancora 40 mila professionisti diffusi nei territori, con una media di 1.300 adulti residenti per MMG. Il campo di oscillazione regionale per Mmg varia tra 1.514 adulti in Lombardia e 1.063 adulti in Umbria (tab. 11).

5.2. L’interesse nazionale a una sanità di eccellenza

Il contributo alla coesione sociale ampiamente intesa completa il racconto del Servizio sanitario come istituzione-pilastro del nostro paese, economicamente generativa, socialmente inclusiva, espressione distintiva e riconoscibile della buona italianità nel mondo.

Esiste poi una dimensione ulteriore di valore del Servizio sanitario che è emersa con forza durante l’emergenza pandemica e che si fonda sull’interesse nazionale ad avere filiere produttive e professionali, incluse le relative competenze legate alla sanità, localizzate sul territorio italiano o, comunque, nei territori di paesi Ue facilmente e sicuramente accessibili.

Infatti, la percezione sociale del rischio della dipendenza da altri per la tutela della salute ha generato una reazione collettiva, dai decisori alla public opinion, che considera come ineludibile la strategicità della tutela della salute e del suo garante operativo: il Servizio sanitario.

Esito di questa nuova consapevolezza dovrebbe essere un potenziamento del finanziamento pubblico del Servizio sanitario, e una propensione concreta a favorire la creazione di filiere di ricerca, industriali e di approvvigionamento nazionali per macchinari, tecnologie e a garantire la disponibilità sul territorio nazionale delle competenze essenziali per il buon funzionamento del Servizio sanitario.

Simbolicamente emblema di questa nuova consapevolezza del Servizio sanitario come incarnazione concreta dell’interesse nazionale è stata la tradizionale Rivista per la Festa della Repubblica del 2022 a cui furono chiamati a partecipare 100 tra medici, infermieri e altre professioni sanitarie in rappresentanza degli oltre 600 mila operatori.

A questo stadio, è vitale dare corso a quella sorta di promessa maturata nei periodi peggiori dell’emergenza secondo la quale la sanità sarebbe diventata una priorità dell’agenda del paese con finalmente la piena disponibilità delle risorse di cui necessita.

Oggi questa è la sfida decisiva, anche perché più risorse pubbliche al Servizio sanitario significa più risorse per il sistema economico e sociale italiano ampiamente inteso.

TABELLE

 

 

 

 

 

 

Tab. 1 – Andamento della spesa sanitaria pubblica in Italia (1), 2013-2022 (v.a., var. %, diff. ass. e val. %)

 

v.a.
(mln. euro correnti)

% spesa sanitaria

pubblica
sul Pil

2013

107.890

6,7

2019

115.663

6,4

2022

131.103

6,7

var. % reale (2)

2013-2019

1,3

-0,3

2019-2022

6,8

0,3

2013-2022

8,1

0,0

(1) Serie annuali dei conti della protezione sociale, uscite correnti, edizione aprile 2023;

(2) per la % spesa sanitaria pubblica sul Pil è indicata la differenza assoluta.

Fonte: elaborazione Censis su dati Istat

 

Tab. 2 – Gli effetti economici della spesa sanitaria pubblica, 2022

Totale diretto

e indiretto

Diretto

Indiretto

Indotto

Totale

Spesa sanitaria

pubblica (mln euro)*

131.393

Produzione ai prezzi base (mln di euro)

197.250

168.435

28.815

44.681

241.931

Valore aggiunto

(mln di euro)

105.892

92.846

13.045

21.117

127.009

Produzione generata per ogni € di spesa (moltiplicatore)

1,84

Importazioni

(finali e intermedie)

(mln di euro)

19.174

16.452

2.723

4.931

24.106

Occupati interni

1.905.485

1.706.052

199.433

326.134

2.231.619

(*) Spesa per consumi individuali e collettivi, inclusa la spesa per ricerca e sviluppo in sanità

Fonte: elaborazione e stima Censis su dati Istat

Tab. 3 – Gli effetti economici della spesa sanitaria pubblica in rapporto alla produzione e al Pil, 2022

 

Economia attivata

(diretta+ indiretta+ indotta)

Produzione ai prezzi base (% sulla produzione totale)

6,0

Valore aggiunto (% sul valore aggiunto totale)

7,3

Valore aggiunto (% sul Pil)

6,5

Occupati interni (% sugli occupati interni totali)

8,7

Fonte: elaborazione e stima Censis su dati Istat

Tab. 4 – Primi otto settori per valore della produzione ai prezzi base (*) diretta e indiretta generata dalla speda sanitaria pubblica, 2022 (v.a. e val. %)

 

v.a.

(mln euro)

val. %

Attività dei servizi sanitari

125.520

63,6

Assistenza sociale

8.634

4,4

Commercio all’ingrosso, escluso quello

di autoveicoli e di motocicli

4.664

2,4

Commercio al dettaglio, escluso quello

di autoveicoli e di motocicli

4.243

2,2

Fornitura di energia elettrica, gas,

vapore e aria condizionata

3.439

1,7

Attività legali e contabilità; attività di sedi centrali; consulenza gestionale

3.154

1,6

Fabbricazione di prodotti farmaceutici

di base e di preparati farmaceutici

3.080

1,6

Attività immobiliari

3.070

1,6

Primi 8 settori

155.804

79

Totale produzione ai prezzi base diretta

e indiretta

197.250

100

(*) al netto delle importazioni finali

Fonte: elaborazione e stima Censis su dati Istat

 

Tab. 5 – Primi otto settori per occupati diretti e indiretti generati dalla spesa sanitaria pubblica, 2022 (v.a. e val. %)

 

v.a.

val. %

Attività dei servizi sanitari

1.279.499

67,1

Assistenza sociale

180.152

9,5

Commercio al dettaglio, escluso

quello di autoveicoli e di motocicli

64.121

3,4

Servizi di investigazione e vigilanza; attività di servizi per edifici e per paesaggio; attività amministrative

e di supporto per le funzioni d’ufficio

e altri servizi di supporto alle imprese

42.991

2,3

Commercio all’ingrosso, escluso quello di autoveicoli e di motocicli

30.684

1,6

Attività legali e contabilità; attività di sedi centrali; consulenza gestionale

30.660

1,6

Costruzioni

20.621

1,1

Amministrazione pubblica e difesa; assicurazione sociale obbligatoria

18.308

1

Primi 8 settori

1.667.036

87,5

Totale occupati interni diretti e indiretti

1.905.485

100

Fonte: elaborazione e stima Censis su dati Istat

 

Tab. 6 – Personale della Pubblica Amministrazione (1) del comparto della Sanità, per ruolo e profilo, 2011-2021 (v.a. e var. %)

 

v.a.

 

var. %

2011

2019

2021

2011-2019

2019-2021

2011-2021

Sanitari

474.351

460.605

476.359

-2,9

3,4

0,4

Medici, odontoiatri

e veterinari

115.449

112.147

113.312

-2,9

1

-1,9

Dirigenti sanitari non medici (2)

14.667

13.405

14.112

-8,6

5,3

-3,8

Personale infermieristico

274.708

268.273

279.837

-2,3

4,3

1,9

Tecnico-sanitario

36.721

36.230

37.423

-1,3

3,3

1,9

Riabilitazione

20.558

19.838

20.923

-3,5

5,5

1,8

Vigilanza e ispezione

12.248

10.712

10.752

-12,5

0,4

-12,2

Ricerca sanitaria

976

1.366

40

Professionale

1.792

1.554

1.622

-13,3

4,4

-9,5

Tecnico

127.182

118.475

124.072

-6,8

4,7

-2,4

Amministrativo

77.870

67.034

66.290

-13,9

-1,1

-14,9

Direttori generali

860

746

762

-13,3

2,1

-11,4

Contrattisti

487

133

95

-72,7

-28,6

-80,5

Totale

682.542

649.523

670.566

 

-4,8

3,2

-1,8

  1. Esclusi i contratti flessibili (tempo determinato, LSU, in formazione e lavoro, interinali) e inclusi i dirigenti a tempo determinato
  2. Include dirigenti biologi, chimici, farmacisti, fisici, psicologi e delle professioni sanitarie

Fonte: elaborazione Censis su dati Ministero dell’Economia e delle Finanze

Tab. 7 – Scenari di potenziale espansione della spesa sanitaria pubblica (*) italiana con i valori pro capite di Francia e Germania a parità di potere d’acquisto e impatto sull’occupazione in Italia

 

Pro capite

(euro)

Spesa sanitaria pubblica

(mln euro)

%

Pil

Occupati interni dell’economia attivata

Occupati in più

Italia

2.226

131.393

6,8

2.231.619

Con spesa pro capite

(PPA) della Francia

3.739

220.717

10,9

3.771.087

1.539.468

Con spesa pro capite

(PPA) della Germania

4.702

277.572

13,3

4.739.812

2.508.193

(*) Amministrazioni pubbliche e assicurazioni sociali obbligatorie; spesa per consumi individuali e collettivi, inclusa la ricerca e sviluppo in sanità

Fonte: elaborazioni e stime Censis su dati Istat e Ocse

Tab. 8 – Stanziamenti di spesa pubblica per R&S (GBARD) per protezione e promozione della salute umana nei Paesi dell’Unione Europea, 2012-2022 (*) (v.a., val. % e var. %)

v.a.
(mln euro)
2022

% sul totale degli stanziamenti per R&S
2022

v.a. pro capite
(PPA)
2022

var. % PPA

a prezzi costanti 2005

2012-2019

2019-2022

2012-2022

Lussemburgo

82

19,2

97,7

-5,8

1,3

-4,6

Danimarca

561

18,1

72,2

28,2

18,9

52,4

Francia

2.219

12,4

30,3

66,4

4,2

73,4

Germania

2.708

6,3

29,1

24,5

36,9

70,4

Italia

1.605

12,7

28,3

5,2

49,0

56,7

Paesi Bassi

538

6,9

26,0

59,6

33,6

113,2

Slovenia

39

12,3

21,4

70,4

41,1

140,5

Spagna

914

11,5

20,6

18,9

3,4

22,9

Austria

200

5,1

19,9

8,8

23,5

34,3

Grecia

165

10,4

19,1

193,0

9,8

221,8

Cechia

105

6,6

12,3

58,7

-20,8

25,6

Ungheria

76

12,6

12,1

260,7

28,2

362,3

Irlanda

64

6,4

10,5

10,4

22,8

35,6

Portogallo

84

10,4

9,4

135,8

-7,2

118,8

Cipro

7

6,2

8,7

158,3

36,7

253,0

Svezia

109

2,7

8,2

99,8

17,5

134,8

Lettonia

12

13,2

8,2

35,0

34,4

81,4

Finlandia

51

2,1

7,3

-50,5

-25,6

-63,2

Slovacchia

28

7,3

6,2

28,2

-22,2

-0,2

Belgio

64

1,8

4,9

3,5

7,2

10,9

Estonia

5

1,8

3,9

-61,5

-28,0

-72,3

Malta

2

4,8

3,9

309,7

184,9

1067,4

Polonia

78

3,0

3,3

-79,5

77,3

-63,7

Lituania

5

2,2

2,3

-46,2

-13,3

-53,3

Bulgaria

6

3,1

1,4

-20,0

54,3

23,4

Croazia

2

0,5

0,9

-0,8

-32,1

-32,7

Romania

3

0,8

0,3

-42,2

-88,0

-93,1

Ue 27

9.728

8,3

20,8

24,1

20,3

49,4

(*) Alcuni dati sono stime o previsioni

Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat

Tab. 9 – Graduatoria dei Paesi dell’Unione europea per speranza di vita e speranza di vita in buona salute alla nascita, 2021 (v.a. in anni)

Speranza

di vita

Speranza

di vita in buona salute

Spagna

83,3

Malta

68,7

Svezia

83,1

Svezia

68,4

Italia

82,7

Italia

68,1

Lussemburgo

82,7

Irlanda

67,2

Malta

82,5

Francia

66,2

Irlanda

82,4

Cipro

65,7

Francia

82,4

Germania

65,6

Belgio

81,9

Grecia

65,6

Finlandia

81,9

Slovenia

65,4

Danimarca

81,5

Belgio

64,6

Portogallo

81,5

Bulgaria

63,3

Paesi Bassi

81,4

Spagna

62,8

Cipro

81,3

Polonia

62,6

Austria

81,3

Ungheria

62,5

Germania

80,8

Cechia

62,0

Slovenia

80,7

Lussemburgo

62,0

Grecia

80,2

Austria

61,8

Cechia

77,2

Finlandia

61,7

Estonia

77,2

Paesi Bassi

60,3

Croazia

76,7

Croazia

58,6

Polonia

75,5

Portogallo

58,3

Slovacchia

74,6

Romania

57,8

Ungheria

74,3

Lituania

57,6

Lituania

74,2

Slovacchia

56,8

Lettonia

73,1

Danimarca

56,6

Romania

72,8

Estonia

56,5

Bulgaria

71,4

Lettonia

53,8

Ue 27

80,1

Ue 27

63,6

Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat

Tab. 10 – Personale della Pubblica Amministrazione (1) del comparto della Sanità, per regione, 2021 (per 1.000 occupati)

 

Per 1.000 occupati

 

Personale sanitario

Totale personale

del comparto della Sanità

Piemonte

20,9

30,5

Valle d’Aosta

25,1

41,7

Lombardia

16,1

23,9

Trentino-Alto Adige

23,3

35,5

Veneto

20,8

30,3

Friuli-Venezia Giulia

26,8

39,2

Liguria

28,1

39,1

Emilia Romagna

24,4

33,8

Toscana

25

35,6

Umbria

25

32,7

Marche

22,9

32,4

Lazio

16,4

20,9

Abruzzo

21,4

29

Molise

21,2

27

Campania

21

27,8

Puglia

23,2

32,2

Basilicata

24,4

34,6

Calabria

24,3

34,4

Sicilia

23,6

32,3

Sardegna

25,5

35

Totale

21,1

29,7

(1) Esclusi i contratti flessibili (tempo determinato, LSU, in formazione e lavoro, interinali) e inclusi i dirigenti a tempo determinato

Fonte: elaborazione Censis su dati Ministero dell’Economia e delle Finanze e Istat

Tab. 11 – Medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, per regione, 2021 (v.a.)

Medici di medicina generale

Pediatri

v.a.

Adulti residenti per Mmg

v.a.

Bambini residenti per medico pediatra

Piemonte

2.882

1.314

375

1.250

Valle d’Aosta

79

1.384

14

1.004

Lombardia

5.774

1.514

1.121

1.073

Trentino-Alto Adige

622

1.492

131

1.112

Veneto

2.995

1.430

538

1.048

Friuli-Venezia Giulia

768

1.390

116

1.096

Liguria

1.054

1.289

156

963

Emilia Romagna

2.850

1.372

595

865

Toscana

2.653

1.230

448

894

Umbria

719

1.063

105

898

Marche

1.042

1.268

166

999

Lazio

4.244

1.187

741

915

Abruzzo

1.036

1.094

147

968

Molise

244

1.076

36

819

Campania

3.631

1.349

730

997

Puglia

3.144

1.104

538

842

Basilicata

435

1.113

56

1.021

Calabria

1.089

1.499

186

1.199

Sicilia

3.871

1.093

656

917

Sardegna

1.118

1.281

167

932

Totale

40.250

1.295

7.022

985

Fonte: elaborazione Censis su dati Ministero della Salute

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Mariano Rampini

    Come al solito gli amici Ivan Cavicchi (si ricorderà ,di me quando lo inseguivo per intervistarlo per la pagine de Il Farmacista) e Paolo Russo entrambi frequentatori di vecchia data (davvero tanta esperienza) del settore della sanità pubblica, puntano il dito su alcune delle ferite più evidenti che il nostro Leviatano (nel senso delle dimensioni) mostra e che nessuno sembra voler curare. Il dato più evidente sottolineato da Ivan è quello dell’assenza di una strategia precisa, di obiettivi da raggiungere. Una contestazione generica all’operato del governo (per questo che abbiamo non spreco la maiuscola) serve a poco. Soprattutto perché le coscienze della gente sembrano davvero anestetizzate. Basti pensare al periglioso disegno di legge Calderoli che dovrebbe condurre all’autonomia differenziata, cioè alla concessione alle Regioni di un numero crescente di poteri legislativi anche in campo tributario così da favorire (lo dico in soldoni per non rubare spazio) le Regioni che dispongono di gettiti fiscali più ampi rispetto a quelle – soprattutto da Roma in giù – che possono fare affidamento su rendite tributarie assai meo consistenti. Ebbene, solo negli ultimi due mesi o giù di lì, la stampa generalista sembra interessarsi all’argomento che pure finirebbe col dare una vera e propria “mazzata” al senso primo della nostra Carta Costituzionale, cioè l’essere “una” Repubblica e non una accozzaglia di Regioni che si muovono ognuna per proprio conto senza che il governo centrale possa fare gran ché. Alla faccia anche del tanto sospirato premierato prefigurato come una riforma epocale dal nostro attuale presidente del consiglio (continuo a risparmiare le maiuscole). Manifestazioni ci sono state contro questa deriva ma pare abbiano lasciato il tempo che hanno trovato. Come possiamo pensare di fare qualcosa di utile contro il “muro” eretto dal governo se continuiamo a imitare i lancieri di Balklava gettati al galoppo verso i cannoni russi? Di obiettivi minimi da raggiungere così da creare le teste di ponte necessarie a un’offensiva efficace ce ne sarebbero (Ivan ha scomodato SunTzu e il suo famoso trattato sull’arte della guerra applicabile però a qualsiasi tipo di contesa). Perché non puntare su quelle che hanno a loro sostegno la verità incontrovertibile dei numeri? Uno per tutti: scavalcare l’ostacolo della spending review e aprire alle assunzioni di medici e infermieri. Uno spiraglio in tal senso potrebbe tamponare se non addirittura arrestare l’emorragia di personale sanitario e ricostituire le fila degli operatori che nell’arco dei prossimi tre anni – in particolare per i raggiunti limiti di età – vedranno uscire un numero più sostanzioso di loro colleghi dalle fila del Ssn. Credo che una voce autorevole come quella dei miei due colleghi (bontà loro) debba essere ascoltata e fatta propria. Magari in prima battuta proprio dagli stessi sindacati medici ma anche dalle forze delle opposizioni che potrebbero coagulare i loro sforzi indirizzandoli su un unico, preciso obiettivo.

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