Gli insegnamenti del processo a Frine

di Mauro Antonio Miglieruolo

Chi si ricorda di Frine? Originaria di Tespie, in Boezia, figlia di Epicle, aristocratica e bella, famosa quanto Elena di Troia e le dea Afrodite.

Il processo contro di lei è stato messo in scena probabilmente fra il 350 e il 347 aC su denuncia – sostiene Iperide – di un certo Eutia, amante di Frine). L’accusa era di aver fondato una confraternita dedicata al culto di Isodaite, probabilmente una variante del culto di Dioniso. Il culto praticava l’orgia, la promiscuità, la libera manifestazione dei desideri.

Il vero nome di Frine, Mnsesarete, significa «colei che fa ricordare la virtù». Nome inappropriato per una pretesa prostituta. Frine invece vuol dire «rospo», soprannome poco opportuno da dare a una così bella. Sembra le sia stato affibbiato a causa della carnagione bianca olivastra, ma deve essere parso ragionevole (probabilmente anche a Frine stessa) per il carattere antifrastico dello stesso. Frine, donna intelligente – e, si dice, la più bella dell’antichità – deve aver lasciato fare. Non era certo un soprannome per invidia e intento di calunnia che poteva screditarla. Una bellezza la cui fama ha travalicato i secoli. Tant’è che Ateneo, secondo il quale Frine fu usata da Apelle quale modella per dipingere Venere, l’aveva definita «sacerdotessa di Afrodite».

A molti è piaciuto esagerarne il ruolo. Si narra infatti che durante il processo Iperide, suo difensore, abbia denudato la donna, perché se ne potesse ammirare lo splendore. I giudici dell’Aeropago sarebbero rimasti tanto abbagliati da deliberarne l’assoluzione e in seguito una folla entusiasta l’avrebbe «portata in trionfo fino al tempio di Afrodite» mentre il retore della parte avversa sarebbe stato cacciato dall’Areopago. Esagerazioni? Vero è che l’ammirazione sfocia volentieri nell’iperbole.

Non saremo noi (la speranza è che valga anche per voi) a volerla diminuire in questo ipotetico ruolo con un epilogo che sa di commedia. Ci metteremmo contro il parere dell’insigne Prassitele, altro suo amante, che la usò come modella per realizzare l’Afrodite Cnidia. O dello stesso Galeno, convinto della superiorità della sua bellezza: a differenza delle «etere» – cioè «donne dai liberi costumi» – greche dell’epoca, Frine non si truccava, presentandosi sempre nel suo aspetto “naturale”.

Entrando nel merito del processo, i capi d’accusa erano: la partecipazione a feste oscene nel «Liceo» (orge dionisiache), promiscuità di uomini e donne, l’introduzione di una nuova divinità; forse anche (secondo Posidippo) aver dilapidato il patrimonio altrui, accusa facile da rivolgere contro una etera. Infine (probabilmente) la corruzione dei giovani frequentatori del «Liceo».

Accuse poco consistenti dal punto di vista strettamente giuridico. Riflettevano il malcontento di molti Ateniesi per il comportamento incurante della «morale» da parte della concittadina ma anche l’invidia per le ricchezze accumulate a colpi di bellezza. Divenne più ricca di molti frequentatori. O comunque abbastanza ricca da annoverare tra i suoi adoratori persino un membro dell’Aeropago, un certo Grilione, che la donna aiutava economicamente. La mantenuta … manteneva coloro che la prostituivano, prostituiti a loro volta?

Bisogna infine ricordare che Frine era apertamente ostile ai potentissimi macedoni, la cui influenza era altissima proprio nel periodo in cui sembra sia stato intentato il processo. Coincidenza quantomeno sospetta.

Cosa sono le responsabilità e le caratteristiche attribuite a Frine se non il riflesso delle debolezze che affliggono tutti noi? Vizi, limiti, ipocrisie che continuiamo a coltivare e di cui patiamo le conseguenze? Lo dimostra l’ideale ripetizione del processo che da duemilacinquecento anni viene riproposto. L’assoluzione e le feste per la vittoria di Frine coprono la condanna morale che le viene nascostamente inflitta. Parlo non di ciò che viene detto che non corrisponde alle convinzioni profonde di chi, contro di lei, si fa giudice e carnefice; parlo invece del non detto che prende a prestito le ragioni dell’assoluzione per far emergere un pensiero insistente: Frine è una poco di buono, una regina della bellezza che – con la sfacciataggine, l’astuzia e l’esperienza propria del “mestiere” – riesce a salvare la pelle. Utilizzando il solo espediente di mostrarsi … riesce a farsi assolvere. Come vi fosse nella bellezza femminile una potenza che sovrasta tutte le altre. Persino la forza dei giudici. Benedetta sia la forza cosmica che ha voluto le donne!

Ma questa è l’apparenza. Mi sembra di sentire quel che recitano, nel segreto della loro coscienza, i tartufi! Gli ammiratori di ieri e di oggi: «Anvedi la marpiona! Come se l’è rigirati per bene i signori giudici». Con l’aggiunta di epiteti che non si dovrebbero usare mai contro le donne e ancor più inammissibili visto che non vengono usati per definire usi e costumi dei maschi. Per dare un’idea: “puttani”, “uomini facili”, “troioni”.

Diceva Machiavelli che bisogna essere popolo per conoscere i Principi. Chiosando si può affermare che bisogna vivere fra gli ultimi per conoscere i penultimi. E anche i primi. Può essere infatti che Frine abbia vinto per l’uso accorto di maggiore malizia, oltrepassando con abilità da schermitrice lo scudo di composta serietà dei venerabili chiamati a giudicarla. Può essere: aveva lunga esperienza … di loro. Sapeva dove colpire per avere ragione delle insufficienze degli uomini, mal nascoste dietro atteggiamenti d’orgoglio virile. Colpisce dunque e si salva. Guadagnando per di più il plauso obbligato da parte di coloro che, in ogni epoca, si sono levati a giudizio contro di lei, simulando l’intento di lodarla; e nascondendo persino a sé la cornice di pregiudizi, di ghignetti nascosti e poco eleganti, di stigmi sociali. Lo scopo evidente e ammissibile, che la pruderie rendeva inconfessabile, era godere, attraverso la rievocazione, lo spettacolo di Frine nuda, anzi nell’atto di denudarsi. Frine, opera d’arte vivente. Mascherandosi e giustificandosi con la tesi che alla bellezza, quando è troppa, è impossibile resistere. Diciamo anche: che è giusto non resistere. E ancora ecco la nota ipocrisia: la donna che non resiste è puttana; umano, umanissimo invece il maschio che rinuncia a ogni principio pur di favorire gli istinti.

Si dice della sola bellezza. Sulla punta della lingua, sempre in secondo piano, rimane il resto. Che Frine, ad esempio, non è una da sposare. Senza preoccuparsi di appurare, o semplicemente ipotizzare, se eventualmente sia Frine a non volersi sposare. A ridursi in quella condizione servile che è anzitutto costrizione. Al ruolo subordinato previsto nei rapporti fra i generi, ai suoi tempi e in parte ancora oggi.

Poveri noi. Rendiamo grazie a Mneserite, donna moderna, compagna nostra, che ci ha dato l’opportunità di una lezione che – testardi e sciocchi – non abbiamo voluto e continuiamo a non voler esaminare.

2

Iniziamo a farlo.

Un alone di allegra morbosità circonda il caso. Sono certo che ci sarà chi vorrà negarlo; ma finché i commentatori non apporranno motivazioni aggiuntive caratterizzanti la vicenda, mi sento autorizzato a ritenere che Frine può essere evocata e rievocata esclusivamente in ragione – a parte l’attrazione – dall’imbarazzo che produce. Dai punti dolenti che tocca. La macchina narrativa che avvia è una sorta di autodafé sul quale la società si immola, inconsapevole di farlo e indisponibile ad ammettere che lo sta facendo. Il complesso di colpa spinge innanzi, Frine a far da esca. Note dolenti in emersione… Appare la resa dei giudici. Appare il vaudeville, non l’effettiva vicenda umana. Ma soprattutto salgono alla superfice i pregiudizi che accerchiano il femminile. Frine, ammiratissima rappresentante del genere, astuta “conduttrice per il naso”, simile (ma non uguale) ai conduttori televisivi di oggi che Pasolini giustamente designava con il nome di criminali! Parole di simpatia vengono sì pronunciate, ma di finta comprensione. Ci si riflette un po’ e ci si rende conto che la si denigra! Il giudizio perenne a sfavore delle donne, delle «prostitute», di coloro che rifiutano di mettersi in riga. Ma davvero – concedetemi questa protesta – credete ammissibile giudicare un qualsiasi prossimo? Automenarci perennemente per il naso o se preferite i fondelli? Quanta dabbenaggine! O dovrei dire arroganza? Tranquilla esposizione di sé stessi contro chi, per quanto grande, è escluso dalle grandezze del potere…

Un interrogativo, che al solo formularlo chiarisce molti punti: chi profitta di chi, in un rapporto mercenario? Al netto delle ritorsioni che la persona umiliata può prendersi dell’umiliatore, il vantaggio non può che essere del più forte. Il quale, concluso l’affare, diventa parte debole, ma si impone con le leggi, con gli usi e i costumi, con la forza del danaro. Non è Frine – «il rospo» – ad approfittarsi di coloro che bussavano alla sua porta per elemosinarne i favori; sono loro a profittare della sua condizione e della buona predisposizione, per ottenere piaceri che non compensavano, come dovuto, con l’affetto, con l’amicizia e con il sostegno ma solo con il denaro.

Frine, la dissoluta, l’arricchita, è parte debole, la vittima. Colei che usa di sé stessa per difendersi, invece di – cristianamente? – offrirsi in olocausto… Frine, prostituta reale, che continua a seminare erotismo, la cui fama immutata produce a tutt’oggi sorrisi che mascherano pulsioni segrete.

Non rimprovero nessuno di lasciarsi trascinare da queste pulsioni (se mai, biasimo la pratica di dissimularle). Critico l’ascondimento dell’arbitrio, il tirare la pietra e nascondere la mano. L’attitudine a non vedere, di là dal piacere, le condizioni sociali entro le quali lo si soddisfa. Il fatto che nessuno stigmatizzi, con enfasi, il trascinare in tribunale una donna colpevole di disporre di sé stessa come le aggrada, questo sì è motivo di scandalo! È questo a denunciare la doppiezza degli sguardi lanciati sulla nudità di Frine.

Critico dunque l’ossequio alla così detta Maestà della Legge, trascurando quello dovuto all’autodeterminazione degli individui. Ai quali si suggerisce ossequio ai valori di civiltà dei quali ci vantiamo, ma che non tolleriamo siano attuati. Non integralmente, con coerenza. Il richiamo qui non è solo all’autodeterminazione ma anche alla compassione, al rispetto del prossimo, all’ossequio non della miserabile “Maestà della Legge” ma della giustizia, che con la legge spesso ha ben poco a che fare. Senza contare quel che sottende l’esimente dall’imputazione che provoca l’assoluzione. La bellezza di Frine. Una vera enorme sciocchezza. E le altre, allora? Con le brutte come la mettiamo? Le condanniamo senza esitare, degne di un omicidio legale? Di loro e di quelle “dal mediocre appetito” che facciamo? Le gettiamo dalla Rupe Tarpea? Ah, per le brutte e le tiepide solo disprezzo e morte…

Se agli Ateniesi non è apparso lo scandalo del mettere a carico di una «etera» gli atti diversi che sono propri alla “categoria” c’è da chiedersi perché l’iniziativa non suscita sdegno in noi oggi. Tutt’ora fermi al gusto dell’episodio scollacciato; rifiutando di vedere la tragedia della possibile pena capitale, la paura, il terrore, l’orrore di chi sotto le forche caudine del pregiudizio deve passare. Rifiutando di vedere il capro espiatorio di una vasta inconsapevole congiura che scarica le tensioni derivanti dalle passioni di tutti su una sola persona. Viviamo in una cultura che non chiama alla sbarra gli istigatori – complici e prostituti a loro volta – colpevoli della medesima empietà.

Mi fermo qui, alla ragione fondamentale che ha mosso questo scritto. All’assenza di sdegno per la mancanza di rispetto degli uomini d’allora, i quali fino all’ultimo abusano, fino all’ultimo esigono atto di sottomissione – la nudità di Mneserite – per mostrare indulgenza. Fino all’ultimo calpestano la libertà della donna. La libertà sua che ha riflesso immediato in quella nostra. Libertà di disporre del proprio corpo, che si dovrebbe garantire dalle pretese di coloro a cui quel corpo fa gola.

Oggi quel che vale è solamente la libertà del denaro. Farlo circolare, accumularlo in alcuni centri di potere, stabilirne la sacralità rispetto a ogni altro valore. Neppure l’infamia del denunciante, ex amante, è stigmatizzata. Dopo le dolcezze di cui è stato gratificato, spinge l’amante sulla strada del patibolo. Quali siano stati i suoi motivi (per quel sappiamo Frine può avergliene forniti parecchi) quel che ha fatto è imperdonabile. Almeno io non lo perdono.

Frine, dunque, come ogni altra donna varrebbe finché ci diverte e/o nel limite delle sue utilità sociali. Tutto il resto non interessa. Ma è proprio questo disinteresse a essere interessante. E a consentirci di ribaltare il discorso.

 

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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