I duellanti

di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia

 

Hai torto, amico, se pensi che un uomo

di qualche merito debba star lì

a calcolare il rischio di vita e di morte,

invece di pensare se ciò che fa

è giusto o ingiusto e se si è comportato

da uomo onesto o malvagio.

Platone: «Apologia di Socrate», capitolo 28.

L’aria fresca si fece sentire sui suoi muscoli tesi come corde di violino, vogliosi di suonare la melodia per cui si erano preparati in tutti quei mesi di profonda e attiva intesa.

Una scarica elettrica gli percorse la schiena, mentre Ipazia gli metteva addosso un asciugamano di spugna largo, di colore ambrato, che ebbe la buona venuta di riscaldarlo.

Anche se non avrebbe combattuto all’aperto, era comunque una bella cosa, oltretutto quando a fargli quella gentilezza era la sua dolce e battagliera Ipazia.

Il suo sorriso di sole, unito a quelle meravigliose fossette che si formavano ai due angoli delle labbra carnose ogni volta che rideva, aveva il potere di restituirgli forza e concentrazione necessarie per tutto quello che doveva fare.

Non era ancora sicuro di come sarebbe andata, ma certamente non avrebbe permesso a Protagora di mettergli i piedi in testa, nemmeno per sogno, questo era certo.

«Ehi, Platone, sei pronto a prenderti una bordata di calci in bocca o preferisci iniziare dal culo, cosi caghi dalla profonda caverna che hai al posto della tua testa da cazzo?» lo apostrofò una calda e tonante voce maschile, che conosceva molto bene.

«Hai tanta fretta di essere sconfitto, Protagora? Guarda che abbiamo tutto il tempo, si va avanti fino alla morte, dovresti conoscere le regole dell’agogè, oppure hai bisogno di un po’ di smemorina? Piuttosto, hai controllato e rimesso in sesto il tuo Demiurgos? Durante lo scontro non potrai di certo farlo» rispose il giovane dalle spalle larghe e dalla fronte ampia, dal naso lineare e prominente, dalla folta barba nera e dagli occhi azzurri e vivi.

«Ti farò pagare con gli interessi questa tua sbruffonata! Ti pentirai di avermi rotto le palle nel mio territorio, adesso tappati quella fogna e prepara il tuo Demiurgos, sono davvero curioso di vedere se lo hai messo davvero a posto, quel rottame scanchenico e rugginoso. Voglio proprio vedere, voglio» rispose il longilineo ed elegante Protagora, tutto avvolto nel suo abito in pelle scura, tagliato a misura, lisciandosi dapprima il naso aquilino, passando poi le dita sulla chioma nerissima e liscia che adornava la sua testa ampia e dall’ovale ben disegnato.

«Ti sei ricordato di dargli olio? Lo hai rifornito per bene? Hai controllato le giunture? Nell’ultimo scontro con Anassagora hai avuto un po’ di problemi, il Demiurgos Luna ti ha dato filo da torcere, staccandoti di netto il braccio robotico. Si sa che le distrazioni costano care, soprattutto quando si ha la testa gonfia» lo canzonò Platone, suscitando la reazione che si era aspettato.

Protagora corse a tutta forza verso di lui, i muscoli del suo corpo ben allenato tesi allo spasimo.

Coprì la distanza che li separava in un battito di ciglia, complice anche la diversa gravità artificiale presente nella stazione spaziale IperUranos, in rotta per Plutone e Alpha Centauri.

Protagora affondò con tutta la sua forza un pugno di ferro facendo perno sulla gamba d’appoggio, Platone alzò il braccio destro, deviando il colpo al di sopra della testa. Afferrato poi il braccio fece leva sulla spalla e il corpo del malcapitato Protagora fece un volo di alcuni metri atterrando pesantemente di schiena.

«Figlio di una vacca, adesso ti spezzo…» proferì Protagora, ma le parole gli morirono in gola, essendo il suo gargarozzo premuto in quale momento da un piede piccolo e ben modellato.

Alzò gli occhi e vide Ipazia che lo teneva a terra premendogli il piede sulla gola, nella posa dell’airone, tipica apertura di una lottatrice di kung-fu quale era famosa essere quella ragazza dai fluenti capelli neri lunghissimi, raccolti in una lunga treccia, e dagli occhi verdi profondi.

«Cosa stavi blaterando, microbo?» proruppe Ipazia, il cui vestito corto a gonna, una tunica semplice e comoda, tenuta su da spalline sottili che lasciavano scoperte le spalle ben tornite, faceva intravedere a Protagora le mutandine sottili di Ipazia, la quale non fece altro che premergli ancora di più la gola e vibrargli un colpo con il taglio della mano, che stordì momentaneamente il lottatore sofista.

«Maledetta etera, ti farò pentire di… ughh». Protagora non ebbe il tempo di aggiungere altro, poiché Ipazia aveva premuto ancora di più la gola e, facendo perno su quel piede, mollato un calcio a schiacciamento sui “gioielli” di quest’ultimo, il quale poi si ritrovò a ansimare per un poco d’aria, mentre diventava bluastro dal dolore.

«Noi ragazze del Tiaso non siano etere, anche se un ramo di mirto non mi starebbe male, fra i capelli, mio caro Protagora dall’intelligenza nulla. Perché non freni i bollenti spiriti e ti prepari all’agogè che hai tanto voluto, sottospecie di sofista che non sei altro?» puntualizzò Ipazia.

«Non sarebbe davvero una cattiva idea, ragazzi. Finite i preparativi dei vostri Demiurgoi e non fate perdere altro tempo, visto che sicuramente avremo molto da fare su questa maledetta stazione spaziale del cavolo» affermò una voce autoritaria dietro di loro.

Tutti si voltarono e rimasero interdetti nel vedere il governatore Pericle avvicinarsi con incedere lento e preciso al luogo dell’incontro finale della manifestazione olimpica indetta poco tempo prima e che aveva visto partecipare così tanti giovani pieni di entusiasmo e di mente aperta, oltre che di una sana e non troppo velata faccia tosta.

«Governatore Pericle, siamo mortificati. Veramente è stata tutta colpa di Platone se è accaduto tutto questo casino, stavo lavorando al mio Demiurgo quando ha iniziato ad attaccar briga e…» iniziò a dire Protagora ma venne prontamente fermato dalla mano alzata di Pericle, il quale non aveva minimamente voglia di stare a sentire le garbate ma fasulle argomentazioni del miglior esponente della fazione sofista.

«Sono passato per porgervi i miei più vivi complimenti, soprattutto per la passione che avete infuso in questa tenzone e per l’impegno, ben sapendo cosa ci sta aspettando in futuro e la grande e tremenda responsabilità civile e umana che graverà da ora in poi sulle vostre spalle» disse Pericle.

«Governatore, i nostri Demiurgos sono pronti, fra poco le unità inizieranno l’ultima tenzone prima della battaglia del Peloponneso, al largo dei bastioni di Tannhauser. I raggi Beta hanno imperversato fino a poco prima, dobbiamo decidere in fretta come organizzare la fuga o non riusciremo a prendere il largo oltre il sistema solare» disse Ipazia, gli occhi pieni di una fiamma di sicurezza che fece tremare le mani a Pericle. La figlia che aveva avuto da Aspasia non era seconda a nessuno, peccato che non potesse rivelarle la sua discendenza, pena troppi problemi con le fazioni opposte e fedeli a Cimone e ai Trenta Tiranni.

«Ascoltate, in questo momento si sta svolgendo l’ultima olimpiade su suolo greco, il regno di Afrodite presto conoscerà di nuovo il ferro e il fuoco delle armate imperiali dell’Aquila. Le legioni romane stanno tentando l’ultimo attacco per l’egemonia nel continente europeo e noi dobbiamo assolutamente mantenere fede a quanto i nostri antenati si sono ripromessi dopo il periodo di dominio sotto il giogo di Augusto e l’affrancamento di Lucio Domizio Enobarbo Nerone. Dobbiamo portare in salvo quella parte di umanità che ancora non teme di finire stritolata dall’Impero Romano. Purtroppo le notizie che ci giungono dai confini sono a dir poco tremende, abbiamo armato le nuove milizie e cercheremo di trattenerli dall’impedirci la via delle stelle, protetti da Urania e dagli scudi delle città unite nella nuova lega di Delo. Ora, coraggio, chi di voi due uscirà vittorioso dall’Olimpiade guiderà la missione fra le stelle, alla ricerca di un nuovo pianeta dove costruire una nuova Terra, all’insegna della filosofia e del Buon Governo. Chi sono i partecipanti, buon Socrate?» chiese Pericle, gettando un occhio alle figure imponenti dei Demiurgos, i robot combattenti alti una ventina di metri, appannaggio del governo greco grazie alla mirabile opera ingegneristica di Archimede e della scuola di Erone.

«Mio signore, sono Platone di Atene e Protagora di Samo, per la precisione l’uno degli Idealisti e l’altro per i Relativisti. Hanno costruito appositamente queste versioni di Demiurgoi per dotarli in forze al nostro esercito, sia di terra che di cosmo. E sono pronti a testarli nella gara olimpica, come prescrive la legge emanata da vostra grazia. In vero, non potrei definirli filosofi più grandi, sarà solo per un millesimo e per la loro bravura che l’uno prevarrà sull’altro. Anche se devo dire che le mie simpatie vanno tutte all’alimentazione rinnovabile e non soggetta a lavorazioni» rispose Socrate, strizzando l’occhio ai presenti.

I Demiurgoi apparivano come guerrieri greci in alta armatura, con l’elmo stilizzato e la cresta sostituita da un alto stemma. Le spalle erano modellate solidamente a figura semplice, mentre le gambe apparivano sottili alle caviglie, protette da ciò che sembrava uno schiniero. Le armi erano riposte dentro appositi vani, pronti a scaturire fuori all’ordine vocale del suo pilota, il quale entrava in piena fusione grazie all’interfaccia bio meccanica contenuta nello stemma di Elios e di Selene.

«Spiegami meglio questo ultimo punto, mio buon Socrate. Dovrò presenziare come arbitro e voglio essere reso consapevole di tutto quello che mi può aiutare a seguire meglio l’incontro» ribattè Pericle, ammirando i guerrieri meccanici e i loro piloti.

«E’ presto detto, Governatore. La casata dei Sofisti, forti del pensiero relativista e della meccanica quantistica, hanno perfezionato il motore dei Demiurgos, creando una propulsione microatomica alimentata da particelle di dilitio, un minerale radioattivo scoperto da un abitante dei Paesi bassi ancora tempo addietro ma perfezionato solo da loro. Al contrario, Platone, degli Idealisti, ha invece perfezionato un sistema a energia solare ibrida, alimentata in assenza di sole da ciò che denomina “vento cosmico”, sfruttando dunque il forte scambio elettomagnetico dell’energia cosmica primordiale. A quanto dice, pulita e perfettamente sicura, anche se non so quanto efficace in battaglia dove notoriamente ci si scontra in condizioni climatiche e ambientali a dir poco fuori ogni norma» spiegò Socrate.

«Bene, allora, non perdiamo altro tempo. Ho mandato nuovamente Spartani, Ateniesi, Tebani e Tespiesi insieme ai cavalieri Iloti per formare nuovamente il muro focese per porre freni all’avanzata imperiale. Hanno subìto grosse perdite non previste durante la conquista del territorio di Atlantide, pare che un’unità Metatron MK-1 si sia rivoltata per un guasto meccanico contro le unità legionarie dei LAM e le abbia spazzate via in un colpo, con la rapidità delle creature del nostro buon Efesto. Non disperiamo quindi, ci batteremo con tutte le nostre forze. Le unità che sono state inviate sono armate con esoscheletri potenziati Protesser EL-2, abbiamo avuto a disposizione due carri armati Gordian MZ-1, purtroppo saranno inservibili nella stretta gola delle Termopili, li metteranno a protezione del secondo sentiero. Avanti, ora, Platone e Protagora, fateci vedere di che cosa sono capaci i vostri Demiurgoi» incitò Pericle, prendendo il posto vicino a Socrate.

Platone e Protagora presero posizione, pronti a entrare dentro i loro giganteschi automi da combattimento.

Ipazia prese un asciugamano, un bacile pieno di acqua calda e una spugna, avvicinandosi poi a Platone, che ripeteva per l’ennesima volta il controllo generale dell’apparato del suo Demiurgos.

«Posso darti una rinfrescata, ragazzo dalle ampie spalle? Sei tutto sudato e non vorrei che accampassi qualche scusante di sconfitta per un banale raffreddore» lo canzonò Ipazia, strizzando l’occhio.

«Perché no? Hai mani d’oro e penso che un bel massaggio oltre alla rinfrescata non possa fare che bene. Appena il diagnostico sarà finito, inizieremo. Vorrei essere già nel cuore della battaglia, invece che perdere tempo con queste inutili ritualità. Ci fanno solo essere impreparati all’avanzata dei Romani, io e Protagora saremmo più utili alle Termopili, ora!» commentò Platone, sedendosi sulla pietra, coccolato poi dalle mani forti e affusolate di Ipazia.

La ragazza iniziò a massaggiargli il collo, per poi passare alternativamente alle spalle forti, temprate dal duro allenamento al pancrazio e al pugilato, arti in cui Platone eccelleva, come nella dialettica. Se fossero stati altri tempi, avrebbe intrapreso la carriera nell’agorà, invece che continuare a servire da garzone a Socrate nella sua bottega di statue.

«Oh sì, grazie, proprio sulla spalla destra, è da un po’ che mi procura sempre noie e non posso permettermelo. Protagora è un fine matematico oltre che un relativista non indifferente. Cambiando il punto di vista della percezione, ha trovato il sistema per regolarizzare il flusso del dilitio, assolutamente geniale, anche se non escludo sia stato aiutato da Gorgia, che gli ha fornito molto denaro in nero per continuare la ricerca. Io ho dovuto praticare con mezzi di recupero dai campi di battaglia e tanti studi e pratica con i calcolatori bruciati e inservibili, gettati nelle discariche di Samo» disse Platone, abbandonandosi alle sapienti manipolazioni di Ipazia e beandosi momentaneamente della vista della curva del piccolo seno di lei.

Avrebbe avuto voglia di baciarlo prima di avventurarsi, sarebbe stato un incentivo incredibile, dato che moriva dietro a Ipazia ancora dai tempi del suo apprendistato all’Accademia ateniese.

Erano subito diventati amici, e con il tempo si ritrovavano sempre più spesso a studiare insieme e praticare le medesime attività agonistiche, non ultima il pancrazio, dove la ragazza lo aveva messo a terra per ben due volte consecutive.

Il diagnostico giunse al termine, come il massaggio di Ipazia. Platone non sentiva più dolori alla spalla, come sempre la sua amica aveva le mani d’oro. Sperò che non percepisse il battito del suo cuore, improvvisamente aumentato con il contatto delle sue mani, non avrebbe saputo che dirle in quel momento e non ci teneva a creare casini e andare a lottare con la testa non pienamente concentrata.

Si alzò per salutare Ipazia e si ritrovò le labbra di lei appoggiate alle sue, scariche elettriche lo attraversarono repentinamente, il suo cuore aumentò i battiti, mentre le sue mani abbracciarono Ipazia, tenendola stretta a sè, mentre si baciavano con passione.

Si staccarono dopo poco, ansimanti e con larghi sorrisi disegnati sul volto.

«Non pensavo…» iniziò Platone.

«Non è colpa mia se non sai leggere i segnali e ti perdi nella contemplazione delle idee, mio caro. Vai e torna vincitore o non ti darò accesso alla seconda parte» ribattè Ipazia, tirando fuori la linguaccia.

Platone le strizzò l’occhio, raccolse la sua giacca e si mise davanti allo stemma di Elios e Selene, pronto a dare l’ordine.

«Attivazione scanner!» proferì la sua voce stentorea, avvolto immediatamente da un raggio traente che lo fece entrare direttamente nella cabina di pilotaggio del Demiurgos.

Ritrovò facilmente il semplice quanto immediato sistema di strumentazione e pilotaggio, che aveva reso famosi i Demiurgoi, creato dalla fervida mente di Archimede.

Il casco e i guanti a realtà virtuale aumentata erano davanti a lui, prontamente indossati con lentezza teatrale. Un brivido gli corse lungo la schiena mentre li indossava.

Si chiese se Protagora stesse provando le stesse cose.

Dal canto suo il Sofista non perdeva di certo tempo in preparazioni strane o baci all’ultimo minuto, come si stava ripetendo, per aumentare la concentrazione.

Non aveva tempo per quelle cose, il buon Protagora, fine dialettico nelle dispute dell’Agorà, membro onorario dell’Aeropago e della scuola di Erone, dove si era distinto per l’acume e la capacità inventiva oltre che per le sue ricerche in campo quantistico.

Era nato di famiglia povera, nella sua nativa Trinacria, umili pastori che fecero enormi sacrifici per farlo studiare presso i migliori insegnanti della colonia di Siracusa.

Ricordava con un certo dolore misto a piacere i giorni passati a studiare, ripiegato sui libri, chiuso nei laboratori, unica compagnia attrezzi e ampolle.

Ora ringraziava di essere lì, a mostrare il proprio valore e la propria intelligenza, non gliene importava nulla, del resto di tutte le cose era misura l’uomo e non faceva eccezione nemmeno quell’assurda guerra imperialista, mossa ancora dall’Impero Romano. Presto forse avrebbe dovuto trovarsi un altro datore di lavoro, se la guerra fosse andata come avevano previsto gli esperti strateghi di Sparta. E come era andata la conquista delle isole di Atlantide, nonostante fossero ben preparate.

Egli si sarebbe sempre salvato, bastava solo un poco di adattamento e accettare alcuni compromessi senza per questo rinunciare ai proprio obiettivi.

Doveva mettercela tutta, non poteva rimetterci nulla, aveva già dato tutto a quello che aveva fatto nel corso degli anni, doveva sopravvivere anche a una guerra su scala globale.

«Attivazione» urlò chiaramente.

Si ritrovò a guardare con gli occhi dell’elegante gigante di ferro, poteva sentire con i suoi sensori a lungo raggio, percepire le variazioni di temperatura all’esterno, il vento sulla corazza.

Controllò lo stato delle armi anche se lo aveva già fatto a terra.

Vide il Demiurgos di Platone che lo attendeva a piede fermo, la guardia alta e pronto a riceverlo. Gli fece cenno di avanzare. Protagora non se lo fece ripetere.

La terra fu sconquassata dai passi in corsa del Demiurgos di Protagora, mentre Platone non si muoveva di un passo.

Protogora proferì l’ordine di estrazione della spada in dotazione, la quale apparve nella sua mano destra, non troppo lunga e acuminata all’estremità, l’elsa brillava di una luce rossa metallica.

La lama calò possente, mentre Protagora emetteva un suono gutturale come a caricare di energia positiva la sua arma.

Platone scartò di lato, abbassandosi sulle mani e facendo saettare le gambe in avanti, in una sapiente spazzata bassa, la quale ebbe l’effetto di colpire le robuste gambe di Protagora e di farlo rovinare prepotentemente in basso, con il muso a terra.

Platone scattò in piedi, in posizione di difesa, le braccia alte strette a pugno, mentre Protagora si rialzava di slancio, mostrando una notevole agilità e destrezza nel pilotare il suo automa.

Il Demiurgos di Protagora si avvicinò lentamente a Platone, non voleva dar adito a nulla, i respiri erano clamorosamente sospesi, davvero nessuno si aspettava una tenzone simile, nonostante tutto.

Protagora si lanciò in avanti mimando un affondo dall’alto, poi si corresse montando un calcio lungo, che andò a colpire in pieno petto il Demiurgos di Platone.

L’Idealista percepì perfettamente tutta la potenza del colpo, come se fosse stato il suo, il sistema di connessione neurale era pensato per creare una perfetta simbiosi tra le due entità, l’effetto collaterale dei dolori era del tutto trascurabile, anche se in quel momento Platone malediceva tutti gli inventori.

La spada di Protagora calò ancora colpendo Platone alla spalla con la parte piatta della lama.

«Punto. Di nuovo ai vostri posti!» comunicò Pericle attraverso il sistema radio trasmittente.

I Demiurgoi ripresero posizione, la tensione era alle stelle. Ipazia sperò vivamente che fosse Platone a vincere. Era riuscita a fare il primo passo solo ora e non intendeva perderlo sul più bello.

Il segnale d’inizio si levò chiaro, questa volta Platone partì all’attacco, estraendo dalla cintura due fruste elettriche, che si avvolsero intorno alle gambe dell’automa di Protagora.

Tirò verso di sé, il Sofista precipitò a terra con un bel tonfo, mentre con un balzo felino, impensabile per una stazza simile, Platone si ritrovò a cavalcioni di Protagora, con una corta lama spuntata dall’avambraccio e puntata alla gola.

«Parità, la prossima è decisiva. Tutti ai posti. Come ti sembra che stia andando, mio buon Socrate?» chiese Pericle, impressionato dalla formidabile potenza dei due Demiurgoi.

«Sono davvero spettacolari, entrambi modificati ed equipaggiati egregiamente dai loro due padroni. Ognuno congeniale per il modo di confrontarsi dell’altro, niente da dire. Ora si vedrà davvero primeggiare l’abilità e l’intelligenza, oltre che una bella dose di fortuna. Non si dimentichi che in questa tenzone, si permette di usare solo armi da corpo a corpo, non a distanza. Sarebbe bello vedere i raggi fotonici di Platone come sono stati modificati in un ottimo colpo finale, niente da dire» rispose Socrate, con un sorrisetto sornione stampato sul viso.

«Non ne dubito, vecchio trippone. Ora vedremo il finale, chi dei due andrà a far parte dell’equipaggio di sicurezza in marcia verso le stelle, alla ricerca di un nuovo pianeta da abitare. Pronti, ai vostri, posti. Lottate!» urlò Pericle.

I Demiurgoi si avvinghiarono strettamente in una presa, ognuno le mani strette in posizione per rovesciare l’altro.

Era una prova di forza formidabile: mentre l’uno tentava di far leva sulla sua anca, l’altro tentava di atterrarlo facendo leva sulla caviglia.

Il metallo strideva ferocemente, provocando scintille e mandando messaggi di dolore ai due duellanti.

Platone colpì Protagora con una violenta testata, poi allontanò le sue braccia allargando le proprie, menò una ginocchiata al ventre corazzato dell’automa, per poi estrarre di nuovo le fruste elettriche, che vibrò da vicino, imprigionando Protagora.

Estrasse nuovamente il pugnale corto e tirò a sé il Demiurgo, il quale volò a peso morto, sospinto da quella formidabile leva.

Con sua sorpresa, Protagora compì una capriola carpiata che spezzò la caduta, atterrò colpendo con un calcio volante a piedi pari la possente stazza del Demiurgos platonico.

Caddero entrambi a terra, mentre Protagora estrasse la sua spada acuminata, vibrandola alla gola di Platone, il quale in quel momento fece arrivare la lama del suo pugnale proprio all’altezza della gola del Demiurgo di Protagora.

«Pari. E’ incredibile. Impossibile. Socrate, sono dei guerrieri straordinari, ma secondo la legge solo a uno di loro è concesso guidare la spedizione verso le stelle» sentenziò Pericle.

«Governatore, il momento è tragico, fra breve l’Impero Romano muoverà il suo attacca alle Termopili e la nave stellare aspetta di partire quanto prima dal porto del Pireo. Non possiamo andare tanto per il sottile, decida lei secondo saggezza o li faccia fare un incontro di spareggio. Ma si muova, siamo andati anche troppo oltre, dai confini delle Termopili e persino da Platea sembrano arrivare notizie ben poco rassicuranti» rispose Socrate.

In quel momento il cielo prese a oscurarsi, i lampi si fecero frequenti, Ipazia comprese subito cosa stava accadendo, lo aveva provato ancora quando era stata fatta prigioniera dei Romani, durante il terzo atto purificativo delle minoranze etniche a Siracusa, dove aveva vissuto.

«E’ la bomba di fuoco della legione romana, sono già qui, presto, non c’è più tempo, fate partire il razzo vettore, ora!» urlò la ragazza, prendendo poi la ricetrasmittente che Pericle portava con sé in quel momento.

«Ragazzi, coprite la nostra ritirata, adesso li aiuto anch’io. Fate attenzione e non rimanete nel cerchio del vortice o sarete distrutti senza pietà, chiaro?!» urlò Ipazia.

«Ricevuto. Eseguiamo!» risposero in coro i due duellanti.

Ipazia sospinse fortemente Pericle e Socrate verso l’interno di Atene in direzione del razzo vettore, nel frattempo premette un pulsante sulla fibbia della cintura e un’armatura potenziata venne lanciata dalla rampa di lancio delle Cariatidi dell’Acropoli.

«Ora voi andate avanti, lì c’è una carrozza motorizzata, in pochi minuti sarete dentro al razzo. I motori erano già caldi e pronti alla partenza, io vi copro in attesa della partenza. Poi andrò ad unirmi insieme agli altri alle Termopili, costituiremo in quel luogo l’avamposto di Resistenza. Capito tutto?» disse perentoria Ipazia.

Socrate e Pericle annuirono, salendo sul veicolo, il quale partì rombando verso il Pireo, mentre l’imponente razzo vettore troneggiava alto e possente, in attesa di divorare i cieli.

Protagora e Platone intanto videro con i loro occhi la potenza distruttiva della bomba di fuoco: in pochi minuti tutta l’ala orientale della città di Atene era stata distrutta, i palazzi carbonizzati e i pochi occupanti incendiati.

Corsero insieme nel luogo in cui doveva trovarsi Ipazia e la trovarono trasformata nella sua armatura potenziata, simile a una principessa di metallo brunito, oro e argento. L’elmo era perfettamente aderente alla testa, simile alle fattezze di Atena, mentre la corazza portava sul petto una placca metallica a forma di lettera omega. Un mantello di porpora spuntava dalle spalle e le cingeva il corpo, non un inutile orpello, ma un tessuto corazzato che fungeva da potenziamento alare e da protezione dai colpi inferti, mentre una lancia energetica, di colore rubino, faceva bella mostra di sé nelle mani della guerriera del Tiaso.

«Ehi voi due, i sensori a lungo raggio dell’Acropoli hanno individuato un contingente in avvicinamento dalle penisole di Costantinopoli, costituito soprattutto da Legionari in Armatura Meccanizzata e da robot Metatron MK-1. Alle Termopili sono stati presi d’assalto dal contingente proveniente dalle terre nordiche, stimano il numero all’incirca tre volte tanto le nostre forze. Ho mandato Pericle e Socrate al razzo vettore, ma hanno bisogno di una manciata di minuti affinché il treno elettrico li porti alla base di lancio del Pireo. Cosa facciamo?» chiese Ipazia.

«Hai chiamato Saffo e Aspasia? Aristotele è già partito per le Termopili? Demostene è sul razzo vettore, pronto a partire come prestabilito?» chiese Protagora, con voce incolore.

«Da verifica appena effettuata, Atene è vuota, l’equipaggio del razzo vettore è al completo, sono cinquanta fra uomini e donne, costituiscono il fronte di ricostruzione e miglioramento dell’uomo che andrà a colonizzare Marte, il pianeta di sangue. Ragazzi, siamo soli a fermare l’avanzata di un esercito che ha aggirato le nostre principali difese e sta tenendo impegnato il nostro maggiore contingente dentro una stretta vallata da cui non c’è uscita!» esclamò Ipazia.

«Calma, ho appena inviato il segnale di riunione a Saffo. Lei e Aspasia sono pronte con gli altri due Demiurgos, purtroppo temo che il razzo dovrà partire senza di noi protettori. Cercheremo di fermare l’esercito per il tempo necessario affinché l’astronave Argo riesca ad uscire dalla stratosfera terrestre. Avanti, compagni! Facciamo vedere di cosa sono capaci i Demiurgoi!» urlò Platone nella ricetrasmittente.

«Andateci piano, ragazzi! Qui non siete in un rapporto paritario e probabilmente fra pochi minuti le legioni meccanizzate dell’Impero Romano vi faranno vedere i sorci verdi. Noi saremo pronti a partire tra una decina di minuti, voi cercate di reggere per un po’ di più, il tempo necessario per Demostene» gracchiò una voce familiare e molto paterna.

«Socrate, maestro! Siamo contenti di sentirvi! Come procede da voi?» chiese Platone.

«Bene, l’equipaggio è spaventato ma tiene botta, sono già tutti nelle capsule inerziali, pronti ad affrontare questa nuova avventura. Fedro e Critone ti salutano tanto, hanno detto di dare quattro frustate elettriche al culo dei generali imperiali, soprattutto a quella meretrice di Lady Baracross. Dopo la carneficina perpetrata ad Atlantide, è il minimo che si possa fare. Ah, il nostro addetto alle comunicazioni e l’addetto alla rotta, i gemelli Ippia, hanno detto di aver intercettato alcune trasmissioni che i Romani hanno tentato di disturbare con i loro sistemi. Sembra che Tebe sia sotto attacco da parte delle truppe Neptunus, i sommergibili imperiali di nuova concezione. Penso che anche quelli siano metamorfici, ma il Tiaso a questo proposito non ha ancora saputo dirci alcunché di certo. E a quanto sembra gli Sparvieri e le Aquile Volanti, durante il bombardamento a tappeto su Sparta sono state colpite duramente da cinque bombardieri Voltes, appartenenti a uno squadrone ribelle, sembra proprio quelli che hanno perso durante l’insurrezione avvenuta dopo la conquista di Atlantide» elencò Socrate, con un tono ironico nella voce.

«Stai dicendo che non erano solo balle riguardo alla vicenda dello squadrone ribelle che ha fatto secco un Karibus e un Metatron MK-1? La nostra indagine spionistica non era riuscita a venire a conoscenza di altro, a causa del nuovo sistema di codifica delle trasmissioni segrete e non siamo riuscite a reperire alcuna fonte governativa» chiese Ipazia, agganciandosi con la sua trasmittente in modalità sicura e codificata.

«A quanto sembra no, mia cara Ipazia. Ippia minore mi sta confermando proprio tutto, era in ascolto di una trasmissione fra due LAM, evidentemente questi due beoti non avevano la minima concezione dell’importanza delle trasmissioni sicure, infatti sono subito stati ripresi dal comandante. Però è incoraggiante, se dovesse mettersi proprio male, andate nel rifugio sicuro di Sparta, invece che dirigervi alle Termopili. Non sono sicuro che troveremo ancora qualcuno ad aspettarci. L’ultima trasmissione effettuata da Aristodemo prima che i Karibus facessero il loro ingresso nella piana, era tutt’altro che incoraggiante, ma si saranno sicuramente battuti con onore, come sempre da parte della discendenza dei Leonida. Vedo se riesco a farvi agganciare le frequenze da Ippia minore, così potrete mettervi in contatto con il governatore Pausania, che sta organizzando egregiamente la resistenza spartana. Forse anche con Epaminonda, per la resistenza tebana, se non vengono spazzati via dai Neptunus, come ho paura che accada» disse Socrate.

«Bene, maestro. Ci mandi l’ultima comunicazione di contatto e poi prendete il volo, fra poco l’aria comincerà a scottare di bombe di fuoco e non vogliamo che le cose si mettano male» disse Ipazia, ma la trasmissione fu disturbata dall’esplosione che sbalzò la ragazza a parecchi metri di distanza, mentre i due Demirgoi balzavano a proteggerla con la possanza dei loro corpi.

La bomba di fuoco passò su di loro devastando completamente la terra, le abitazioni divennero acqua sporca, mentre tutta la vegetazione finiva carbonizzata, la colonna di fuoco procedeva guidata da qualcuno, sicuramente non troppo distante.

«Ipazia! Parlami, ti prego!» urlò Platone.

«Sto bene, ti ringrazio. La mia armatura può reggere anche l’impatto del napalm termico, per fortuna. Avanti, il mio sensore ha individuato attività bellica poco distante da qui, ci vorrà una manciata di minuti prima di ingaggiare battaglia» urlò Ipazia.

«Sono già qui, i maledetti imperiali» disse Protagora.

Alzarono i visori e videro chiaramente il contingente dei LAM che si avvicinava rapidamente in volo verso di loro, seguiti da un’unità Karibus U6, il nuovo tank antropomorfo polifunzionale.

«In posizione, ragazzi. Pronti» disse Platone.

«Siamo nati pronti!» dissero in coro Protagora e Ipazia.

I due Demiurgoi si lanciarono all’attacco, mentre Ipazia dirigeva volando contro la numerosa falange di soldati meccanizzati, che tanti morti avevano portato negli altri Paesi.

Dalle spalle dell’armatura di Ipazia fecero la loro apparizione due mitragliatrici energetiche, mentre nelle mani brillavano uno scudo e una spada-laser, pronti a incrociare battaglia.

A pochi metri dall’impatto, Platone si chiese se fosse giusto procedere in quel modo, se non fosse d’uopo ritirarsi e allearsi con le truppe degli invasori, per continuare a vivere, invece che morire stupidamente per i proprio ideali di saggezza e libertà.

Ripensò agli insegnamenti di Socrate, alle dispute con Protagora, il più grande diplomatico opportunista che avesse mai conosciuto in vita sua, eppure era al suo fianco, spalla a spalla, pronto a combattere fino all’ultimo respiro.

Il rombo del razzo che si avventava verso il cielo disciolse in un lampo la pensante pietra dei dubbi, nelle mani del Demiurgos di Platone apparirono le fruste elettromagnetiche, la spada di Protagora fece il suo ingresso trionfale.

Tutto ciò che ne seguì fu un rombo di tuono e fiamme.

BREVE (E SUBDOLA) NOTA

Io so – però non ve lo dirò (avete presente il famoso discorso shakespeariano «Non son qui per parlarvi di Cesare»?) – che questo raccontino costituisce il sequel del romanzo «Obscura lux». No, non ve lo dirò. Tanto meno saprete da me che Fabrizio Melodia ha praticamente finito il romanzo. No, non ve lo dirò: perché Barbieri è «un uomo d’onore» e non svela i segreti. (db)

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