Il bambino nell’acquario, Lunar Park e Jay McInerney

tnc-bret-easton-ellis.jpg

Bret Easton Ellis

IL BAMBINO NELL’ACQUARIO, LUNAR PARK E JAY MCINERNEY

di Gianluca Ricciato

 

 

hedda-gabler«I bambini erano inaffidabili – gli psicofarmaci che prendevano ne erano la prova. Inoltre Robby aveva appena cambiato antidepressivi. Gli avevano prescritto il Luvox per gli attacchi d’ansia che lo tormentavano da quando aveva sei anni e che dal mio arrivo si erano fatti più intensi – chi poteva davvero dire quali fossero gli effetti collaterali? Il suo medico ci aveva assicurato che non ce n’erano, salvo qualche leggero problema gastrointestinale, ma i dottori dicevano sempre così, e comunque senza quella medicina Robby non riusciva a star fermo. Senza le pasticche non sarebbe riuscito a superare il planetarium. Senza il Ritalin non si sarebbe mai spinto fino al centro commerciale per cercare un costume, come aveva fatto all’inizio della settimana. Per poco non scivolai su uno skateboard, entrando nella sua stanza, ma il volume della Tv era così alto che Robby, seduto sul letto, non se ne accorse.»

(Bret Easton Ellis, Lunar Park)

 

«Bret Easton Ellis è disperato. E’ disperato da decenni e la sua disperazione viene declinata in forma di un disgusto che si percepisce come cinismo, come mimesi disincantata di un occidente che stravolge se stesso e marcia trionfale verso la sua fine. L’accoglienza che hanno avuto Less than zero, American Psycho e Glamorama costituisce un filtraggio che non ha permesso, secondo uno sguardo critico all’altezza della mitopoiesi di cui quest’autore era ed è formidabile cantore, di osservare fino a che punto covasse tragedia sotto la sua scrittura, ovvero sotto il suo “io”. L’affermazione proditoria – volontariamente proditoria – che Patrick Bateman, il serial killer di American Psycho, era una messa in scena della sagoma potente e magnetica di suo padre, ha permesso un’esternalizzazione del fenomeno Ellis almeno pari allo tsunami di glam da cui è stato investito. Questo ragazzo triturato dal sistema di un divismo editoriale che mima goffamente le modalità dello showbiz più stellare, non ha soltanto prodotto dei danni in personaggi come Ellis, ma ha esercitato un effetto salutare: quello di due unghie che fanno fuoriuscire il pus dal foruncolo. Perché Ellis è strapieno di pus psichico e American Psycho non era semplicemente un’analisi sociologica in forma narrativa o una profezia a brevissimo termine sulla decadenza dell’Impero: era il grido disperato di aiuto che veniva lanciato da un uomo che si stava stravolgendo nonostante il suo talento, nonostante la percezione della profondità di quanto fosse tragica la vita di tutti, la sua vita, la vita in sé.» (Giuseppe Genna)

 

Ho sempre considerato Bret Eaton Ellis il meno amato dei miei amati americani (gli altri sono Jay McInerney, Leavitt, Carver e Fante). Ma mi sbagliavo, e l’ho scoperto quando finalmente ho deciso di prendere in mano Lunar Park, dopo anni che stazionava in libreria, e per cui avevo la stessa attrazione mista a paura che è toccata a un altro libro che, come Lunar Park, mi ha cambiato molti connotati mentali (parlo di What a carve up – La Famiglia Winshaw di Jonathan Coe).

Questo perché gli autori che ho citato hanno un tratto comune che me li fa amare, ma è un tratto spesso difficile da cogliere e anche da rendere con la scrittura. Potrei definirlo intimità libertaria: raccontano a partire da sé, in un andirivieni tra fiction e vita reale che non è realismo oggettivante, sguardo dal’esterno, ma tentativo di riprodurre il vissuto emotivo attraverso la narrazione. Questo significa che non sono libri né (totalmente) politici né (totalmente) intimisti. Gli eventi non vengono narrati dall’esterno, o attraverso ricostruzioni storiche, ma vengono raccontati a partire dalle emozioni di uno o più personaggi più o meno intricati con la vita reale di ognuno degli autori.

220px-Lunar_park.jpg

Nella citazione iniziale sui bambini e gli psicofarmaci, Bret Easton Ellis, che è anche un personaggio di Lunar Park (è una narrazione in prima persona “reale”), ha un figlio di nome Robby, con cui ha un rapporto complicatissimo a causa di una serie infinita di suoi errori legati alla sua vita dissoluta (e alla sua stronzaggine di scrittore americano di successo). Attraverso il suo rapporto con Robby, attraverso le psicosi di Robby, della sorellina, del leitmotiv ossessivo che attraversa tutto il libro, cioè le notizie sui bambini che spariscono, attraverso la descrizione della loro sofferenza intima, Ellis sta descrivendo un’oppressione totale, definitiva, quella che gli adulti esercitano nei confronti di sé stessi e dei loro figli, inconsapevolmente, nelle società capitaliste globali agli inizi del Terzo Millennio. E’ una oppressione talmente forte ed invisibile che non si può descrivere attraverso narrazioni “rivoluzionarie” classiche, ma è, evidentemente, anche e soprattutto una questione che attraversa la politica in tutti i sensi, e in particolare la bio-politica e la psico-politica: il controllo sui corpi e sulle menti, l’aver reso la vita quotidiana un concentrato di paure, la strada e gli altri l’oggetto di un terrore paralizzante, l’accanimento terapeutico fuori controllo e l’ossessione anestetizzante per i virus, la servitù coattiva degli stili di vita alle leggi e all’immaginario del mercato, l’atomizzazione dei rapporti sociali, la solitudine e gli attacchi di panico. Non è una questione personale in senso intimista-romantico, e non è una questione politica per come è stata declinata la parola politica nell’Ottocento e nel Novecento.

Tutti gli autori che ho citato hanno affrontato la narrativa in questo modo, per quanto mi riguarda, a partire dal più antico, Fante, che descriveva sottotraccia gli albori della società dei consumi sulla West Coast, negli anni Trenta-Quaranta del Novecento. Questo è probabilmente il movente, più o meno consapevole, del bisogno di scrivere, ma naturalmente non conclude le caratteristiche e le tensioni di questi autori. La ricerca del piacere, la liberazione dei desideri, la descrizione della vita americana e anche tutto lo spirito vitale e ludico ne fanno parte e sono centrali, ma si confrontano con quest’oppressione: nella descrizione intima, quotidiana, attenta alle emozioni e al personale, c’è tutto, il bello e il brutto, il piacere e l’orrore. Ci sono legami naturalmente con la cultura jazz, con il beat, con l’underground statunitense in genere. Ma c’è qualcosa di diverso, e qualcosa in più.

Ellis in Lunar Park dà sfogo letteralmente ad una narrazione horror, tanto che sembra quasi a tratti ricalcare Stephen King. Il suo modo di essere sulla cresta dell’onda come scrittore, di riuscire a comunicare con le masse e con il main-stream da sempre, di essere appunto una star-system, che è probabilmente la forza e il limite del suo personaggio, viene svelato in questa narrazione, che fa i conti proprio con tutto questo. Ed è questa la cosa “rivoluzionaria” di Lunar Park, che nella sua follia è un libro imprescindibile per capire la società degli anni Zero (è stato pubblicato nel 2006). Ma ci sono già state tante recensioni e interviste su questo testo, quindi non mi dilungo oltre.

Per finire questo discorso voglio però raccontare un’ossessione bella che mi accompagna da anni e che si potrebbe racchiudere idealmente in un triangolo formato da Jay McInerney, Donald Fagen e Michael J. Fox, in rappresentanza rispettivamente della letteratura, della musica e del cinema.

Jay McInerney, oltre ad essere un personaggio di Lunar Park e un amico di Ellis nella vita reale, è anche e soprattutto un grandissimo (per me) scrittore, newyokese d’adozione (è originario del Connecticut). Il suo testo migliore per me è Good Life, una storia d’amore complicata che nasce nei giorni successivi e in conseguenza dell’attacco alle Twin Towers, ed è il libro emblema di quella intimità libertaria che stavo cercando di descrivere (attenzione che la definizione non ha nulla di “scientifico” e me la sono inventata io per cercare di spiegarmi).

mcinerney.jpg

McInerney ha esordito con Bright Lights, Big City (“Le mille luci di New York”, in italiano), celebre romanzo degli anni Ottanta in cui un giovane giornalista aspirante scrittore e amante della cultura viene fagocitato e triturato da una città in preda allo sviluppo sfrenato, al cinismo delle vite aziendalizzate, all’ossessione del sesso, ai fiumi di cocaina che arriva in città dai traffici con la malavita colombiana. E con una moglie che lo lascia per fare carriera nello star system, e con una madre che muore di cancro, e con la sua esistenza che perde giorno dopo giorno qualsiasi senso. Da questo libro è stato tratto un film con la regia di James Bridges e con protagonista Michael J. Fox (strepitoso) nei panni dello scrittore. Nella parte finale del film, dopo l’ennesima notte folle, anzi dopo l’ultima notte folle, accade un episodio chiave.

“Il cervello sta cercando la sua vita d’uscita, ho paura di tutto, ma sto bene” dice Jamie, il protagonista (il nome lo sappiamo solo nel film), in una telefonata notturna con una ragazza che è già a letto, telefonata fatta appartandosi durante un party in cui è presente la sua ex-moglie di cui è ancora innamorato e che si è totalmente venduta all’arrivismo, almeno dal suo punto di vista. Vicky, la donna a cui telefona e a cui si sta affidando è una delle poche persone che riescono a dargli ancora un senso, dopo la morte di sua madre. Ed è una donna non a caso.

Jamie lascia la festa e cammina verso l’alba dell’isola di Manhattan. Baratta i suoi occhiali da sole firmati per una baguette. Guardando la Grande Mela, pensa all’alba della sua civiltà con “i coloni arrivati per primi dal vecchio mondo”. E’ l’alba della sua nuova vita.

La colonna sonora che accompagna tutto questo è composta da Donald Fagen, voce degli Steely Dan negli anni Settanta ed eclettico cantautore che è riuscito a catturare in musica l’atmosfera di quei giorni. E in particolare, una sua canzone è la chiave di tutto il film: Century’s End.

Perché il mio anticapitalismo affonda le sue radici paradossalmente (anche) nella cultura urbana statunitense tra Los Angeles e New York, è quello che forse sto cercando di spiegare a me stesso da un paio di decenni, e che ho cercato di spiegare ora con questo racconto.

E tutto questo, qualcuno che ringrazio, lo ha racchiuso nel video qui sotto.

Gianluca Ricciato

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *