Il Paris-Rulebook per salvare la terra

di Francesco Martone (*)

Verso la COP24 di Katowice. 1° giorno.

Sono nel bus che ci sta portando da Cracovia a Katowice, un viaggio di almeno un’ora per arrivare al centro conferenze, un enorme conglomerato di cemento armato, di stampo sovietico, che insiste nei pressi di una vecchia miniera di carbone trasformata in museo.
Vecchie strutture di acciaio, torri di estrazione che restano là come a testimoniare un passato remoto. Come se il carbone fosse già relegato a relitto della storia. Così non è e probabilmente non sarà neanche stavolta.
Oggi iniziano ufficialmente i negoziati che si snoderanno lungo un intricatissimo percorso di canali negoziali che affronteranno i punti cruciali ancora da risolvere per dare attuazione agli impegni presi tre anni fa a Parigi.
 Fondi per le politiche climatiche, quanti e da chi, meccanismi di verifica dell’attuazione degli impegni, come e quando, le regole per l’attuazione degli accordi di Parigi, fino a quanto e da parte di chi.

E’ il “quaderno” di Parigi, il “Paris Rulebook”, quaderno dei compiti ancora da assegnare. Ad una scolaresca assai indisciplinata tra chi prova a fare il primo della classe, chi dietro ai banchi da fastidio, e chi preferisce giocare nei corridoi. Per i rappresentanti dei popoli indigeni accorsi nella gelida Polonia la prima sfida sarà quella del negoziato di questa settimana sulla “piattaforma dei popoli indigeni e delle comunità locali per la conoscenza tradizionale”, ossia la modalità con la quale le conoscenze ancestrali dei popoli indigeni e delle comunità locali verranno messe a disposizione della comunità internazionale per essere applicate nei programmi di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici.
Detta così parrebbe una gran conquista, e così si era prefigurata a Parigi. Poi con il passare del tempo, la cosa ha iniziato a prendere forma, e con essa si sono svelati i punti critici e i possibili rischi.
Anzitutto cosa sono le comunità locali: a differenza dei popoli indigeni, non esiste al momento una definizione accettata dalla comunità internazionale su cosa si intenda per comunità locale, può essere una comunità contadina, un villaggio, un ente locale, una comunità di pescatori o di imprenditori.
E’ una questione neanche semantica, ma anche di classe, di identità e di etnia. Quando parli con un indigeno lui ti dice: “Sono prima indigeno e poi semmai contadino o pescatore”. Non viceversa.

E poi come ancorare anche questa “messa a disposizione” in una cornice chiara fondata sul diritto alla autodeterminazione e sui diritti umani e dei popoli indigeni. Anche qua la differenza non è di poco conto, e riguarda la necessità di evitare che sotto la stregua di un riconoscimento del ruolo virtuoso delle culture e pratiche indigene si apra la via ad una nuova modalità di “estrattivismo” non necessariamente “fisico” delle risorse naturali, ma immateriale, quasi “ontologico”, che estrae valore di mercato dalla conoscenza ancestrale.

Da molte parti già di pensa che questo appuntamento poco porterà di nuovo nella storia della Conferenza ONU sui Cambiamenti Climatici, tanta resta la divaricazione tra urgenza dettata dai fatti e dalla scienza e la concretezza degli atti e della determinazione della comunità internazionale a muoversi bene ed in fretta.
Stavolta sarà molto complicato elaborare la classica strategia dentro-fuori perché fuori gli spazi di agibilità e iniziativa sono praticamente serrati.
Nessuna manifestazione possibile, presenza neanche tanto discreta della polizia financo a Cracovia, quindi lontano dal sito della conferenza.
Il fuori me lo ha spiegato bene ieri sera Marta Lempart, attivista per i diritti delle donne, e per il diritto alla scelta.
La incontro in un caffè del centro storico di Cracovia, tra un treno e l’altro che la portano da mesi ormai in giro per il paese, a cercare di tenere assieme una rete di attivisti e attiviste che sfidano il potere, e l’intreccio fatale tra governo e Chiesa.
Ci hanno provato mesi fa con una marcia in piazza, ci hanno riprovato un paio di settimane fa, per essere attaccate e minacciate, insultate e aggredite da gruppi neofascisti e nazi per le strade di Cracovia sotto lo sguardo impassibile della polizia.
A Varsavia i fascisti marciavano per celebrare l’indipendenza, assieme a esponenti del governo e parlamentari. Mi dice Marta, attenti che in Italia rischiate lo stesso, per questo vorremmo che il nostro messaggio arrivi anche a voi.

Noi qua siamo soli, isolati, ognuno di noi lavora e fa politica la notte, nei ritagli di tempo, e rischiamo grosso. Non abbiamo spazi di enunciazione, poco accesso ai media, l’unica radio che resiste solo perché l’ambasciata americana ha fatto la voce grossa. Le fake news e i troll inquinano i nostri social media e determinano i termini della discussione pubblica. Noi proviamo ad uscire dalla capitale, a decentrare il nostro lavoro perché è nelle periferie che cova il germe del fascismo, un ur-fascismo direi io. E le ONG tradizionali pensano che siamo solo dei movimentisti, loro sono chiuse nei loro uffici a Varsavia e non realizzano che il restringimento degli spazi di agibilità riguarda anche loro, tutti e tutte noi. Unico alleato, il difensore civico, l’ombusdman, eletto a sorpresa e grande attivista per i diritti umani. Anche lui circondato, ma nostro unico baluardo“.
Le parlo dell’Italia, di come anche da noi sta arrivano questa onda lunga, (sorride e mi fa ma quale onda lunga, quello è un uragano) fatta di criminalizzazione dei difensori dei diritti dei migranti, di decreto sicurezza, e altre amenità varie. Impressionano le coincidenze neanche tanto casuali nei concetti, criteri, pratiche di quest’onda ur-nazionalista, conservatrice, identitaria.

Marta mi racconta anche di come queste forze ultra-cattoliche di destra lavorino assieme su scala paneuropea, di come il tema dei diritti umani viene ripreso, rielaborato e risputato secondo la propria convenienza politica.
Per un disegno che non li nega ma li ricostruisce in maniera parossistica come a voler costruire davvero una nuova cornice di rifermento per la comunità umana.
E’ questo forse, piuttosto che la volontà di violare i diritti umani, che in quel caso hai strumenti, sai come reagire, l’aspetto più grave e la sfida maggiore per tutti noi. Dentro il palazzo della Conferenza, questo urlo non arriverà. Non siamo come a Parigi tre anni fa, quando le strade si riempirono per due settimane di movimenti di ogni parte del mondo, per rivendicare giustizia climatica, diritto all’auto-determinazione e all’auto-organizzazione. Erano moltitudini che si erano messe dalla parte della Madre Terra, dalla parte del cielo. Non portavano certo giubbetti gialli.

(*) Tratto da Comune-info.net.

alexik

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