La Città – 1

di Mauro Antonio Miglieruolo

IN SETTE PUNTATE

***

Senza Tempo I

La Città soggioga, usurpa, divide, s’allarga e si effonda, s’anima e si spegne, ma anzitutto vive per vivere a nostre spese. La Città si spiega in profondità e estensione, s’espande in altezza e dentro il suo medesimo essere, per sostituirsi e noi non essendo più noi lo scopo, ma lei, la Città, le sue esigenze, i suoi dinamismi, le sue infamie. La Città è un mostro protoplasmico che tutto assorbe include divora, cancella e uccide. La Città è l’antesignano di tutti gli orrori concepibili e concepiti, è lei che li anima distruggendo le anime, annientando le speranze. La Città è l’incubo permanente che l’umanità ha creato a espiazione delle sue colpe, quelle vere e quelle presunte, con l’inane scopo di attenuare gli enormi complessi di colpa, per moltiplicare liberamente le ingiustizie, le prevaricazioni, le sofferenze che sparge a piene mani contro coloro che la abitano. La Città devasta, spietatamente opprime. Io, i molti, voi che leggete e gli altri che rifiuteranno di farlo, nessuno dalla Città troverà scampo.

Il ritratto di tutte le Città s’attaglia anche alla nostra Città, la mia, lo vostra città, grande o piccola che sia, gorgo indefinibile entro cui vengono risucchiati gli esseri; luogo dei budelli ciechi, dell’afflizione e della violenza. Nella Città si marcisce, ci si perde. La mortificazione è la sua unica legge, la prostituzione il suo unico approdo. In ogni differente possibilità di spazio e di tempo, per migliaia e migliaia di chilometri quadrati, forse ormai milioni e decenni interminabili, ha termine la nostra Storia. La Città è il vicolo cieco d’ogni scalata al cielo.

 La Città è un corpo vivente che pulsa, che urla, che esige; ha fame e chiede vittime, sempre nuove vittime e mai ha termine la sofferenza che produce. La Città è tale almeno soprattutto per chi è in basso, non solo socialmente: in basso topicamente. In basso materialmente, nel basso dei livelli abitativi infimi posti al disotto dei livelli stradali, confino obbligato per tutti gli esseri a cui non si permette di vedere la luce. Ma è crudele, anche se finge di non esserlo, anche per i fortunati che vivono a livello della strada e di tanto in tanto, durante i fausti minuti che precedono e seguono il mezzogiorno, vengono occasionalmente colpiti da un vago raggio sole, affinché sia subito sera.

 È indulgente soltanto con i privilegiati dei piani alti e altissimi, e più in alto ancora, per arrivare alle vertiginose altezze del potere, là dove vigono i giardini pensili, gli attici-girasole e gli abitanti-libellula. Per loro qualche sollievo è ammesso, qualche ansito di gioia consentito. Per tutti gli altri il disdoro dell’incertezza e della paura persino di aprire la porta. Se la apri non sai quel che potrà succedere. Puoi essere aggredito, ucciso, derubato o anche solo arrestato.

 La storia di coloro che abitano in appartamenti panoramici e hanno milioni di euro a far da scudo, io questa storia non ho mai conosciuto. O sì sentito parlare di lussi e di abbondanza, di tranquillità e certezza del domani, non sono però certo di conoscere bene il senso vero di queste parole. Perdonate perciò, sono quel che sono, parlo nella mia diversità, sulla mia norma ragiono e dico. Dico della Città e dei peggiori anni che vi ho trascorsi. Dico di storie del cattivo esempio e del mio personale squallore; dell’alitosi perenne e della disperante assenza di prospettive; delle sbornie con cui chiudere le serate troppo tristi e del cibo per topi che mi toccava ingoiare. Storie del giorno e storie della notte. Storie del giorno per aiutarmi a trascorrerlo. Storie della notte per addormentarsi sperando che sia l’ultima. Storie per storiellare, per lasciare una traccia di se stessi. Per non sentirsi soli. Storie.

 Una o più, non so, comincio e vedremo dove la penna mi indurrà ad apporre la parola fine.

 UNO

Sospinto dalla fame, autentico zombi del XXII secolo, vagavo come molti miei simili al Primo e Secondo Livello Strada, gli unici ci fossero consentiti senza uno speciale permesso, speranzoso di incappare in qualcosa mi desse la possibilità di sbarcare il lunario. Qualcosa di lecito o illecito non importava, purché fruttasse gli euro necessari a rifornirsi di che ingombrare lo stomaco. Per la verità, spento com’ero, poiché ancora giovane e di non malvagio aspetto, valutavo persino l’eventualità di vendermi, pensiero orribile che continuava ad affacciarsi sogghignando (esatto, sogghignando) tra l’uno e l’altro moto di rabbia e invidia; vendere una parte del mio corpo, un organo, il sesso… vendere la libertà, mettersi al servizio di qualcuno, per fare al posto suo il lavoro sporco… vendersi e basta… una possibilità, la più facile, l’unica in effetti praticabile… l’unica consentita dalle magnifiche sorti e progressive del Libero Mercato, che molto dice e promette, nulla mantiene. La soluzione quindi era lì, a portata di mano, stava nel business, lo specifico business dei poveri. Non era pronta però la coscienza che contro quel pensiero continuava a produrre avversione.

Niente punti di non ritorno, continuava a suggerire per arrestare la marea montante della tentazione, alias disperazione. Niente mortificazioni della dignità. Meglio ammazzarsi allora.

Le possibilità non mancavano. Bastava scavalcare la rete di protezione e gettarsi da un ponte. La gente avrebbe fatto “ohooo!” e io pure, solo più forte, al massimo del volume: “Ohhhhooooooo!” e sarebbe sceso il sipario. Potevo aprire la bombola del gas e respirare quel poco che ancora conteneva per prendere commiato. Oppure ecco, gettarmi sotto una veicolo qualsiasi… quel grosso camion che stava scaricando i rifornimenti per un mobilificio, ad esempio; quello sarebbe andato bene. Era grosso abbastanza e l’autista con lo sguardo sufficientemente pazzo da frenare con una frazione di ritardo…

Un giorno, esasperato dal mio stesso dibattermi in quelle prospettive, mi ero effettivamente arrampicato su quella rete. Mi ero tirato su per un paio di metri, stavo già per superare con la testa il bordo superiore, e però mi fermai. Restai con le dita attaccate alle maglie della rete, vittima di un progressivo avvilimento. Esitavo non per attaccamento alla vita (che era vita, quella?), ma per rabbia di tutti gli stronzi che passavano sollevando appena lo sguardo e nessuno che dicesse niente, che mostrasse un qualche turbamento. Che gliene fregava a loro? Non appartenevo alla cerchia ristretta delle loro conoscenze, né parte di un gang, potevo fami tutto il male che volevo, uccidermi anche cento volte, se possibile. Sarei stato un numero in più nelle statistiche e basta. Ah, sì, anche una notiziola di venti secondi da relegare nelle trasmissioni locali…. Guardai tutti loro passare stolidamente, inconsapevoli d’altro che del loro successo-insuccesso, la Francesca che non gliela dava, l’ex-coniuge che lesinava sugli alimenti, e me ne passò la voglia (di buttarmi di sotto). La spinta si esaurì e scesi, senza neppure essere imbarazzato da quel nulla di fatto. Me ne era passata la voglia anche il mese precedente, preso da un raptus uguale. Stavo per scavalcare quando una vecchina bisbetica, non tutti siamo uguali (per fortuna) a questo mondo, m’agganciò il piede con il bastone e ordinò:

– Giù giovanotto! Scenda immediatamente!

Il bastone poi me lo diede sulla testa, gridando: – teppista! Incosciente!

Bei ricordi!

Ero perso in simile considerazioni e altri di pari dislivello, quando l’auto mi si affiancò, il finestrino scese giù e un viso d’angelo si affacciò per sorridermi. Fu lo stesso che l’affacciarsi del sole dopo un intero giorno di tempesta. Una specie di aurora…

– Eh! – fece la donna, in un tono che, per quanto lieve, mi permise immediatamente di riconoscerla. Era della mia stessa tribù. Chissà in quale modo era riuscita a uscirne? – Eh, tu! – insistette. – Ti va di guadagnare 50 euro? – La voce era flautata, ma lei accentuava, volutamente, come canticchiando.

Mi andava, eccome! Anche solo di guadagnarne cinque, se era per questo. Guardai il mezzobusto mezzofuori della donna e mi dissi che, avessi avuto quel cinque, qualunque cosa mi fosse stata chiesta, pur che comprendesse lei, sarebbe stato lo stesso che guadagnarne cinquemilioni. La felicità (per un po’, almeno). Quel tipo valeva molto più di quel che offriva. Una Madonna, per dire, così capite tutto. Uno quei visi d’angelo che è possibile ammirare nei quadri dei pittori d’altri tempi. Lo sportello dell’auto era la sua pedestre cornice! Cinquemila euro soltanto per guardarla sarebbero stati pochi persino. Per parlarci poi cento volte la posta. E per il resto, chissà quanto, mille, diecimila. E tutto questo era toccato a me, in un vertiginoso istante pieno di grazia. E gratis! Anzi no, pagato persino!

Mi congratulai con me stesso. Dopotutto non ero tanto iellato quanto mi piaceva credere. Continuai a guardarla, cercando di non parere (magari mi avrebbero presentato il conto), ben deciso a farmene una scorpacciata. Era mora e con una carnagione che induceva a sospettare facesse il bagno nel latte tutte le mattine. Occhi vivi, grandi, verdi. L’espressione mite, cordiale. Sorrideva dietro lenti che, solo quelle, sarebbero bastate a sfamarmi per sei mesi.

– Ti è cascata la lingua, boy? – continuò a modulare la mora sempre affacciata al finestrino. Il suo viso ricordava anche quello di certe Veneri appena uscite dalla schiuma del mare; o delle Primavere delle quali rappresentavano il profumo nel profumo di fiori dell’alito.

– No, non mi è cascata, – risposi tirando dritto, le mani in tasca e ignorando l’auto che continuava a venirmi dietro. Conformai l’espressione alla mia migliore da duro dei livelli infimi, di colui a cui non frega niente di niente e aggiunsi: – Niente casca a me.

– E allora rispondi, no? Ti va di guadagnare cinquanta euro?

– Sìcchemiva! Occhenonmivà? Sonomicascemo!

Lei sorrise. Si illuminò tutta. Tutta.

– Sali, allora…

Mio dio, una marchetta! E che marchetta! L’auto si arrestò, lei aprì la portiera e salii.

Non avrei mai dovuto farlo.

 

DUE

Era un pezzo che andavamo. In silenzio. Io non sapevo che dire, loro non avevano voglia di dirmi nulla. Andavamo…

Loro.

La superfemmina e un paio di tipi ad armadio, mascella quadrata, uno al volante, uno al suo fianco immobile silenzioso palesemente annoiato; neppure mi avevano salutato.

Affanculo! Che mi fregava di loro? considerato l’angelo-madonna che sorrideva al mio fianco?

La terrà finì e noi continuammo ad andare. Ai due lati, per chilometri, l’acqua; dietro la Città, una montagna di cemento compatta che incombeva minacciosa, tanto alta che sembrava potersi rovesciare in mare e colmarlo della sua inesausta volontà d’espansione. Davanti invece altra acqua, imprigionata da innumerevoli moli e sbarramenti, acqua che mugghiava invano contro le sterminate profanazioni della sua continuità operate dall’uomo. Povero mare! Non sarebbe stato nulla se il molo su cui procedevamo fosse stato il solo. Numerosi altri, di dritto e di rovescio, e pure in obliquo, aggiungevo grigio al suo grigio superinquinato: nonostante gli enormi apparati di depurazione si trattava di un mare morto, da tenere a bada, altrimenti avrebbe prodotto altra morte. L’auto rallentò per imboccare una diramazione minore che finiva in una grande rotonda deserta, battuta dal vento. Riprendemmo velocità, per raggiungerla.

Fu a quel punto che la donna riprese a parlare.

– Voleva suicidarsi il piccolo…

Disse “piccolo” nonostante fosse lei a essere piccola, in relazione ai gusti imperanti. Uno e sessantacinque, valutai, una venere tascabile in pratica, belle mani, bei seni, belle cosce, che sfoggiava con disinvoltura, in un insieme che più e meglio non avrebbe potuto essere (un gioiellino, quella donna). Lo disse senza smettere di sorridere, mentre i due davanti invece no, fecero qualcosa di sgradevole, sogghignarono. Ma non finì lì. Il loro sogghigno si trasmise alla mora, la cui bellezza attenuò, acquisì un che di inquietante. Non mi piacque quel ghigno, un ghignetto per la verità, disegnato sulla faccia di Madonna. Non le stava bene, non le donava. A me dette disagio e inquietudine. Oscuramente pensai, cominciando anche a temere, “mi tenevano d’occhio”.

– Non lo sai che è proibito? – continuò lei.

Lo sapevo, ma che m’importava? Avessi dovuto fare solo quel che era ammesso, non avrei fatto più niente. Ma perché poi se ne interessava? E, soprattutto, perché mi avevano portato in quel luogo ameno, lontano dal mondo, anche se in cospetto al mondo?

– È tosto, – concluse lei rivolgendosi ai due armadi seduti davanti. – Un po’ ci si atteggia, un po’ lo è effettivamente. Guardate, impassibile. Per quel serve  a noi è OK, più che OK. Dovrebbe fare una ottima riuscita…

Aprì la pelliccia. Sotto era nuda. Nuda e tutta bianca, salvo il triangolo riccio riccio da superdotata alla congiunzione delle cosce. Due cosce perfette, cospicue e perfette, che si indovinavano sode sotto la pelle liscia e nivea. Qualche neo, qua e là, per rendere vezzoso quel che altrimenti sarebbe risultato soltanto imponente. Le schiuse con grazia, però sgraziatamente assunse una posa un tantino sguaiata, da attrice porno di maniera, lanciandomi da sotto in su un’occhiata provocatoria e un pochino sfottente.

– Scommetto che non hai mai visto nulla di simile…

Scommetteva bene. Scommetteva facile. Le donne di quel livello venivano immediatamente risucchiate verso l’alto, verso il danaro, verso la perdizione. Come avrei potuto vederle se, passati i 14 anni, diventavano invisibili? Nell’alto delle loro suite al cinquantesimo o centesimo piano di ricchezza?

– Dai, non essere timido. Allunga la mano, senti come sono soda. Senti senti!

Scoprì il seno. I capezzoli già turgidi.

– Ma che broccolo! Te ne stai lì immobile, impietrito, pur avendo tutta questa grazia di Dio a disposizione! Allunga quella stronza di mano, dai!

Allungai la stronza della mano. Impossibile non farlo. Mi avevano caricato apposta e non potevo sottrarmi. Allungai la mano e constatai che davvero era di marmo, proprio come aveva annunciato.

– L’ha toccata, – grugnì allora l’autista, senza minimamente accennare a rallentare. Il compare gli fece eco. L’avevo toccata. Di nuovo l’autista: – Ha le mani lunghe l’amico…

– E vorrebbe pure cinquanta euro! Ne dovrebbe pagare lui cinquemila per avere tastato!

Guardai fuori, in direzione dell’acqua che scorreva, trascinata dalla marea e spostata dall’illusione ottica data dal nostro movimento. Ero imbottigliato tra la plastica dell’auto e il mare, tra la velocità e l’avvilimento. Ero dibattuto tra la capacità di capire che forniva l’esperienza e la volontà di non capire a cui si aggrappava la paura. Scelsi di non capire, ma lo stesso avevo capito, per cui ebbi ancor più paura.

Ero lì, solo, in mezzo a tante cose, nessuna delle quali m’avrebbe portato qualcosa di buono. Auto, mare, donna e mani grandi come badili.

– Beh! Dopotutto il passaggio che si è preso gli spettava, – affermò la donna. Mi fissò dolce dolce. – Sei un bel fico, sai? Mi piaci…

Gli uomini seduti davanti sghignazzarono. Sghignazzavano sempre loro, non sapevano fare altro.

– Dai, approfittane, toccami ancora.

Non la toccai. Lo stesso l’autista ebbe a che dire.

– Non l’ha toccata, – grugnì. Il compare sempre d’accordo. – Deve ancora imparare ad obbedire alla Signora.

Non commentai, non protestai, neppure pregai. Sapevo che non sarebbe servito. Sarebbe stato persino peggio. Se tacevo invece potevo cavarmela con poco. Qualche dente rotto, un po’ di ecchimosi e una quindicina di giorni a fare cai-cai nel riposto oscuro puzzolente del mio personale tugurio.

La gran fica si carezzò ostentatamente le cosce, voluttuosa.

– Massù, dai, non prenderla così, vogliamo solo divertirci un po’.

Già, a mie spese. Non lo dissi. Anche quello nella speranza di riuscire a cavarmela. Un poco.

Gran fica fu spietata. La mise giù dura, il più dura possibile. Allungò la mano e la poggio dove diceva lei.

– Ma non ha niente questo qua sotto! Niente in mezzo alle gambe! è un bluf costui! Una truffa, un cazzo di raggiro! Possibile, ragazzo? Alla tua età? Su su coraggio, non startene lì con quella espressione impassibile, fai qualcosa, fattelo venire duro…

Mentre lei diceva e straparlava io pensavo, ancora illuso, forse riesco a cavarmela. Forse, se faccio a modo loro, me la cavo con poco. Se non offrivo alibi per infierire non avrebbero infierito. Purtroppo l’uccello, pazzo come tutti i suoi pari, rifiutava di collaborare. Non solo perché, con la strizza che avevo, era davvero difficile farselo venire duro; ma soprattutto perché il suo cervello balzano (il cazzo è il vero terzo cervello del maschio) avevo capito quel che mi ostinavo a non voler capire. Che non esisteva alcuna via d’uscita, alcuna speranza di evitare il peggio.

– Ma che roba! Che roba! – aveva intanto preso a litaniare la donna. – Altro che OK. Non ci si può ricavare un bel nulla da questo tipo. Altro che scoparci!

Richiuse la pelliccia. Si ricompose. – Macchédelusione! Che delusione, amico!

L’auto si fermò. La rotonda, grande, il lastrico sconnesso per i troppi anni d’incuria, ci diede un benvenuto di silenzio. Solo qualche refolo di vento lo interrompeva e il lontano sciabordio dell’acqua, dieci metri più in basso. Guardai speranzoso in direzione del chiosco che un tempo aveva rinfrescato le coppie di passaggio. Era più che chiuso. In rovina, abbandonato. Anche l’area di parcheggio era deserta. Tristezza e desolazione. La speranza mi abbandonò.

– Dai, scendi, – esortarono gli energumeni, scendendo a loro volta.

Esitai.

– Scendi, su, – confermò la mora, sempre dolce dolce.

Sorrise di nuovo e di nuovo, nonostante tutto, la luce nell’auto idealmente raddoppiò. Era sorta una nuova radiosa aurora. Era lei, la Donna, nel suo essenziale di concentrato di grazia, incanto e possibile (solo possibile) compassione.

Forse me la cavo, pensai ancora una volta scendendo. Che altro avrei potuto pensare?

Non me la cavai.

Non appena misi il capo fuori ricevetti un colpo violento sulla nuca. Scivolai in terra. Mi sollevarono. Un secondo colpo violento allo stomaco. Vomitai. Vomitai a lungo. Acidi gastrici, per lo più. L’uomo dalla mani a badile mi teneva per i capelli e io vomitavo. Gentile, in fondo. Mentre vomitavo mi colpì tre o quattro volte al viso e dopo in altre parti del corpo, nei punti più dolorosi.

Ci sapeva fare. Colpiva rapido, efficiente, utilizzando il minimo sforzo. Un ex-pugile, pensai. Mi lasciò riposare un po’ e riprese a colpirmi. L’altro mi teneva e lui colpiva. Una seconda pausa e ricominciò a macinarmi. Quando mi lasciarono perdere avevo appena la forza di gemere. Di tossire e di gemere. Si presero un paio di minuti per crogiolarsi con i miei lamenti e ripresero, tutte e due insieme, imperversando con la punta delle scarpe. Udivo la voce della Signora che incitava infoiata, più forte, colpite più forte, rompetegli il culo, FATELO CACARE SOTTO! Insieme ad altre delizie irripetibili. E mentre udivo lei, raggomitolato in terra, rotolando per allontanarmi dalla punta ossessiva di quella scarpe, le mani sulla testa, sentivo la voglia di piagnucolare che la smettessero, basta, per pietà, non picchiatemi più, così mi ammazzate! Così mi ammazzavano! Ed era solo per lei, a causa di Madonna, se tacevo e incassavo; per orgoglio, per non mostrarmi debole, ma anche a causa di quello che diceva, frasi da schifosa e il tono ormai isterico con cui aizzava i due energumeni. Più forte! Più forte! Non ululava altro ormai, ossessivamente, selvaggiamente. La voce le si trasformò, divenne rauca, profonda, mentre pronunciava frasi smozzicate, da febbricitante. Sì, così, così! urlò a un certo punto ripetutamente. Le stava succedendo qualcosa, qualcosa di spiacevolmente piacevole. Di abominevolmente piacevole. Seguì una lunga pausa di affannato silenzio. Gli energumeni allora smisero di colpirmi e restai singhiozzante in terra, una larva umana, un unico informe impasto di dolore, umiliazione, denti e costole rotte. Attraverso le nebbie di quell’umiliazione vidi i due che tornavano verso l’auto, dove Madonna li aspettava il sedere poggiato alla carrozzeria, un piede sul predellino, la gonna aperta sul davanti. L’autista le fu addosso e lei ricominciò con la sua litania di sì, così così e più forte più forte! sbatacchiata contro la plastica dal colosso che prima aveva sbatacchiato me. Con maggior gusto da parte di tutti e due questa volta e miglior ragione, esagerando un bel po’, esagerando entro l’esagerabile per farne uscire una mitica rappresentazione sessuale. Recita pura, sospinta dal puro piacere di rappresentarla; il puro piacere fisico che ne derivava.

Svenni. Per alcuni minuti non ebbi più consapevolezza del mondo. Ritornai in me con la coppia Venere-Energumeno ancora impegnata nella loro straordinaria lotta, fatta di supergemiti e bestiali grugniti. Tutto esagerato, tutto ostentato, come doveva essere. Come, probabilmente, in gran parte era. Dissi un’altra volta ciao alla realtà e poi una terza volta ancora. La scena si concluse proprio mentre ritornavo per l’ennesima volta alla realtà. In tempo per assistere al finale iperbolico, una vera Apocalisse.

Bella scena! Ben recitata! Valutai cinicamente. L’autista finì e toccò all’altro. Assurdamente, mentre il secondo picchiatore tirava giù la lampo e lo tirava fuori, invece di preoccuparmi del mare di merda in cui ero immerso fino al collo, pensai all’affare enorme che ne uscì fuori. Invidia! odio! odio allo stato puro!

L’autista si ricompose e mosse alcuni passi nella mia direzione.

– Non ti ha mai detto nessuno di non prendere caramelle dagli sconosciuti? – mormorò piano chinandosi.

Si chinò per spruzzarmi qualcosa in faccia. E poi sul resto del corpo. Un dolore atroce mi pervase tutto, dalla testa ai piedi. Ogni ferita, ogni contusione, pulsò e brucio, mille volte più di prima. Allora sì che urlai. Allora sì che, Madonna o non Madonna, sarei stato disposto a chiedere pietà e implorare misericordia. L’urlo però che mi esplodeva in gola, un urlo continuo che non lasciava spazio a null’altro, me lo impedì. Urlare e urlare, senza che questo comportasse alcun sollievo. Solo la pena aggiuntiva di quell’urlo, la gola in fiamme, la pazzia che occludeva ogni orizzonte di realtà.

Avvertii dell’umido nelle mutande. Mi ero pisciato sotto.

NON AVEVO CHUIESTO PIETÀ MA MI ERO PISCIATO SOTTO!

Loro scopavano, facevano le grandi scene di quanto si stavano divertendo e io mi pisciavo sotto.

In questo modo barbaro va il mondo. Chi scopa e chi se la fa sotto.

OK, m’era capitata la parte di quello che se la faceva sotto.

 

(segue La Città – 2)

 

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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