La Nakba, Jenin e i prigionieri dimenticati

di Daniela Pia

Ricorre in questi giorni il 65° anniversario della Nakba, la catastrofe, che ha segnato l’inizio della diaspora del popolo palestinese. Privati della loro terra e delle loro case, gli arabi che da millenni abitavano la terra di Palestina ne furono scacciati, a più riprese, come un corpo estraneo e resi reietti da una scelta basata su una inaudibile menzogna, quella che portò ad affermare che esisteva una terra senza popolo, quella palestinese, per un popolo senza terra, quello ebraico. Frase coniata, in un altro contesto,nel1843 dal reverendo cristiano restaurazionista Alexander Keith e poi utilizzata per giustificare le sottrazioni continue di territori a danno dei palestinesi: anche quelle che portarono gli israeliani ad ampliare i loro confini sino ad appropriarsi dell’ 80% del territorio palestinese da dove fuggirono 750000 uomini donne e bambini che andarono a popolare i campi profughi allestiti in Giordania, Libano, Siria e nella striscia di Gaza. Illuminante, a questo proposito, è l’affermazione che fece Golda Meir, nella dichiarazione al «Sunday Times» (15 giugno 1969) quando affermò «Non c’è un popolo palestinese […] Non è come se noi fossimo venuti a metterli alla porta e a prendere il loro Paese. Essi non esistono». Ma i palestinesi esistevano eccome. Lo racconta il bellissimo e straziante «Ogni mattina a Jenin» di Susan Abulhawa (tradotto da Feltrinelli) quando ricorda che «Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina, l’anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico […] . Gli anziani di ‘Ain Hod sarebbero morti profughi nel campo, lasciando ai loro eredi le grosse chiavi di ferro delle dimore avite, i friabili atti catastali compilati dagli ottomani, i certificati erariali del mandato britannico, i propri ricordi e l’amore per la terra e l’impavida volontà di non permettere che lo spirito di quaranta generazioni restasse intrappolato in quel complotto da ladri». Così ci si addentra in una fetta di storia dalla quale è scaturita l’infinita serie di lutti e tragedie di cui questo libro costituisce una importante testimonianza. La protagonista del romanzo è Amal, che racconta la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la loro terra e confinati nei due km quadrati di Jenin assieme a una moltitudine di persone prigioniere, dentro confini da cortina di ferro, e accatastate le une sulle altre. Sessant’anni si dipanano in queste pagine, facendoci scoprire una storia che nessuno può raccontare efficacemente se non l’ha vissuta, toccata con mano e sentito l’ odore ferroso del sangue dei propri familiari bagnare la terra. Dice Fatima: «Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, come se fosse una componente della famiglia che saremmo ben contenti di evitare, ma che comunque fa parte della famiglia. La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso, Amal. Un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte ti rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe e di proiettili che volevano attraversarti il corpo. E’ un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio». Quando Amal tornerà a Jenin dopo l’esilio negli Usa lo farà con sua figlia Sara, in uno degli ennesimi momenti di tragedia per il suo popolo. Lì ritrova, seppur con fatica, la giusta dimensione delle relazioni più complesse: quelle con chi ha amato di più. Così quando Sara, vedendo per la prima volta Gerusalemme, esclama «E’ bellissima» lei pensa «E’ solo pietra» e si chiede «Perché la dignità e l’onore dipendono dalla pietra e dal terreno?». Una domanda aperta che gronda sofferenza perché la perdita della terra ha determinato anche la perdita degli affetti. Tuttavia quello che colpisce in questa raffigurazione di una tragedia infinita sono la pietà e la mancanza di rancore, anzi direi la presenza della speranza che gli uomini possano incontrarsi nel loro essere semplicemente uomini e donne aldilà dell’essere israeliani o palestinesi. La lett
ura di questo libro è un’esperienza forte che può aggiungere tasselli alla comprensione della tragedia e che mi ha fatto pensare a quanta consapevolezza, da circa un mese, vi sia nella protesta che, un gruppo di detenuti politici palestinesi nelle carceri israeliane, stanno attuando, con lo sciopero della fame, per chiedere l’annullamento dell’isolamento in cui 49 persone vivono da 12 anni. E chiedono per tutti gli altri 5000 detenuti politici: il permesso alle visite dei familiari; che sia impedito il trasferimento coatto continuo; che sia riconosciuto il diritto allo studio di libri e giornali; che sia vietata la proroga “amministrativa” della detenzione; che non accada mai più che le donne detenute debbano partorire con le mani e i piedi legati al letto. Magari si potrebbe cominciare a sperare che i segnali arrivino da qui e che la comunità internazionale apra all’ascolto di queste voci quasi sempre ignorate.

Daniela Pia
Sarda sono, fatta di pagine e di penna. Insegno e imparo. Cammino all' alba, in campagna, in compagnia di cani randagi. Ho superato le cinquanta primavere. Veglio e ora, come diceva Pavese :"In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia".

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