La violenza delle istituzioni nel campo rom di Giugliano

Pagano le vittime

di Emma Ferulano (*)

Non è cosa semplice interrompere la fornitura dell’acqua pubblica, che sgorga dalla terra, soprattutto in una terra che serve ancora alla coltivazione dei campi.
Ci vuole una certa organizzazione.
Chi a Giugliano ha assistito imperturbabile alla scena ci ha raccontato che l’operazione di avvitamento e chiusura del bocchettone dell’acqua è stata infatti piuttosto ardua, con un imponente spiegamento di forze per eseguire gli ordini della Procura di Napoli Nord.
Ma ce l’hanno messa tutta, e alla fine ci sono riusciti.
Mettere in sicurezza, rimuovere i cavi elettrici – ma l’elettricità non c’è più da oltre venti giorni, si va avanti con i generatori –, staccare l’acqua a causa dell’abusività dell’allaccio.
Dopo la morte di Michelle, avvenuta il 13 gennaio nell’insediamento abitativo di via Carrafiello a Giugliano, l’intervento di varie task force riunitesi più volte in tavoli istituzionali, ha portato nell’ordine a: sigilli e interruzione della fornitura di corrente elettrica; blitz di controllo con sequestri di auto e mezzi di trasporto; infine, il giorno 25 gennaio, si è arrivati alla chiusura della fornitura dell’acqua pubblica.

L’ambiguità e la violenza delle istituzioni, in questa drammatica storia, ha raggiunto il suo punto più sofisticato.
Da un lato sui media si racconta una storia fatta di solidarietà, costernazione ed efficientismo, inneggiando alle progettazioni avviate che puntano alla scolarizzazione, anche con stanziamento di fondi europei, ribadendo la volontà di sistemare una volta e per tutte le quattrocentocinquanta persone che da troppo tempo vivono nella totale precarietà e tuttavia sottolineando la necessità di ripristinare ordine e sicurezza. Dall’altro, nella realtà, nessuna pietà e pugno duro.
La strategia è quella che abbiamo già visto in molte altre circostanze: Gianturco, Scampia, Ponticelli, Barra. Siamo di fronte a uno sgombero indotto: se non vi decidete ad andarvene, vi togliamo tutto, inclusa l’acqua, anche a costo di sfiorare l’incostituzionalità e ignorare le risoluzioni mondiali – l’Onu, con risoluzione del 28 luglio 2010, ha dichiarato l’accesso all’acqua potabile e all’igiene un diritto umano.

I colpevoli, ancora una volta, sono le vittime che pagano due, tre, quattrocento volte, e pagano solo loro. Ma la questione dei diritti, quando si parla di rom, è facilmente archiviabile.
Ne è la prova il fatto che tutti i minori di via Carrafiello sono stati rifiutati per anni dalle scuole della zona – qui è stato pienamente violato l’articolo 34 della Costituzione: la scuola è aperta a tutti, l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita – fino a che, dopo la sola minaccia di un intervento della Procura dei minori, ne è spuntata una che, secondo quelli che si occupano da anni di questa battaglia, è stata mandata direttamente dalla Provvidenza.

E alla Provvidenza bisogna ancora una volta affidarsi per vedere come un miraggio, lunedì 29 gennaio, dopo cinque giorni senz’acqua, l’arrivo di una autobotte con cinquemila litri di acqua potabile pagata dall’associazione Arrevutammece e inviata dalla fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana, sollecitata dai missionari lasalliani. Nonostante questa situazione disumana, siccome l’anno scolastico di bambine e bambini rom era finalmente iniziato, in pieno gennaio, in preda all’entusiasmo sono riusciti comunque a mantenere la frequenza.

Nel corso di un laboratorio audiovisivo con ragazzi e ragazze rom e italiani dell’area metropolitana di Napoli, incluso un gruppo di Giugliano, per la realizzazione di un cortometraggio animato sul tema del Samudaripen Porrajmos, l’Olocausto dei rom durante il nazismo, abbiamo scelto la storia di un pugile sinti tedesco, Johann Wilhelm Trollmann.
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Soprannominato Rukeli, “albero” in lingua sinta, per la sua statura imponente e i capelli ricci, e anche Gipsy, soprannome che si farà cucire sui pantaloncini, lui, uno zingaro, diventa campione nazionale dei pesi mediomassimi, in un momento storico in cui la boxe è uno sport che conferisce un certo prestigio agli stati.
È anche per questo che con l’ascesa e il consolidamento del nazismo, inizia la sua persecuzione, che lo porta a perdere tutto, dal titolo di campione, alla figlia e al diritto di procreazione. Finisce la sua vita nel 1944 a trentasette anni in un campo di concentramento. Sfidato da un kapò nazista che aveva riconosciuto il campione nonostante il deperimento della vita di stenti nel campo, decide di accettare la sfida e “di morire da campione”. Ed ecco che prende vita la magia del racconto, ispirato alla realtà, un racconto per immagini e musica che abbiamo dedicato a Michelle.

Rukeli, Gipsy, si infila i guantoni, si dimentica di essere ridotto pelle e ossa, inizia la sua danza, prende a pugni e mette al tappeto il kapò, e con lui l’intero apparato di potere.
Il giorno dopo lo fanno fuori, ma la sua storia è diventata un simbolo.
Abbiamo rivisto il cortometraggio decine di volte nella nostra lettura e riscrittura, che ha intersecato tutta l’ingiustizia concentrata in queste giornate a Giugliano, da quando Michelle è morta.
Tutte le volte ci siamo commossi e dentro di noi, negli occhi lucidi dei ragazzi, si è agitato quel pugile che si batte per la giustizia e la libertà, e non solo per se stesso.

(*) Tratto da Napoli Monitor.
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alexik

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